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Donatella Contini Weber
3° classificata Sezione Narrativa
del concorso Città di Melegnano '96con questo racconto
DUE IN UNA La nostra casa quando c'era il sole diventava due case. Di pomeriggio le stanze sul davanti lievitavano in una luce calda e gialla, di mattina il contrario. Restava sempre una parte in ombra, fredda. E gli occhi passando da una all'altra stentavano ad abituarsi.
Forse per questo mi faceva paura da bambina, se in ombra, la collina boscosa, non alta ma molto vicina: pareva una minaccia. Qualcosa contro cui rimbalzi il suono e torni indietro. Stava lì solida a chiudere, non si poteva spingerla in là, né alleggerirla, e lei invece, chissà, poteva anche avanzare. Per schiacciare la nostra casa con le sue grande vetrate e tanti oggetti sparsi tra le poltrone di velluto color rubino, e i mobili antichi. Indifesi di fronte a lei fatta solo di terra e piante fitte e scure, compatte.
Che strana infanzia abbiamo avuto nella doppia casa, dietro ai grandi vetri, i miei fratelli ed io, inquieti pesci in un acquario, ben custoditi ben vestiti eÉ soli. I figli dei diplomatici non possono viaggiare in corsa dietro al loro padre, stanno a casa: aspettano che torni. E non devono neppure andare a scuola se il paese dove si trovano risulta inospitale e perfino pericoloso. Vengono gentilmente a istruirli persone di una certa cultura, che hanno cura di loro con rispettosa severità. E per uscire c'è il grande giardino di qua dalla collina, invalicabile. Possono correre, andare in bicicletta, hanno perfino un pony e una piscina. Di evadere dal recinto proprio non se ne parla: è sorvegliato da guardie con gli alamari d'oro.
La nostra condizione somigliava a quella delle principesse prigioniere nelle favole. Soltanto che non accadeva mai nulla: non sortilegi di fate cattive né l'arrivo di principi salvatori. Anche se in fondo il sortilegio c'era.
Una o due volte l'anno tornava a casa nostro padre con la sua bella moglie che non era la mamma. Nell'attesa pulizie e fiori in tutte le stanze, e raccomandazioni a noi di stare buoni e calmi, non mettere in disordine, non fare confusione: loro erano stanchi dopo il viaggio.
Stanche a vederli non sembravano. Papà apriva le braccia con il suo sorriso sempre uguale, lei aspettava un momento poi mi faceva una carezza, sollevava il ciuffo dalla fronte di Enrico, accennava un buffetto sulla guancia grassoccia di Piero che era il più piccolo. E la sua voce melodiosa canterellava «Come siete cresciuti! Vedrete che bei regali vi abbiamo portato». C'erano infatti, specie se era Natale, ma così sciocchi, così lontani dai nostri gusti, l'orsacchiotto la bambola il trenino, anacronistici per noi nutriti di fantastici mostri e giochi pericolosi.
«Avanti, ringraziate. Non fate quella faccia da scontenti» diceva nostro padre notando la delusione della moglie.
«Ma no, caro, lasciali fare. Sono io che sbaglio: si vede che non c'indovino mai». Scuoteva il capo mestamente, mentre sprizzavano scintille dai suoi occhi bruni, non per bruciare noi del tutto indifferenti, per nostro padre che invece le sentiva.
Si alzava premuroso, le cingeva le spalle «Non te la prendere cara, non è colpa tua. Sono dei piccoli selvaggi». Aggrottava un attimo la fronte nella nostra direzione, poi si voltava decisamente verso di lei e sorrideva del suo largo sorriso. Inutile soffrirne, non ne vale la pena, pareva dire per rassicurarla.
Non molto tempo dopo eravamo invitati a lasciare il salotto: «Sarete stanchi ora bambini, andate a letto».
Ciò che faceva rabbia a questo punto era l'acquiescenza della governante quel suo annuire come per dire «Certo è tardi» quando sapeva benissimo che non era vero, e che non avremmo dormito quella sera prima di una consistente battaglia di cuscini.
Interminabili cacce al tesoro ricche di indicazioni fuorvianti si svolgevano tra il verde cupo del giardino col tempo asciutto, nelle soffitte semi buie quando pioveva. Eravamo bravissimi a prepararle a turno Enrico ed io, con sorprese e anche trabocchetti paurosi che facevano piangere Piero. Bisognava prenderlo in giro e consolarlo e asciugargli in fretta le lacrime prima che qualcuno potesse vederle. E in fondo la sua paura ci rassicurava, era una risposta esterna, visibile, alla nostra, fonda sepolta. Che pure veniva a galla e ci faceva tremare la notte nei sogni e nelle angosce di inspiegabili risvegli quando scricchiolavano i mobili, fischiava il vento, risuonava un passo o, peggio ancora, non si sentiva nulla assolutamente nulla.
La matrigna ci teneva a fare la zelante con i nostri insegnanti improvvisati: s'informava del rendimento, sfoderava la sua cultura, si esibiva. Stava seduta sul divano rosso, le gambe accavallate, la sigaretta in un lungo bocchino tinto in cima dal rosso delle labbra, che era un rosso diverso, la testa un poco rovesciata indietro per mandare il fumo al soffitto, e faceva brevi domande, non sempre chiare, e frequenti cenni di assenso.
Eravamo stato col fiato sospeso le prime volte, ma presto si capì che si trattava solo di una cerimonia: le notizie erano sempre buone anche se le cose non erano andate affatto bene, i nostri insegnanti ci tenevano a contentarla, si mostravano sicuri, soddisfatti dei loro allievi. Era un tale piacere per loro parlare nella propria lingua e insegnare quel poco che ricordavano dopo anni di assenza dal paese di origine. Un'occasione unica da non perdere, nonostante quei ragazzini, tra risate e dispetti, fossero indisponenti. Valeva la pena di sopportarli.
Così tutto andava liscio e, al momento del congedo la matrigna porgeva la mano, delicata sottile, e mormorava in un soffio: «Ma si ma si che in fondo sono bravi, poveri bambini», come per un segreto, dolcissimo, tra loro.
Di noi tre ero il l'unica che ricordasse davvero la mamma, neppure Enrico ci riusciva, anche se non voleva ammetterlo. All'epoca della sua morte eravamo in un altro paese, molto caldo, e le guardie avevano in testa un turbante. Anche lì era pericoloso, ma un po' meno e noi si usciva spesso con la mamma che aveva un suo modo allegro di sfidare il papà: «Via caro, cosa vuoi che succeda? Lo vedono che sono dei bambini». Buttava indietro i capelli biondi e rideva, e così vinceva ogni resistenza.
Eravamo felici quel giorno, non era troppo caldo, si era perfino alzato un po' di vento che spargeva una polvere sottile. Il mercato era ricco di merce colorata, di voci di rumori, e i serpenti sporgevano con lenti mosse dai canestri aperti. Noi passavamo in mezzo stretti alle sottane della mamma, cercando di sfuggire a braccia e mani che si allungavano a toccarci da ogni parte. Si soffocava così circondati.
La fronte della mamma era sudata e si mordeva un labbro. Disse «Su, ora andiamo» e ci spinse avanti.
Eravamo già fuori dalla calca quando avvertii una presenza alle spalle. Qualcuno ci seguiva, entrò con noi, dietro di noi, e nessuno lo vide. Lo so che ero una bambina fantasiosa e che non è credibile. EppureÉ Fu l'inizio di tutto. Da quel giorno la mamma si ammalò, perse la sua allegria, e non giocava più con noi. Finché rimase a letto col viso bianco tra i cuscini, dietro la zanzariera. Forse è così che la rivede Enrico se è vero che se la ricorda: mentre sta per sparire e affonda, bianca, dietro un velo di nebbia.
Sebbene papà stesse poco con noi, anche quando c'era delegava la moglie lasciava fare a lei, era un brutto giorno quello della partenza. Che sembrava definitiva. La matrigna agitava la mano inguantata dal finestrino e aveva lacrime sospese negli occhi bruni.
«Ma cosa gliene importa di noi a lei?» commentava Enrico sprezzante. Io alzavo una spalla, anche perché non mi sentivo di parlare in quel momento. Mentre Piero, issato in alto dalla governante, faceva larghi cenni di saluto e tirava piccoli baci via via che gli veniva suggerito.
Papà non si vedeva: era seduto dall'altra parte nell'ombra fonda della grande auto. E non so, non abbiamo mai saputo cosa facesse. Aveva ancora il suo sorriso stampato in viso?
C'era stato un tempo, dopo la morte della mamma, che ci aveva voluto bene di sicuro. Pareva anzi che avesse bisogno di noi. Era affettuoso e faceva cose che non aveva mai fatto prima: tenerci per la mano, correrci dietro eÉ perfino pulirci il naso. Ma aveva l'aria triste e in certi giorni, mentre ci carezzava sui capelli, s'incantava a guardare laggiù lontano. Poi il suo dolore toccò fondo e venne il momento di risalire, ritrovare i piaceri della vita. Non fu subito la matrigna, lei non apparve subito. Dapprima furono vestiti casual, troppo larghi, da giovane uomo, e camice colorate a vivaci colori, rosa tramonto e verde primavera, e le cravatte estrose con tanti geroglifici. E soprattutto il modo come diceva «su, bambini, andate a giocare» ogni volta che suonava il telefono, e intanto dentro gli occhi stretti vagava una lucina, nera liquida e rilucente. Era rimasto a casa più del solito in quel periodo, ora riprese a fare lunghe assenze, non tornava da noi tra un viaggio e l'altro e non dava notizie. Finché una volta che sembrava dissolto nel nulla, anche la governante dava segni di nervosismo e noi ci sentivamo abbandonati, ecco che tutt'a un tratto ritornò con la bella signora a fianco e quel largo vuoto sorriso. Di cui non si è più liberato.
Era divertente sfogliare i nostri libri di favole per trovare quelle dove c'è una matrigna. Non tanto Cenerentola che è una noiosa sempre accaldata per il fuoco e grigia di cenere, e neanche la regina cattiva di Biancaneve, sebbene questa fosse bella e ricordasse vagamente la nostra. La preferita era la storia dei bambini portati via nel bosco e abbandonati dal padre per far piacere alla moglie cattiva, che riescono a ritornare se spargono sassolini (le briciole di pane non servono). Lì noi ci sentivamo a nostro agio, pienamente immedesimati, anche se nessuno mai voleva fare la parte del padre se non costretto dalla conta su cui non si discute. Io ero bravissima a recitare due parti: la matrigna cattiva prima, poi la bambina col fratello nel bosco. Anzi direi che ci provavo gusto a fare la matrigna che costringe il padre a diventare snaturato, mi piaceva molto. E secondo i miei fratelli riuscivo perfino a somigliarle.
La governante ci lasciava fare, perché era inglese e non capiva bene il gioco, o fingeva di non capirlo. Le premeva che fossimo educati, educati e gentili nella vita reale. Il resto non importava. Non cercava di entrare nella sfera incantata dei nostri giochi, tra favole e sogni. E gliene sono ancora grata.
Si chiamava Miss Betzy e non aveva età: poteva essere giovane ma non fresca, oppure vecchia ma non incartapecorita. Era agile e svelta ma rimaneva a lungo immobile, senza far nulla. E portava sempre lo stesso vestito, o meglio lo stesso modello di vestito: tre grandi pieghe davanti, colletto alto e cintura in vita. Il colore variava dal blu al verde al turchino secondo i giorni. I capelli gialli stopposi ma forse tinti, erano trattenuti da un nastrino di velluto dello stesso colore del vestito (solo una volta sbagliò: lo mise verde con il blu e noi glielo facemmo notare). Quando voleva giocare con Piero, lo prendeva sotto le ascelle e lo faceva volare al ritmo di una buffa canzone: «I how tippety tow, tippety tippety tippety tow» facendo una specie di giravolta a ogni «tippety». Noi la stavamo a guardare.
Sebbene ufficialmente inglese, in realtà era irlandese e ci teneva. Parlava spesso della sua terra sempre verde e del minestrone profumato che si mangiava in casa sua, un minestrone fatto di mille erbe the very best of every thing che noi neppure potevamo immaginare. Così buono che, mangiato attentamente e di gusto, avrebbe ridato vita ad un morto. A noi pareva strano, ma forse non impossibile, che un morto si fermasse a mangiare il minestrone.
Miss Betzy aveva con i morti una grande confidenza. Se all'improvviso una porta si schiudeva da sé, diceva seria seria: «Avete visto, bambini? È uno spirito buono che vuole entrare». E noi giravamo la testa senza sapere bene cosa bisognava vedere.
Una sera che c'era una luce gialla al posto del rosa del tramonto, poeta e finestra si aprirono insieme mentre noi si cenava intorno alla grande tavola. E poiché il vento era freddo, mi alzai per chiudere.
«Oh no» disse Miss Betzy «keep quite, dear» e mi fece cenno di sedere.
Lei sorrideva beata e come assorta, e noi avevamo paura. Fu allora, in quel silenzio che ci isolava, che Enrico sussurrò «E se fosse la mamma?» e io gli detti un calcio e dissi: «Stupido non capisci niente».
Miss Betzy non parlava mai della mamma perché non l'aveva conosciuta. Ma Enrico sì, e pretendeva di ricordarsela. Come poteva credere di vederla vagare così tra porte e finestre quasi fosse uno qualunque degli spiriti buoni? Non era uguale a loro, lei era una persona intera e anche da malata era pallida sì, ma consistente e continuava a essere bella. Irrimediabilmente bella. Ora, sebbene lontanissima, doveva rimanere la stessa, non poteva cambiare, era la mamma. Solo che una coltre fitta era scesa a dividerla da noi. Fitta e pesante coma la collina al di là del giardino quando restava in ombra. Fitta pesante eÉ invalicabile.
Fu così che ci venne in mente il gioco dei morti, per vincere questa impressione credo. E arrivammo perfino a scavare una buca non molto profonda ma abbastanza larga da metterci dentro Piero, e a cercare di coprirlo con manciate di terra. Che gli sporcarono il vestito con grande scandalo di Miss Betzy accorsa a liberarlo.
Quella sera restammo senza cena, in punizione, mentre Piero cenava solo con Miss Betzy in fondo al lungo tavolo. Dalla finestra della nostra stanza vedevamo volare i pipistrelli, io con un fazzoletto in testa perché sapevo, qualcuno me l'aveva detto, che s'impigliano tra i capelli.
«Non senti?» disse Enrico strizzandomi un braccio.
«Cosa? Lasciami stare» dissi. Invece aveva ragione: si sentiva squittire in aria mentre vagavano incerti della direzione. Mi scrollai per scansare Enrico. «È naturale» dissi «sono topi che volano». E lui fece una smorfia di disgusto.
A notte fonda scendemmo giù in cucina a cercare la nostra cena. Tanto Miss Betzy non poteva scoprirci, o non voleva.
«Dorme?» sussurrò Enrico.
«Certo, a quest'ora dorme».
Si camminava scalzi sul pavimento umido, attenti a non urtare seggiole o casse o pentoloni (che enormi pentole in quella cucina, a cosa mai servivano?) e, nel buio, qualcosa ci passò tra le gambe. Riuscimmo a non gridare tappandoci la bocca con la mano.
Il giorno dopo, metà casa al sole, Miss Betzy era molto allegra, punizione dimenticata niente recriminazioni, e si mise a giocare con noi. Un buffo gioco inglese, un po' stupido ma divertente, che consisteva nel tenere i gomiti sul tavolo e tirarli giù in fretta quando lei diceva «Down quickly» poi rimetterli su quando gridava all'improvviso «Up quickly». Piero restava sempre indietro, perdeva e faceva il broncio. Miss Betzy lo attirò a sé e lo avvertiva con un colpetto al gomito su cosa doveva fare.
Nel pomeriggio il tempo cambiò e venne il temporale. Miss Betzy correva di finestra in finestra con il nastrino fuori posto tra i capelli e un'aria eccitata. Non lo disse ma forse erano spiriti cattivi quelli che spalancavano i vetri sibilando tra lampi e tuoni.
Piero si era nascosto sotto il tavolo perché aveva paura. Enrico ed io stavamo fermi al buio, fermi e zitti. E tutt'a un tratto io sentii un freddo dentro e avvertii una presenza come quel giorno con la mamma dopo il mercato, quando qualcuno era entrato con noi. Non gridai, non mi mossi, ma tremavo. Continuavo a tremare mentre Miss Betzy mi spogliava e mi metteva a letto e mi misurava la febbre. Sedette accanto a me, una mano sulla borsa del ghiaccio che mi stava in bilico sulla fronte. Perché io battevo i denti e rischiavo di farla cadere. Poi smisi di tremare e chiusi gli occhi. Un gran silenzio intorno come se avessero staccato i contatti per non farmi sentire più niente. Braccia e gambe allungate tra le lenzuola, rigide per lo sforzo, mi pareva di essere cresciuta e mi vedevo bella, dietro gli occhi chiusi, bella e distante come la mamma in quegli ultimi giorni. Anzi, pensai con un sorriso interno che non sfiorò le labbra, anzi io ero la mamma. Eravamo di nuovo insieme, lei ed io, confuse insieme. E questo mi acquietò.
Fui sorpresa, ma non troppo, di scoprire la stanza piena di sole e percepire la nota voce di Miss Betzy che diceva: «È fresca oggi, sta meglio».
Qualcuno, dall'altra parte del letto, mi prese una mano e la carezzava.
Con fatica voltai la testa e misi a fuoco l'immagine, protesa china in avanti, della matrigna. Non l'avevo mai vista così: era spettinata e senza rossetto, con il viso disfatto e le occhiaie come se non avesse dormito. E non fumava, bocchino e sigaretta spenta abbandonati nel portacenere sul comodino. Cercai di ritirare la mano ma lei la trattenne. Allora dissi: «Che fai qui tu? Vai via. Voglio papà».
Si mise a piangere ma non sembrava offesa. Erano lacrime che scendevano indipendenti, veloci, sopra al viso disfatto, mentre gli occhi e la bocca sorridevano: «Stai meglio cara» ripeteva «stai meglio finalmente».
Una scena del genere non rientrava in nessuna favola e mi lasciò perplessa.
«Sono stata male?» chiesi «Molto male? Per tanti giorni?»
La matrigna annuiva e anche Miss Betzy. Doveva essere vero. Mi alzai su un gomito per vederle bene in faccia «E papà dov'era? Non stava con me lui?»
«Oh,» disse la matrigna con una specie di singhiozzo «ha tanto sofferto!»
Miss Betzy con la mano raddrizzava le pieghe del vestito.
Io continuai spietata «Non è venuto vero? Non è mai venuto». Abbassai il gomito e mi lasciai cadere sui cuscini: ero stanca. Di nuovo mi sentivo fasciata dal silenzio, inghiottita. E per salvarmi dissi forte: «Non voglio più vederlo».
«Oh don't say such things, dear, you don't mean it really» disse Miss Betzy in tono di rimprovero. Dove andava a finire la buona educazione? Ma la matrigna l'interruppe. Si era piegata sopra di me e mi guardava fisso con gli occhi bruni accesi di scintille. «Forse non dovrei dirtelo» mormorò, «ma tuo padre aveva paura cheÉ» Scacciò qualcosa in aria con la mano «insomma non ce la faceva, ha provato maÉ non poteva vederti, gli ricordaviÉ» e non finì la frase.
Restai senza parole. Dunque era un fatto: io somigliavo alla mamma.
Adesso somigliavo alla mamma: l'esperimento aveva funzionato, anche se, stranamente, ero rimasta viva.
Ebbi un piccolo moto di esultanza e dissi: «Va bene, lo vedrò più tardi».
Miss Betzy approvò con il capo, una due volte, energicamente.
Solo quando fui sistemata e seduta nel letto pulito, si aprì la porta e entrò, come un sovrano in visita, mio padre. Istintivamente presi l'atteggiamento tipico della mamma, a testa alta i capelli buttati indietro e pronta al riso. Lui si fermò e lo vidi impallidire. C'ero riuscita: era turbato.
La fronte appena corrugata, mi guardava smarrito. Stava piegato un po' in avanti così che anche la sua forte corporatura era come spezzata, alleggerita, vanificata. E fu sotto i miei occhi un uomo debole, battuto, indifeso, alla ricerca di qualcosa che gli sfuggiva. Faceva pena e incuteva rispetto.
Non so perché mi venne fatto di pensare che ora era come la mamma sul suo letto, nel ricordo: buttata là come un relitto, eppure ancora e sempre lei, tutta intera. Anzi più bella di prima. Rabbrividii e mi parve di captare, attraverso una fessura, il barlume di una gran luce. Che non avevo mai visto eÉ inebriava. Cosa potevo dire? Aprii le braccia: lo aspettavo. Ma non accadde nulla. L'attimo, fu soltanto un attimo, era passato. La porta con la fessura luminosa si richiuse di colpo, mi escluse, restò sigillata. Con imprevista decisione il padre raddrizzò e venne avanti verso il letto: una mano aggiustava il nodo della cravatta e le sue scarpe scricchiolavano leggermente ad ogni passo.
Mentre ancora aspettavo, me lo trovai vicino incombente dalla sua alta statura come la collina sul nostro giardino. Entrai nella sua ombra e vidi che aveva sulle labbra il solito sorriso, vacuo.