Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Racconti di
Marco Roberto Capelli

Racconto 2° classificato al concorso Città di Melegnano 1997 sez. narrativa

Gli Dei
 
Ancora pochi minuti e il sole si sarebbe nascosto dietro alle dune rosate. Il grande caldo del giorno trascorso stava lentamente scemando ed i ragazzi cominciarono ad uscire dai loro rifugi, uno ad uno. Un uccello appollaiato sulla cima di una pianta di datteri attrasse la loro attenzione lanciando acuti strilli, ma era troppo in alto. Solo il Grigio si fermò, in attesa, accanto al tronco del vecchio albero, mentre i compagni si stiravano pigramente. Un refolo di vento caldo e maligno si divertiva ancora a gettare nei loro occhi la fine polvere del deserto, ma gli abitanti dell'oasi sapevano che tutto sarebbe finito di lì a poco quando, con la frescura della notte, sarebbe ricominciata la vita della colonia. Erano ormai più di cento anni che il deserto, inesorabile, avanzava divorando le foreste tropicali e disseccando i fiumi e le fonti, e per più di cento anni i loro antenati avevano continuato a fuggire, spostandosi sempre più verso Nord. Le bianche ossa di quei loro avi dimenticati punteggiavano le piste inghiottite dal deserto, ma tutto questo non significava molto per loro. Quando l'uccello volò via, lanciando un ultimo stridulo grido, anche il Grigio, deluso, corse incontro ai compagni. Era agile e snello e convinto, come tutti i ragazzi che appena hanno aperto gli occhi sulla vita, di sapere già ogni cosa. Seduta fra i rami di un rampicante stava Lea. Il Grigio e Lea avevano la stessa età, erano nati tutti e due l'anno in cui la colonia aveva raggiunto l'oasi. Lui per un istante la guardò, lei, forse, gli sorrise.
I giochi dei ragazzi erano sempre gli stessi, giocavano a rincorrersi fra i sassi e le radici, a stanare e ad inseguire i piccoli animali del deserto. Soprattutto si divertivano a lottare fra di loro, ripetendo, un po' per gioco e un po' sul serio, le eterne risse degli adulti. Ma quella sera il Grigio stava esagerando. Colpiva troppo forte e mordeva e graffiava con rabbia. Difficile dire se Lea ne fosse impressionata, erano troppo enigmatici e verdi i suoi occhi per capire cosa pensasse, quel che è certo è che, di quel gioco, gli amici si erano stancati assai presto. Soltanto un giovane bruno e silenzioso aveva accettato la sfida. Tutti i ragazzi stavano ora in silenzio a guardare, sorpresi e curiosi, mentre i due rivali lottavano rotolandosi nella polvere, ansimando per la fatica e per la rabbia. I loro giovani muscoli scattavano e si tendevano danzando freneticamente sotto la pelle scura e per quanta fatica si potesse leggere sui loro volti tirati, assai maggiore era la determinazione negli sguardi.
Fu allora che apparve il vecchio senza un occhio.
Talmente silenzioso era il suo passo che i ragazzi si accorsero di averlo alle spalle solo quando la sua ombra coperse la loro ed il suo rauco ansimare fu proprio dietro alle loro orecchie. Allora si voltarono di scatto e corsero a nascondersi fra i folti cespugli. Il vecchio, che li conosceva ad uno ad uno, sapeva bene di far loro paura. Del tutto normale, pensò, la giovinezza non crede alla morte e non sa vedere nella vecchiaia che una malattia.
«Bell'affare, l'odio. L'unico fuoco che non puoi mai spegnere. Pensi di avere lasciato solo ceneri ed invece, all'improvviso ecco che si sveglia una nuova fiamma».
Così parlò il vecchio, e la sua voce era roca per gli anni ma imperiosa e ferma.
Il Grigio si girò, lasciando il collo del suo rivale che approfittò di quella pausa inattesa per rifugiarsi oltre una siepe. Ebbe un brivido nel riconoscere la voce e nel fissare quell'unico occhio giallo, ma non indietreggiò di un passo.
Borioso senza speranza… pensò il vecchio, ma quando vide gli occhi del ragazzo cercare il viso di Lea nel cerchio che si era formato alle sue spalle, quasi si lasciò sfuggire un sorriso. Però si trattenne, perché sarebbe stato un sorriso troppo triste.
«Ogni volta che nel nostro popolo qualcuno abbandona il sentiero del giusto, avvicina il giorno della nostra fine. Ogni volta che qualcuno sceglie deliberatamente il male, ci rende simili agli Antichi Dei, e ci condanna al loro destino».
Il vecchio si guardò attorno, la sua voce cupa aveva suscitato l'effetto voluto? Era necessario che imparassero, che nessuno dimenticasse quel che era successo. Per questo motivo esistevano lui e gli altri Cantori.
Per un tempo che ai ragazzi parve lunghissimo il vecchio restò in silenzio a fissarli, fino a quando uno di loro chiese in un sussurro:
«Raccontaci degli Dei, per favore…».
Questa era la domanda che il vecchio aspettava, ovviamente. In realtà avrebbe dovuto recarsi al consiglio degli anziani, quella sera si doveva decidere del futuro della colonia. I segni erano chiari, la fonte era ormai quasi completamente asciutta e la selvaggina sempre più rara. Si poteva tentare di trascorrere un'altra stagione nell'oasi, ma il trasferimento era inevitabile, e rimanere poteva significare trovarsi di già allo stremo delle forze prima ancora di intraprendere un viaggio del quale non era possibile prevedere né la durata né l'esito. Certamente l'ultima parola sarebbe spettata a lui. Sapeva quel che andava fatto, ma questo non significava che la cosa gli piacesse. Ricordava troppo bene l'arsura e le privazioni patite al tempo dell'ultima migrazione. Guardò i ragazzi seduti in cerchio attorno a lui, in attesa. Quanti di loro non sarebbero sopravvissuti? Soltanto il Grigio aveva l'aria annoiata, avrebbe preferito continuare a correre fra le felci. Il vecchio con un solo occhio lo osservò attentamente. «Ragazzo mio &endash; pensò &endash; dovranno piacerti per forza queste storie, io sono troppo vecchio per vivere ancora a lungo ed alla riunione di questa notte chiederò che mi sia concesso di scegliere un successore… Il nostro Popolo deve ricordare la sua storia, e per quanto poco tu mi piaccia, sei l'unico qui che abbia anche solo la poca intelligenza che serve per diventare un Cantore».
Si sedette su di un tronco nodoso, lentamente, e si preparò a raccontare la Storia degli Dei.
«Gli Dei erano una moltitudine. Ed infiniti erano i loro nomi. Le loro case erano simili alle alte torri delle formiche, e tante sono le formiche nelle loro tane, tanti erano gli Dei nelle loro dimore.
Che, infatti, gli Dei non vivevano come noi che ci ripariamo tra le foglie degli alberi o nelle grotte della terra, essi potevano piegare la pietra secondo il loro volere e con essa innalzavano torri che erano cento volte più alte del più vecchio e più alto degli alberi e non temevano né il vento né la tempesta, né i tremori della terra né il trascorrere del tempo».
«Allora è vero che erano Dei giganti!» esclamò un monello dall'aria spaventata.
«Certo, erano almeno dieci volte più alti del tronco su cui siedo ed il loro peso superava di trenta volte quello del più grasso fra noi. Com'era il loro aspetto, mi domandate? Oh, io cercherò di farvi capire, ma sono certo che, per quanto ci proviate, non riuscirete mai ad immaginare quegli esseri spaventosi. I loro corpi, quasi completamente glabri, erano molli e bianchicci e la loro carne grassa e flaccida tremava ad ogni passo. Sui loro volti umidi e pallidi si apriva una bocca enorme irta di denti e pochi peli stopposi ricadevano sulle loro piccole orecchie. Solo gli occhi erano simili ai nostri, simili eppure, in un modo difficile a definirsi, differenti, che nei nostri occhi, a fissarli con attenzione, si scorge una scintilla luminosa dell'infinito, mentre nei loro bruciava, nascosta, una brace dell'Inferno.
Il loro odore acre permeava l'aria delle loro città e trasudava da tutte le cose che essi toccavano come un marchio indelebile e la terra tuonava sotto i loro piedi al ritmo dei loro passi pesanti.
Ma nonostante la loro forza fosse grande, essi erano lenti ed i loro sensi erano ottusi. No, la loro grandezza non era nella forza ma nella magia».
Attese un momento, la parola magia faceva sempre effetto sulla fantasia degli ascoltatori, anche il Grigio, benché volesse sembrare distratto cominciava ad ascoltare incuriosito.
«La magia permeava tutta la loro esistenza e per mezzo di essa avevano superato ogni loro debolezza. I loro occhi non vedevano nella notte ed essi avevano imparato ad evocare gli spiriti del fuoco e del lampo per illuminare le tenebre. Luci crepuscolari fiammeggiavano giorno e notte sulle alte torri e fasci abbaglianti si protendevano nell'oscurità del cielo notturno sino a ghermire le nuvole grigie. Nelle loro dimore tenevano certe magiche pietre di alabastro e smeraldo con le quali potevano vedere i loro fratelli lontani e conversare con loro mentre invisibili servi, certo demoni risaliti dai più profondi abissi, servivano i cibi sulle loro mense e spalancavano le porte al loro passaggio.
Tanti erano i loro incanti che di molti di essi, in verità, si è oggi perduta persino la memoria, ma certo la magia più grande era quella che consentiva loro di dominare i Draghi.
Alcune delle leggende più antiche sostengono che essi stessi abbiano creato i Draghi in un tempo lontanissimo per farne i loro servi, forgiando nel fuoco dell'Inferno le ossa strappate alla Grande Madre per costruire le loro corazze. Altri Cantori raccontano, più semplicemente, che i Draghi esistevano dall'Alba dei Tempi e che gli Dei li soggiogarono con le loro magie nel corso di epiche battaglie. Qualunque sia la verità, ed ormai non ci è dato di saperlo, i Draghi erano le creature più spaventose che possiate immaginare. Mille e più razze di Draghi popolavano la terra in quei tempi lontani, alcuni di loro erano piccolissimi, altri talmente giganteschi che non era possibile comprenderne la forma se non restandone a grandissima distanza. Certi erano velocissimi, e correvano per gli smisurati sentieri delle città degli Dei, altri volavano fra le alte torri o più su, nel cielo grigio, lasciandosi alle spalle una scia d'argento, altri ancora erano lenti ma talmente forti da spianare le montagne e deviare il corso dei fiumi al loro passaggio. Tutti avevano una corazza lucente ed impenetrabile, sputavano fiamme abbaglianti e le loro urla, simili al rombo dei tuoni, laceravano i timpani. Erano esseri completamente privi di pietà e travolgevano tutto quello che si parava sul loro cammino. Talvolta, persino gli Dei cadevano, vittime della loro cieca furia.
Nulla mancava agli Dei in quei giorni. Sulle loro mense erano serviti i cibi più deliziosi e le loro torri erano fresche sotto il sole rovente e salde nella tempesta».
«Ed erano immortali…».
«No, in verità gli Dei non erano immortali, ma certo le loro vite erano infinitamente più lunghe delle nostre ed essi avevano magie capaci di prolungarle ancora oltre ogni limite naturale».
«È vero, Cantore, che i nostri antenati vivevano nelle dimore degli Dei?».
«Così era, infatti, in quei tempi lontani anche il nostro popolo viveva tra gli Dei. Ma soltanto alcuni dei nostri avi avevano ceduto alle lusinghe di quegli esseri enigmatici e vivevano nelle loro dimore. Nutriti, è vero, ma tenuti alla stregua di curiosi giocattoli. Coccolati o puniti a seconda del capriccio di un momento. Altri invece, ed erano i più, vivevano ai piedi delle altissime torri, riparandosi negli anfratti del terreno o nei cunicoli del sottosuolo, nascondendosi fra le ombre dei parchi o nei tortuosi recessi delle città degli Dei. Vivevano rubando gli avanzi dei loro potenti vicini, costretti a sfuggire continuamente alla morte. Per coloro che non venivano travolti dalla marcia inarrestabile e cieca dei Draghi, si trattava di sfuggire alla caccia spietata e continua degli Dei, i cui maghi erano sempre alla ricerca di nuove cavie su cui sperimentare le loro crudeli magie. Ed il destino di chi trovava una rapida morte era di gran lunga il migliore. Da questi tutti noi discendiamo».
«Ma tutto questo non è possibile! &endash; sbottò a quel punto il Grigio &endash; Se questi Dei erano così potenti, perché ora non ci sono più?».
«Perché odiavano la vita in tutte le sue forme. Invidiavano le ali degli uccelli e le pinne dei pesci, invidiavano la bellezza del cielo e l'immensità del mare e tutto quello che non potevano essere o avere lo distruggevano. Così fu che gli Dei ricopersero di pietra i prati e le foreste, cacciarono tutti gli altri esseri viventi non per nutrirsene ma per il solo piacere di farlo, lasciando le loro carni a marcire nei campi. Così fu che il fiato fetido dei loro Draghi ammorbò l'aria intossicando gli uccelli nel cielo, che il loro fiele avvelenò l'acqua ed uccise i pesci nel profondo dei fiumi e disseccò l'erba nei campi. E, nonostante questo, essi continuarono a nutrirli col sangue strappato dalle viscere della Madre terra. Perché, sopra ogni altra cosa, gli Dei odiavano se stessi, per tutto quello che non avrebbero potuto mai essere e per quel briciolo di bene che esisteva anche nei loro neri cuori e che, talvolta, li costringeva a rendersi conto del male che stavano facendo. Fu certo per questa ragione che essi corsero incontro alla loro Fine come travolti dalla follia.
La Fine di Tutto non ebbe un inizio certo, si trattò piuttosto della somma di tanti piccoli fatti, di tante piccole cose che non erano più come avrebbero dovuto essere. Il sole si fece ogni anno più caldo, gli uccelli cambiarono le rotte del loro migrare. Debolmente mutò la direzione dei venti e cambiarono i cicli delle stagioni. Alcuni fra i Grandi Maghi avevano capito quel che stava accadendo, ma nessuno dei loro fratelli volle credere alle loro parole, anzi, come assaliti da una nuova follia di morte, quegli esseri incomprensibili presero ad assalire la Grande Madre con rinnovato furore.
Oh, so che per voi sarà difficile crederlo, ma in quei tempi lontani non esisteva neppure il Grande deserto di sabbia rossa che ci circonda. Tutte queste terre erano coperte di alberi verdi e di prati e tagliavano i campi i solchi profondi di immensi fiumi, cento e cento volte più grandi del ruscello che mormora alle vostre spalle…
Solo quando le terre cominciarono a disseccarsi e nessuna magia poté più renderle fertili gli Dei scopersero di non essere così potenti come avevano voluto credere, solo allora capirono quanto anch'essi fossero legati alla Grande Madre che avevano così pesantemente ferito. I più potenti fra loro si nascosero dove ancora la Natura sembrava immune al Grande Contagio, ma presto le Terre Intatte divennero troppo poche per la grande moltitudine degli dei e questi iniziarono a combattere per possederle. Fu la guerra più terribile che possa essere immaginata. I Draghi lucenti si affrontarono nell'aria, sull'acqua e sulla terra. Vomitarono fiamme e morirono devastati dal loro stesso fuoco squarciandosi in migliaia di frammenti incandescenti. Pietre infuocate caddero allora dal cielo e bruciarono quanti ancora si nascondevano nelle incredibili torri. Fu così che anche gli Dei conobbero la paura e la disperazione. I pochi superstiti di quella guerra senza vincitori abbandonarono le loro città di metallo e si nascosero nelle ultime foreste. Uccisero tutti i Draghi, le cui carcasse immobili ancora emergono dal deserto e rinunciarono per sempre alla loro magia implorando dalla terra ferita un perdono che essa più non poteva concedere.
Morirono tutti, atrocemente, nascondendosi nelle oasi, nelle grotte dei monti, fra le rovine delle città. Morirono divorati dalle magie incontrollabili scatenate dai loro Grandi Maghi.
Ciechi, coperti di piaghe, folli per il dolore, uno ad uno gli Dei morirono. Alcuni supplicando, altri maledicendo, altri abbandonandosi ancora una volta alla loro crudeltà, morirono liberando per sempre l'Universo alla loro presenza, morirono lasciando la Terra anch'essa morente».
«Ma… guarirà un giorno la Madre Terra?».
«Nessuno lo sa, piccolo, ma quel che è certo è che ogni gesto malvagio allontana la speranza che questo possa un giorno accadere… Un giorno lontano…».
Già da alcuni minuti l'occhio del vecchio si era velato e la voce era diventata via via più vaga, con un ultimo colpo nervosa la coda rimase immobile, appoggiandosi al corpo, e le palpebre si chiusero dolcemente. I giovani gatti restarono ancora un momento a guardare il vecchio addormentato, poi con un sorriso se ne andarono silenziosi. Soltanto il Grigio si fermò e fissò a lungo il Cantore. Incredibili immagini si formavano nella sua mente e fluttuavano inconsistenti come sogni per poi dissolversi e trasformarsi in nuove impensabili suggestioni.
Ma bastò che il corpo caldo di Lea lo sfiorasse dolcemente perché tutto riacquistasse la chiarezza di sempre. Il Cantore questa volta sorrise. Sognava, e sognava di un amore di tanto, tanto tempo prima.
 
Lontano, oltre le dune del deserto, una torre d'acciaio consumata dai secoli rovinò su se stessa con un boato alzando una nuvola di polvere rossa. Solo un grosso iguana giallo si mosse, infastidito, per correre alla ricerca di un altro riparo.
Ma di tutto questo gli abitanti dell'ultima oasi non avrebbero saputo mai nulla.
Per leggere Il racconto «Nick Slade» 11° classificato nel concorso Marguerite Yourcenar 1997 sez. narrativa
Il racconto breve «La città sul confine del tempo»
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inserito il 27 novembre 1998