LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA
I grandi poeti contemporanei
Pier Paolo Pasolini
Le ceneri di Gramsci
- I
- Non è di maggio questa impura aria
- che il buio giardino straniero
- fa ancora più buio, o l'abbaglia
- con cieche schiarite... questo cielo
- di bave sopra gli attici giallini
- che in semicerchi immensi fanno velo
- alle curve del Tevere, ai turchini
- monti del Lazio... Spande una mortale
- pace, disamorata come i nostri destini,
- tra le vecchie muraglie l'autunnale
- maggio. In esso c'è il grigiore del mondo,
- la fine del decennio in cui ci appare
- tra le macerie finito il profondo
- e ingenuo sforzo di rifare la vita;
- il silenzio, fradicio e infecondo...
- Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore
- era ancora vita, in quel maggio italiano
- che alla vita aggiungeva almeno ardore,
- quanto meno sventato e impuramente
- sano
- dei nostri padri - non padre, ma umile
- fratello - già con la tua magra mano
- delineavi l'ideale che illumina
- (ma non per noi: tu morto, e noi
- morti ugualmente, con te, nell'umido
- giardino) questo silenzio. Non puoi,
- lo vedi?, che riposare in questo sito
- estraneo, ancora confinato. Noia
- patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
- solo ti giunge qualche colpo d'incudine
- dalle officine di Testaccio, sopito
- nel vespro: tra misere tettoie, nudi
- mucchi di latta, ferrivecchi, dove
- cantando vizioso un garzone già chiude
- la sua giornata, mentre intorno spiove.
- II
- Tra i due mondi, la tregua, in cui non
- siamo.
- Scelte, dedizioni... altro suono non hanno
- ormai che questo del giardino gramo
- e nobile, in cui caparbio l'inganno
- che attutiva la vita resta nella morte.
- Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno
- che mostrare la superstite sorte
- di gente laica le laiche iscrizioni
- in queste grigie pietre, corte
- e imponenti. Ancora di passioni
- sfrenate senza scandalo son arse
- le ossa dei miliardari di nazioni
- più grandi; ronzano, quasi mai
- scomparse,
- le ironie dei principi, dei pederasti,
- i cui corpi sono nell'urne sparse
- inceneriti e non ancora casti.
- Qui il silenzio della morte è fede
- di un civile silenzio di uomini rimasti
- uomini, di un tedio che nel tedio
- del Parco, discreto muta: e la città
- che, indifferente, lo confina in mezzo
- a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
- vi perde il suo splendore. La sua terra
- grassa di ortiche e di legumi dà
- questi magri cipressi, questa nera
- umidità che chiazza i muri intorno
- a smotti ghirigori di bosso, che la sera
- rasserenando spegne in disadorni
- sentori d'alga... quest'erbetta stenta
- e inodora, dove violetta si sprofonda
- l'atmosfera, con un brivido di menta,
- o fieno marcio, e quieta vi prelude
- con diurna malinconia, la spenta
- trepidazione della notte. Rude
- di clima, dolcissimo di storia, è
- tra questi muri il suolo in cui trasuda
- altro suolo; questo umido che
- ricorda altro umido; e risuonano
- - familiari da latitudini e
- orizzonti dove inglesi selve coronano
- laghi spersi nel cielo, tra praterie
- verdi come fosforici biliardi o come
- smeraldi: "And O ye Fountains..." - le pie
- invocazioni...
- III
- Uno straccetto rosso, come quello
- arrotolato al collo ai partigiani
- e, presso l'urna, sul terreno cereo,
- diversamente rossi, due gerani.
- Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
- non cattolica, elencato tra estranei
- morti: Le ceneri di Gramsci... Tra
- speranza
- e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
- per caso in questa magra serra, innanzi
- alla tua tomba, al tuo spirito restato
- quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
- di diverso, forse, di più estasiato
- e anche di più umile, ebbra simbiosi
- d'adolescente di sesso con morte...)
- E, da questo paese in cui non ebbe posa
- la tua tensione, sento quale torto
- - qui nella quiete delle tombe - e insieme
- quale ragione - nell'inquieta sorte
- nostra - tu avessi stilando le supreme
- pagine nei giorni del tuo assassinio.
- Ecco qui ad attestare il seme
- non ancora disperso dell'antico dominio,
- questi morti attaccati a un possesso
- che affonda nei secoli il suo abominio
- e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
- quel vibrare d'incudini, in sordina,
- soffocato e accorante - dal dimesso
- rione - ad attestarne la fine.
- Ed ecco qui me stesso... povero, vestito
- dei panni che i poveri adocchiano in
- vetrine
- dal rozzo splendore, e che ha smarrito
- la sporcizia delle più sperdute strade,
- delle panche dei tram, da cui stranito
- è il mio giorno: mentre sempre più rade
- ho di queste vacanze, nel tormento
- del mantenermi in vita; e se mi accade
- di amare il mondo non è che per violento
- e ingenuo amore sensuale
- così come, confuso adolescente, un tempo
- l'odiai, se in esso mi feriva il male
- borghese di me borghese: e ora, scisso
- - con te - il mondo, oggetto non appare
- di rancore e quasi di mistico
- disprezzo, la parte che ne ha il potere?
- Eppure senza il tuo rigore, sussisto
- perché non scelgo. Vivo nel non volere
- del tramontato dopoguerra: amando
- il mondo che odio - nella sua miseria
- sprezzante e perso - per un oscuro
- scandalo
- della coscienza...
IV
- Lo scandalo del contraddirmi,
- dell'essere
- con te e contro te; con te nel core,
- in luce, contro te nelle buie viscere;
- del mio paterno stato traditore
- - nel pensiero, in un'ombra di azione -
- mi so ad esso attaccato nel calore
- degli istinti, dell'estetica passione;
- attratto da una vita proletaria
- a te anteriore, è per me religione
- la sua allegria, non la millenaria
- sua lotta: la sua natura, non la sua
- coscienza: è la forza originaria
- dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,
- a darle l'ebbrezza della nostalgia,
- una luce poetica: ed altro più
- io non so dirne, che non sia
- giusto ma non sincero, astratto
- amore, non accorante simpatia...
- Come i poveri povero, mi attacco
- come loro a umilianti speranze,
- come loro per vivere mi batto
- ogni giorno. Ma nella desolante
- mia condizione di diseredato,
- io possiedo: ed è il più esaltante
- dei possessi borghesi, lo stato
- più assoluto. Ma come io possiedo la
- storia,
- essa mi possiede; ne sono illuminato:
- ma a che serve la luce?
V
- Non dico l'individuo, il fenomeno
- dell'ardore sensuale e sentimentale...
- altri vizi esso ha, altro è il nome
- e la fatalità del suo peccare...
- Ma in esso impastati quali comuni,
- prenatali vizi, e quale
- oggettivo peccato! Non sono immuni
- gli interni e esterni atti, che lo fanno
- incarnato alla vita, da nessuna
- delle religioni che nella vita stanno,
- ipoteca di morte, istituite
- a ingannare la luce, a dar luce
- all'inganno.
- Destinate a esser seppellite
- le sue spoglie al Verano, è cattolica
- la sua lotta con esse: gesuitiche
- le manie con cui dispone il cuore;
- e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
- la sua coscienza... e ironico ardore
- liberale... e rozza luce, tra i disgusti
- di dandy provinciale, di provinciale
- salute... Fino alle infime minuzie
- in cui sfumano, nel fondo animale,
- Autorità e Anarchia... Ben protetto
- dall'impura virtù e dall'ebbro peccare,
- difendendo una ingenuità di ossesso,
- e con quale coscienza!, vive l'io: io,
- vivo, eludendo la vita, con nel petto
- il senso di una vita che sia oblio
- accorante, violento... Ah come
- capisco, muto nel fradicio brusio
- del vento, qui dov'è muta Roma,
- tra i cipressi stancamente sconvolti,
- presso te, l'anima il cui graffito suona
- Shelley... Come capisco il vortice
- dei sentimenti, il capriccio (greco
- nel cuore del patrizio, nordico
- villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
- celeste del Tirreno; la carnale
- gioia dell'avventura, estetica
- e puerile: mentre prostrata l'Italia
- come dentro il ventre di un'enorme
- cicala, spalanca bianchi litorali,
- sparsi nel Lazio di velate torme
- di pini, barocchi, di giallognole
- radure di ruchetta, dove dorme
- col membro gonfio tra gli stracci un
- sogno
- goethiano, il giovincello ciociaro...
- Nella Maremma, scuri, di stupende fogne
- d'erbasaetta in cui si stampa chiaro
- il nocciolo, pei viottoli che il buttero
- della sua gioventù ricolma ignaro.
- Ciecamente fragranti nelle asciutte
- curve della Versilia, che sul mare
- aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,
- le tarsie lievi della sua pasquale
- campagna interamente umana,
- espone, incupita sul Cinquale,
- dipanata sotto le torride Apuane,
- i blu vitrei sul rosa... Di scogli,
- frane, sconvolti, come per un panico
- di fragranza, nella Riviera, molle,
- erta, dove il sole lotta con la brezza
- a dar suprema soavità agli olii
- del mare... E intorno ronza di lietezza
- lo sterminato strumento a percussione
- del sesso e della luce: così avvezza
- ne è l'Italia che non ne trema, come
- morta nella sua vita: gridano caldi
- da centinaia di porti il nome
- del compagno i giovinetti madidi
- nel bruno della faccia, tra la gente
- rivierasca, presso orti di cardi,
- in luride spiaggette...
- Mi chiederai tu, morto disadorno,
- d'abbandonare questa disperata
- passione di essere nel mondo?
- VI
- Me ne vado, ti lascio nella sera
- che, benché triste, così dolce scende
- per noi viventi, con la luce cerea
- che al quartiere in penombra si
- rapprende.
- E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
- intorno, e, più lontano, lo riaccende
- di una vita smaniosa che del roco
- rotolio dei tram, dei gridi umani,
- dialettali, fa un concerto fioco
- e assoluto. E senti come in quei lontani
- esseri che, in vita, gridano, ridono,
- in quei loro veicoli, in quei grami
- caseggiati dove si consuma l'infido
- ed espansivo dono dell'esistenza -
- quella vita non è che un brivido;
- corporea, collettiva presenza;
- senti il mancare di ogni religione
- vera; non vita, ma sopravvivenza
- - forse più lieta della vita - come
- d'un popolo di animali, nel cui arcano
- orgasmo non ci sia altra passione
- che per l'operare quotidiano:
- umile fervore cui dà un senso di festa
- l'umile corruzione. Quanto più è vano
- - in questo vuoto della storia, in questa
- ronzante pausa in cui la vita tace -
- ogni ideale, meglio è manifesta
- la stupenda, adusta sensualità
- quasi alessandrina, che tutto minia
- e impuramente accende, quando qua
- nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
- il mondo, nella penombra, rientrando
- in vuote piazze, in scorate officine...
- Già si accendono i lumi, costellando
- Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero
- Testaccio, disadorno tra il suo grande
- lurido monte, i lungoteveri, il nero
- fondale, oltre il fiume, che Monteverde
- ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
- Diademi di lumi che si perdono,
- smaglianti, e freddi di tristezza
- quasi marina... Manca poco alla cena;
- brillano i rari autobus del quartiere,
- con grappoli d'operai agli sportelli,
- e gruppi di militari vanno, senza fretta,
- verso il monte che cela in mezzo a sterri
- fradici e mucchi secchi d'immondizia
- nell'ombra, rintanate zoccolette
- che aspettano irose sopra la sporcizia
- afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
- abusive ai margini del monte, o in mezzo
- a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
- leggeri come stracci giocano alla brezza
- non più fredda, primaverile; ardenti
- di sventatezza giovanile la romanesca
- loro sera di maggio scuri adolescenti
- fischiano pei marciapiedi, nella festa
- vespertina; e scrosciano le
- saracinesche
- dei garages di schianto, gioiosamente,
- se il buio ha resa serena la sera,
- e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
- il vento che cade in tremiti di bufera,
- è ben dolce, benché radendo i capellacci
- e i tufi del Macello, vi si imbeva
- di sangue marcio, e per ogni dove
- agiti rifiuti e odore di miseria.
- È un brusio la vita, e questi persi
- in essa, la perdono serenamente,
- se il cuore ne hanno pieno: a godersi
- eccoli, miseri, la sera: e potente
- in essi, inermi, per essi, il mito
- rinasce... Ma io, con il cuore cosciente
- di chi soltanto nella storia ha vita,
- potrò mai più con pura passione operare,
- se so che la nostra storia è finita?
- 1954
- Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul cippo si leggono solo le parole: "Cinera Gramsci" con le date.
- Il pianto della scavatrice
- I
- Solo l'amare, solo il conoscere
- conta, non l'aver amato,
- non l'aver conosciuto. Dà angoscia
- il vivere di un consumato
- amore. L'anima non cresce più.
- Ecco nel calore incantato
- della notte che piena quaggiù
- tra le curve del fiume e le sopite
- visioni della città sparsa di luci,
- scheggia ancora di mille vite,
- disamore, mistero, e miseria
- dei sensi, mi rendono nemiche
- le forme del mondo, che fino a ieri
- erano la mia ragione d'esistere.
- Annoiato, stanco, rincaso, per neri
- piazzali di mercati, tristi
- strade intorno al porto fluviale,
- tra le baracche e i magazzini misti
- agli ultimi prati. Lì mortale
- è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
- alla stazione di Trastevere, appare
- ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
- alle loro borgate, tornano su motori
- leggeri - in tuta o coi calzoni
- di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
- i giovani, coi compagni sui sellini,
- ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori
- chiacchierano in piedi con voci
- alte nella notte, qua e là, ai tavolini
- dei locali ancora lucenti e semivuoti.
- Stupenda e misera città,
- che m'hai insegnato ciò che allegri e
- feroci
- gli uomini imparano bambini,
- le piccole cose in cui la grandezza
- della vita in pace si scopre, come
- andare duri e pronti nella ressa
- delle strade, rivolgersi a un altro uomo
- senza tremare, non vergognarsi
- di guardare il denaro contato
- con pigre dita dal fattorino
- che suda contro le facciate in corsa
- in un colore eterno d'estate;
- a difendermi, a offendere, ad avere
- il mondo davanti agli occhi e non
- soltanto in cuore, a capire
- che pochi conoscono le passioni
- in cui io sono vissuto:
- che non mi sono fraterni, eppure sono
- fratelli proprio nell'avere
- passioni di uomini
- che allegri, inconsci, interi
- vivono di esperienze
- ignote a me. Stupenda e misera
- città che mi hai fatto fare
- esperienza di quella vita
- ignota: fino a farmi scoprire
- ciò che, in ognun, era il mondo.
- Una luna morente nel silenzio,
- che di lei vive, sbianca tra violenti
- ardori, che miseramente sulla terra
- muta di vita, coi bei viali, le vecchie
- viuzze, senza dar luce abbagliano
- e, in tutto il mondo, le riflette
- lassù, un po' di calda nuvolaglia.
- È la notte più bella dell'estate.
- Trastevere, in un odore di paglia
- di vecchie stalle, di svuotate
- osterie, non dorme ancora.
- Gli angoli bui, le pareti placide
- risuonano d'incantati rumori.
- Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
- - sotto festoni di luci ormai sole -
- verso i loro vicoli, che intasano
- buio e immondizia, con quel passo blando
- da cui più l'anima era invasa
- quando veramente amavo, quando
- veramente volevo capire.
- E, come allora, scompaiono cantando.
- II
- Povero come un gatto del Colosseo,
- vivevo in una borgata tutta calce
- e polverone, lontano dalla città
- e dalla campagna, stretto ogni giorno
- in un autobus rantolante:
- e ogni andata, ogni ritorno
- era un calvario di sudore e di ansie.
- Lunghe camminate in una calda caligine,
- lunghi crepuscoli davanti alle carte
- ammucchiate sul tavolo, tra strade di
- fango,
- muriccioli, casette bagnate di calce
- e senza infissi, con tende per porte...
- Passano l'olivaio, lo straccivendolo,
- venendo da qualche altra borgata,
- con l'impolverata merce che pareva
- frutto di furto, e una faccia crudele
- di giovani invecchiati tra i vizi
- di chi ha una madre dura e affamata.
- Rinnovato dal mondo nuovo,
- libero - una vampa, un fiato
- che non so dire, alla realtà
- che umile e sporca, confusa e immensa,
- brulicava nella meridionale periferia,
- dava un senso di serena pietà.
- Un'anima in me, che non era solo mia,
- una piccola anima in quel mondo
- sconfinato,
- cresceva, nutrita dall'allegria
- di chi amava, anche se non riamato.
- E tutto si illuminava, a questo amore.
- Forse ancora di ragazzo, eroicamente,
- e però maturato dall'esperienza
- che nasceva ai piedi della storia.
- Ero al centro del mondo, in quel mondo
- di borgate tristi, beduine,
- di gialle praterie sfregate
- da un vento sempre senza pace,
- venisse dal caldo mare di Fiumicino,
- o dall'agro, dove si perdeva
- la città fra i tuguri; in quel mondo
- che poteva soltanto dominare,
- quadrato spettro giallognolo
- nella giallognola foschia,
- bucato da mille file uguali
- di finestre sbarrate, il Penitenziario
- tra vecchi campi e sopiti casali.
- Le cartacce e la polvere che cieco
- il venticello trascinava qua e là,
- le povere voci senza eco
- di donnette venute dai monti
- Sabini, dall'Adriatico, e qua
- accampate, ormai con torme
- di deperiti e duri ragazzini
- stridenti nelle canottiere a pezzi,
- nei grigi, bruciati calzoncini,
- i soli africani, le piogge agitate
- che rendevano torrenti di fango
- le strade, gli autobus ai capolinea
- affondati nel loro angolo
- tra un'ultima striscia d'erba bianca
- e qualche acido, ardente immondezzaio...
- era il centro del mondo, com'era
- al centro della storia il mio amore
- per esso: e in questa
- maturità che per essere nascente
- era ancora amore, tutto era
- per divenire chiaro - era,
- chiaro! Quel borgo nudo al vento,
- non romano, non meridionale,
- non operaio, era la vita
- nella sua luce più attuale:
- vita, e luce della vita, piena
- nel caos non ancora proletario,
- come la vuole il rozzo giornale
- della cellula, l'ultimo
- sventolio del rotocalco: osso
- dell'esistenza quotidiana,
- pura, per essere fin troppo
- prossima, assoluta per essere
- fin troppo miseramente umana.
- III
- E ora rincaso, ricco di quegli anni
- così nuovi che non avrei mai pensato
- di saperli vecchi in un'anima
- a essi lontana, come a ogni passato.
- Salgo i viali del Gianicolo, fermo
- da un bivio liberty, a un largo alberato,
- a un troncone di mura - ormai al termine
- della città sull'ondulata pianura
- che si apre sul mare. E mi rigermina
- nell'anima - inerte e scura
- come la notte abbandonata al profumo
- una semenza ormai troppo matura
- per dare ancora frutto, nel cumulo
- di una vita tornata stanca e acerba...
- Ecco Villa Pamphili, e nel lume
- che tranquillo riverbera
- sui nuovi muri, la via dove abito.
- Presso la mia casa, su un'erba
- ridotta a un'oscura bava,
- una traccia sulle voragini scavate
- di fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia
- di distruzione - rampa contro radi palazzi
- e pezzi di cielo, inanimata,
- una scavatrice...
- Che pena m'invade, davanti a questi
- attrezzi
- supini, sparsi qua e là nel fango,
- davanti a questo canovaccio rosso
- che pende a un cavalletto, nell'angolo
- dove la notte sembra più triste?
- Perché, a questa spenta tinta di sangue,
- la mia coscienza così ciecamente resiste,
- si nasconde, quasi per un ossesso
- rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?
- Perché dentro in me è lo stesso senso
- di giornate per sempre inadempite
- che è nel morto firmamento
- in cui sbianca questa scavatrice?
- Mi spoglio in una delle mille stanze
- dove a via Fonteiana si dorme.
- Su tutto puoi scavare, tempo: speranze
- passioni. Ma non su queste forme
- pure della vita... Si riduce
- ad esse l'uomo, quando colme
- siano esperienza e fiducia
- nel mondo... Ah, giorni di Rebibbia,
- che io credevo persi in una luce
- di necessità, e che ora so così liberi!
- Insieme al cuore, allora, pei difficili
- casi che ne avevano sperduto
- il corso verso un destino umano,
- guadagnando in ardore la chiarezza
- negata, e in ingenuità
- il negato equilibrio - alla chiarezza
- all'equilibrio giungeva anche,
- in quei giorni, la mente. E il cieco
- rimpianto, segno di ogni mia
- lotta col mondo, respingevano, ecco,
- adulte benché inesperte ideologie...
- Si faceva, il mondo, soggetto
- non più di mistero ma di storia.
- Si moltiplicava per mille la gioia
- del conoscerlo - come
- ogni uomo, umilmente, conosce.
- Marx o Gobetti, Gramsci o Croce,
- furono vivi nelle vive esperienze.
- Mutò la materia di un decennio d'oscura
- vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò
- che più pareva essere ideale figura
- a una ideale generazione;
- in ogni pagina, in ogni riga
- che scrivevo, nell'esilio di Rebibbia,
- c'era quel fervore, quella presunzione,
- quella gratitudine. Nuovo
- nella mia nuova condizione
- di vecchio lavoro e di vecchia miseria,
- i pochi amici che venivano
- da me, nelle mattine o nelle sere
- dimenticate sul Penitenziario,
- mi videro dentro una luce viva:
- mite, violento rivoluzionario
- nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva
- IV
- Mi stringe contro il suo vecchio vello,
- che profuma di bosco, e mi posa
- il muso con le sue zanne di verro
- o errante orso dal fiato di rosa,
- sulla bocca: e intorno a me la stanza
- è una radura, la coltre corrosa
- dagli ultimi sudori giovanili, danza
- come un velame di pollini... E infatti
- cammino per una strada che avanza
- tra i primi prati primaverili, sfatti
- in una luce di paradiso...
- Trasportato dall'onda dei passi,
- questa che lascio alle spalle, lieve e
- misero,
- non è la periferia di Roma: "Viva
- Mexico!" è scritto a calce o inciso
- sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,
- decrepiti, leggeri come osso, ai confini
- di un bruciante cielo senza un brivido.
- Ecco, in cima a una collina
- fra le ondulazioni, miste alle nubi,
- di una vecchia catena appenninica,
- la città, mezza vuota, benché sia l'ora
- della mattina, quando vanno le donne
- alla spesa - o del vespro che indora
- i bambini che corrono con le mamme
- fuori dai cortili della scuola.
- Da un gran silenzio le strade sono invase:
- si perdono i selciati un po' sconnessi,
- vecchi come il tempo, grigi come il
- tempo,
- e due lunghi listoni di pietra
- corrono lungo le strade, lucidi e spenti.
- Qualcuno, in quel silenzio, si muove:
- qualche vecchia, qualche ragazzetto
- perduto nei suoi giuochi, dove
- i portali di un dolce Cinquecento
- s'aprano sereni, o un pozzetto
- con bestioline intarsiate sui bordi
- posi sopra la povera erba,
- in qualche bivio o canto dimenticato.
- Si apre sulla cima del colle l'erma
- piazza del comune, e fra casa
- e casa, oltre un muretto, e il verde
- d'un grande castagno, si vede
- lo spazio della valle: ma non la valle.
- Uno spazio che tremola celeste
- o appena cereo... Ma il Corso continua,
- oltre quella familiare piazzetta
- sospesa nel cielo appenninico:
- s'interna fra case più strette, scende
- un po' a mezza costa: e più in basso
- - quando le barocche casette diradano
- ecco apparire la valle - e il deserto.
- Ancora solo qualche passo
- verso la svolta, dove la strada
- è già tra nudi praticelli erti
- e ricciuti. A manca, contro il pendio,
- quasi fosse crollata la chiesa,
- si alza gremita di affreschi, azzurri,
- rossi, un'abside, pesta di volute
- lungo le cancellate cicatrici
- del crollo - da cui soltanto essa,
- l'immensa conchiglia, sia rimasta
- a spalancarsi contro il cielo.
- È lì, da oltre la valle, dal deserto,
- che prende a soffiare un'aria, lieve,
- disperata,
- che incendia la pelle di dolcezza...
- È come quegli odori che, dai campi
- bagnati di fresco, o dalle rive di un
- fiume,
- soffiano sulla città nei primi
- giorni di bel tempo: e tu
- non li riconosci, ma impazzito
- quasi di rimpianto, cerchi di capire
- se siano di un fuoco acceso sulla brina,
- oppure di uve o nespole perdute
- in qualche granaio intiepidito
- dal sole della stupenda mattina.
- Io grido di gioia, così ferito
- in fondo ai polmoni da quell'aria
- che come un tepore o una luce
- respiro guardando la vallata
- V
- Un po' di pace basta a rivelare
- dentro il cuore l'angoscia,
- limpida, come il fondo del mare
- in un giorno di sole. Ne riconosci,
- senza provarlo, il male
- lì, nel tuo letto, petto, cosce
- e piedi abbandonati, quale
- un crocifisso - o quale Noè
- ubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro
- dell'allegria dei figli, che
- su lui, i forti, i puri, si divertono...
- il giorno è ormai su di te,
- nella stanza come un leone dormente.
- Per quali strade il cuore
- si trova pieno, perfetto anche in questa
- mescolanza di beatitudine e dolore?
- Un po' di pace... E in te ridesta
- è la guerra, è Dio. Si distendono
- appena le passioni, si chiude la fresca
- ferita appena, che già tu spendi
- l'anima, che pareva tutta spesa,
- in azioni di sogno che non rendono
- niente... Ecco, se acceso
- alla speranza - che, vecchio leone
- puzzolente di vodka, dall'offesa
- sua Russia giura Krusciov al mondo -
- ecco che tu ti accorgi che sogni.
- Sembra bruciare nel felice agosto
- di pace, ogni tua passione, ogni
- tuo interiore tormento,
- ogni tua ingenua vergogna
- di non essere - nel sentimento -
- al punto in cui il mondo si rinnova.
- Anzi, quel nuovo soffio di vento
- ti ricaccia indietro, dove
- ogni vento cade: e lì, tumore
- che si ricrea, ritrovi
- il vecchio crogiolo d'amore,
- il senso, lo spavento, la gioia.
- E proprio in quel sopore
- è la luce... in quella incoscienza
- d'infante, d'animale o ingenuo libertino
- è la purezza... i più eroici
- furori in quella fuga, il più divino
- sentimento in quel basso atto umano
- consumato nel sonno mattutino.
- VI
- Nella vampa abbandonata
- del sole mattutino - che riarde,
- ormai, radendo i cantieri, sugli infissi
- riscaldati - disperate
- vibrazioni raschiano il silenzio
- che perdutamente sa di vecchio latte,
- di piazzette vuote, d'innocenza.
- Già almeno dalle sette, quel vibrare
- cresce col sole. Povera presenza
- d'una dozzina d'anziani operai,
- con gli stracci e le canottiere arsi
- dal sudore, le cui voci rare,
- le cui lotte contro gli sparsi
- blocchi di fango, le colate di terra,
- sembrano in quel tremito disfarsi.
- Ma tra gli scoppi testardi della
- benna, che cieca sembra, cieca
- sgretola, cieca afferra,
- quasi non avesse meta,
- un urlo improvviso, umano,
- nasce, e a tratti si ripete,
- così pazzo di dolore, che, umano,
- subito non sembra più, e ridiventa
- morto stridore. Poi, piano,
- rinasce, nella luce violenta,
- tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,
- urlo che solo chi è morente,
- nell'ultimo istante, può gettare
- in questo sole che crudele ancora splende
- già addolcito da un po' d'aria di mare...
- A gridare è, straziata
- da mesi e anni di mattutini
- sudori - accompagnata
- dal muto stuolo dei suoi scalpellini,
- la vecchia scavatrice: ma, insieme, il
- fresco
- sterro sconvolto, o, nel breve confine
- dell'orizzonte novecentesco,
- tutto il quartiere... È la città,
- sprofondata in un chiarore di festa,
- - è il mondo. Piange ciò che ha
- fine e ricomincia. Ciò che era
- area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
- cortile, bianco come cera,
- chiuso in un decoro ch'è rancore;
- ciò che era quasi una vecchia fiera
- di freschi intonachi sghembi al sole,
- e si fa nuovo isolato, brulicante
- in un ordine ch'è spento dolore.
- Piange ciò che muta, anche
- per farsi migliore. La luce
- del futuro non cessa un solo istante
- di ferirci: è qui, che brucia
- in ogni nostro atto quotidiano,
- angoscia anche nella fiducia
- che ci dà vita, nell'impeto gobettiano
- verso questi operai, che muti innalzano,
- nel rione dell'altro fronte umano,
- il loro rosso straccio di speranza.
- 1956
- ©2000 Il club degli autori, Pier Paolo Pasolini
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