- 8 SETTEMBRE
1945
-
- Domenica,
ai camini il fumo è teso.
- Nugoli
d'aerei, cupo il rombo,
- e
all'improvviso la terra trema.
- Il cielo
si oscura,
- e sembra
chiudersi sui tetti.
- Esito,
poi.... un varco m'apro
- tra
polvere e pietre.
- Per le
scale irrompo,
- e in quel
chiamare disperato
- è
come voler annullare lo spazio
- che mi
separa da mia madre.
- In ansia
le mani ella porge:
- essere
tutti vivi
- è
già un gran dono.
- La pena
s'attenua,
- ma il
silenzio s'è fatto gelido,
- i respiri
son fermi,
- eterno il
tempo!
- Ecco le
prime voci,
- i primi
lamenti,
- il pianto
e le urla
- a svelare
la tragedia.
- Già
i primi feriti
- e i nomi
sussurrati
- dei
sepolti vivi.
- E i morti
sotto le macerie
- che di
nomi si vestono e la carità
- ai
familiari tiene segreti.
- Angoscia
non finisce qui,
- ora suono
ha di sfollamento.
-
-
-
- A
GESUALDO
-
- Dentro il
lamento mi porto
- d'esule. A
me vieni, dolce
- mio paese,
e non solo come nome.
- Rimembranza
e suono
- d'antichi
moti e accenti.
-
- T'ho
rivisto, e più non sei
- come ti
lasciai: mutato ora
- di forma e
di colore,
- e sui
volti il tempo pesa,
- e dei
vecchi voce è spenta.
-
- Per i
più giovani sono
forestiero:
- così
ignoto alla mia terra
- e ospite
sotto altro cielo:
- due volte
straniero. Tal è la condanna
- di chi
lascia la propria terra.
-
- E quella
cara mano che l'anima
- mi piegava
al riso e al pianto
- non
c'è più a scrivermi di te.
- Pure il
tuo volto a me scompare per le ferite
- che il
terremoto ti procurò
nell'ottanta.
-
-
-
- AL VECCHIO
MULINO
- Carichi al
mulino stanchi
- arrivano
gli asini, e solo di rado
- buoi
aggiogati al carro.
-
- Aiuto
porge il mugnaio,
- e i sacchi
pesati, sullo scrimolo
- attendono
il segnale.
-
- Liberi i
granelli
- la
tramoggia ingoia
- e come
enorme clessidra
-
- pare
scandire il tempo.
- Rumorosa
la mola
- copre il
vocìo e senza posa,
-
- la
granaglia stritola.
- Un getto
prorompe fluente,
- improvviso,
fragrante,
-
- men rado,
più rado.
- Tra
l'aereo friscello
- e lo
stridore della macina rotante
-
- il mugnaio
della farina il getto
- rompe, non
per voluttà o passatempo,
- ma per
renderla più fina.
-
- E come i
sacchi s'involano
- al mugnaio
il cuore
- due volte
torna felice.
-
-
-
- I MIEI
NATALI
-
- Cinquanta
già ne conto e dei lontani
- più
chiara è la memoria.
- Nella
fumosa cucina tra odori acri
- la solerte
madre il chiacchierìo
- frenava
con severità di sguardo.
-
- La veglia
si popolava
- di
racconti e di passati Natali.
- Occhi
stanchi vinti da sonno
- profondo,
mentre il crepitìo
- dei
mortaretti cresceva per le vie.
-
- Mezzanotte,
Gesù nasce al canto
- del Te
Deum tra scampanìo
- solenne e
nuvole d'incenso!
- Canti e
recite di bimbi
- che per le
mamme nuovi palpiti destano,
-
- mentre il
bisbiglio cresce tra i fedeli.
- Fuori, la
notte, non gelida,
- piena
è di stelle.
- Orme umane
s'allungano
- su
lucentezza di neve.
-
- Nel
pensiero già è il nuovo giorno.
- E
all'augurio di Buon Natale
- ciascuno,
rincasando, ripieno
- è
di speranza e di gioia.
-
-
- Cinquanta
già ne conto e dei lontani
- più
chiara è la memoria.
- Nella
fumosa cucina tra odori acri
- la solerte
madre il chiacchierìo
- frenava
con severità di sguardo.
-
- La veglia
si popolava
- di
racconti e di passati Natali.
- Occhi
stanchi vinti da sonno
- profondo,
mentre il crepitìo
- dei
mortaretti cresceva per le vie.
-
- Mezzanotte,
Gesù nasce al canto
- del Te
Deum tra scampanìo
- solenne e
nuvole d'incenso!
- Canti e
recite di bimbi
- che per le
mamme nuovi palpiti destano,
-
- mentre il
bisbiglio cresce tra i fedeli.
- Fuori, la
notte, non gelida,
- piena
è di stelle.
- Orme umane
s'allungano
- su
lucentezza di neve.
-
- Nel
pensiero già è il nuovo giorno.
- E
all'augurio di Buon Natale
- ciascuno,
rincasando, ripieno
- è
di speranza e di gioia.
-
-
- L'AQUILONE
-
- Giorno di
festa. Allegri i bimbi
- al poggio
vanno con l'aquilone.
- Ed ecco
librarsi, prender quota,
- e dalle
mani filo sottrae il vento.
-
- Nell'azzurro
s'innalza, indugia,
- e
cullandosi perde quota, risale,
- lotta col
vento; poi imponente va,
- sospinto,
come nuvola bianca, e va...
-
- Alla
fantasia un aereo diventa
- e una
cloche il filo
- che il
bimbo intrepido manovra;
- e allo
sguardo, in cielo, diventa un
puntino.
-
-
- Col nasino
in su tutti
- lo
guardano attoniti.
- Poi un
colpo di vento
- e
l'aquilone in basso è sospinto.
-
- Rotea,
perde quota
- e come
uccello ferito
- su quercia
secolare cade.
- L'amaro
filo il bimbo ritira
-
- assieme a
strisce di carta.
- Mutano i
tempi ma nell'infanzia ,
- in cuor,
si agitano sempre
- gli stessi
sentimenti.
-
-
-
- DUE ESISTENZE
E DUE AMORI
-
- Strappato
dalle mie radici, Gesualdo
- mi
adottò ancora in fasce.
- Molti mi
accolsero ma i più
- non
scordarono le mie origini,
- e
forestiero vissi in dolce esilio.
- Quando la
memoria si riaccende
- il
pensiero a quel tempo nel pieno
- vigore
corre della giovinezza.
-
- Qui venni
già avanti negli anni,
- mia dolce
Sardegna, dove vivo
- due
esistenze e due amori,
- e dove
ancor di più esule
- mi sento.
Sempre in cuore, o Gesualdo,
- il tuo
idioma serbo, ora silente,
- se pure
l'accento ognuno qui rileva.
-
- E mi
sovviene l'antico borgo, simile
- a una nave
e il Castello, suo ponte
- di
comando, che da lassù vigila
- su quel
grappolo di case vetuste
- e
dirupate. E le tante viuzze umide
- d'inverno
e ombrose d'estate
- che si
inerpicano fino ai suoi piedi.
-
- Come belli
i suoi monti, con Chiusano
- e
Montevergine sul crinale più distante!
- E la
campagna quanto a me cara
- e come
generosa! Ora scoscesa e aspra,
- ora
declinante in dolci pendii. E i sentieri
- per lo
più tortuosi di cui molti nomi
- ho
scordato ma non la loro asperità.
-
- E la
strada maestra che a cerchio
- abbraccia
quel nido di case,
- e che nel
dileguarsi al cuore
- è
troppo dolce o troppo grave.
- In quei
miei brevi soggiorni da te, Gesualdo,
- il
pensiero volava a questa terra,
-
- ai miei
cari, a questo mare cristallino,
- alle
spiagge dalla sabbia dorata,
- ai
tramonti accesi e interminabili,
- al vasto
Campidano, monotono
- e
uniforme, che con la tua campagna
- confrontavo,
varia e vivace.
-
- Agli usi e
costumi di questa gente,
- ai tanti
luoghi visti e abitati
- al parlare
del sardo, al suo scandire
- ogni
sillaba come a scolpire ogni parola.
- Ed or che
la mia vita volge alla fine,
- e
conciliato con le due esistenze
- e i due
amori, l'anima mia alla quiete
- dolce si
dispone e al gran silenzio.
-
-
- LO
STEREO
- A don
Gennaro Forgione
-
-
-
- Mi strappi
dal lieto presente
- e in un
tempo lontano mi riporti,
- quando
possente la tua voce
- entrava
nelle case di vita grama.
-
- Ora se la
voce dispieghi il riposo
- turbi e
non c'è chi non se ne
lamenti.
- Così
sulle grevi tue note i ricordi
- inseguo di
quelle notti calde,
-
-
- e delle
lucciole tra le spighe verdi.
- Tempo di
miseria e di comitiva
- spensierata,
anche se privata
- d'ogni
dolcezza. Pure la speranza
-
- mai
s'inabissò per una vita tanto
crudele.
- Anzi la
tua voce cuore metteva;
- e i
più vicini anche si
godevano
- le stanze
tue illuminate.
-
-
-
-
- PER VENIRE DA
TE
-
- Per venire
da te camminai
- per
scorciatoie di fango
- col vento
e la neve.
- Per ripidi
acciottolati gli scarponi
- chiodati
risuonarono sotto torrido
- sole o
pioggia scrosciante.
-
- Il
richiamo udii d'uccelli canori
- e dei
contadini voci
- e canti
lontani, piane.
- Il fragore
spaventato ascoltai
- dei
torrenti, e il mormorìo
- d'un
ruscello tutt'uno intesi
- con lo
stormire di pioppi e querce
- secolari
alla cui ombra riposai.
-
- Camminai,
quanto camminai!
- L'arsura
lenii con acqua di fonte
- la fame
placai con frutta racimolata.
- Fili
d'erba recisi, e stille
- quante di
sudore! E da te venni
- o scuola
coi piedi fradici
- e le mani
ghiacciate.
-
- Il mio
spirito è risollevato,
- forza il
corpo acquistò
- e la
pupilla vigore,
- ma le
ferite sanguinano
- e l'anima
è come spezzata,
- pur
tuttavia il mutare delle stagioni
- e d'ogni
moto io canto.
-
-
-
- POMERIGGI
INVERNALI
-
- Oh soavi
pene d'un tempo! Fanciullezza
- vissuta
libera ma privata del paterno
- abbraccio.
Al calduccio e tra queste
- carte
vibrano affetti mai sopiti.
-
- Casa
spoglia di tutto fuorchè
- l'amore. E
dalla stanza buia rivedo
- l'apparire
e lo sparire, mistero per me
- allora, di
luci su per la montagna.
-
- Ora in
poltrona siedo
- e non vedo
che case;
- la
campagna ombrosa
- mi
sovviene e le case sparse.
-
- E
l'argentato dondolìo
- che il
vento scompigliava
- degli
olivi, e gli olmi serrati
- tra i
tralci penduli della vite.
-
- E i monti,
oh i miei monti
- di cobalto
o innevati,
- ove
l'orizzonte
- s'adagiava
con i suoi elementi!
-
- Gli occhi
or chiudo e queste case
- subisso.
Poi un lago mi fingo,
- e alti
spruzzi che infinite ali
sollevano,
- e lieve
intanto le barche vanno...
-
- Tonda la
luna in cielo, come sospesa,
- chiarore
distende sino ai gibbosi colli.
- Compagnìa
di sogni mai non m'abbandona
- quando
tristezza di più
m'opprime.
-
-
-
- RICORDI DI MIA
TERRA
-
- Stretto
fra due radici,
- qui vivo
tra i miei
- là
risalgo alle mie origini.
- La mia
gente non scordo,
-
- né
le vie anguste
- tra
vecchie case,
- e i muri
senza schermo
- ad
accerchiar l'alto Castello.
-
- Bambino,
mi stupiva
- una ricca
dimora
- col suo
ridente giardino
- io che
privo ero d'ogni cosa.
-
- La siepe
che me vide in sereni
- giochi, e
nei tramonti donnette
- a ritirar
stinto bucato,
- mai
presaga fu di vita randagia.
-
- Riodo le
percosse conche d'estate
- ai
cannelli stenti della fontana,
- e le irate
voci,
- e il tonfo
della pietra
-
- a bagnare
l'assetato ignaro.
- E la
frutta negli orti,
- ove curvo
sparivo tra i sentieri.
- E le
brocche riempite
-
- a Costa
dei Vecchi dove ad eroe
- giocai
fino a giovinetto,
- e donde
mai pensiero
- andò
oltre quei monti.
-
- USANZE
FUNEBRI
-
-
- Di usanze
funebri ho parlato
- al tuo
cospetto, ottuagenaria,
- e me ne
pento. Più rintocchi
- donna era
morta, campana
- a distesa
bimbo il ciel rapiva.
-
- Sull'uscio
e sul portale
- di chiesa
addobbi di drappi
- neri. E di
campane a morto
- suono
senza tregua, interminabile.
- Tal che in
ogni casa tomba
-
- sembrava
ergersi, e l'anima
- a gravar
di dolore estremo.
- Nella buia
chiesa catafalco
- enorme, e
ai quattro angoli
- vegliardi
vestiti di nero,
-
- e sui
candelabri grossi ceri
- a
diffondere tetra una luce.
- E le note
della marcia
- funebre
che scavavano
- nel cuore
pietà e pianto.
-
-
- Fila senza
fine per le condoglianze.
- E per i
più familiari
- il
consòlo a dare ristoro
- ed energia
al cuore che ancora
- caldo era
di lacrime.
-
-
-
- A DODICI ANNI
-
- Mi resta
in cuor quel tempo bambino
- e il
rumore cupo d'aerei
- e lo
schianto di bombe
- e i
bengali a rendere giorno le notti
- e noi
raminghi per le campagne
- nella
tarda estate
- e la fame
e i pozzi senz'acqua.
-
- Mai un po'
di requie,
- né
tempo per i nostri giochi,
- e la morte
sempre in agguato,
- e soldati
dei due emisferi,
- e armi e
bombe
- e altri
strumenti di morte.
-
- Notte
senza fine sotto il Castello
- in quel
rifugio con un solo ingresso.
- Ingenuità
dei grandi!
- Un tetro
cunicolo con qualche cero;
- una
cassetta simile a bara
- accoglieva
il sonno d'un bimbo.
-
- Voci
spente e nel silenzio...
- funeree
ombre!
- Il
gocciolar lento della roccia
- e sulla
roccia noi in veglia,
rannicchiati.
-
- L'alba ci
vide in cammino
- con negli
occhi finalmente il sonno
- per asili
chissà se più
sicuri.
-
|