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Recensioni
- Marco
Restelli
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- MICHELGUGLIELMO
TORRI, STORIA DELL'INDIA, ROMA-BARI,
LATERZA, 2000
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- Delineare la
straordinaria complessità dei
processi evolutivi della società
indiana, dal 7000 a.C. all'anno 2000
del nostro evo, analizzando tali
processi anche nell'ambito delle
relazioni economiche e culturali fra
Oriente e Occidente: è questo
l'ambizioso progetto perseguito con
successo da Michelguglielmo Torri nella
sua nuova Storia dell'India.
L'Autore, docente di Storia moderna e
contemporanea dell'Asia
all'Università di Torino, si
avvale a questo scopo dei più
innovativi contributi della
storiografia degli ultimi trent'anni,
nello sforzo di demolire sia la
tradizionale visione dell'India
ereditata dalla storiografia d'epoca
coloniale (o da questa influenzata),
sia gli stereotipi ideologici
affermatisi nell'ultimo decennio ad
opera del fondamentalismo indù,
oggi egemone in India tanto sul piano
politico quanto su quello
culturale.
- Il piano
complessivo dell'opera appare ispirato
(a parere di chi scrive) da tre grandi
linee-guida.
- 1) La prima
è costituita dalla
contestualizzazione della storia
indiana nel quadro dei rapporti
economici e culturali intercorrenti fra
i popoli di quella parte del mondo
definita come "Ecumene", che, nelle
parole di Torri, giunse a "comprendere
tutta l'area che si estende dal
Mediterraneo orientale alla Cina
meridionale" (p. 17). Il concetto di
Ecumene, mutuato dallo storico canadese
William McNeill (Plagues and
People, New York 1976; The Rise
of the West. A History of the Human
Community, Chicago 1991, 1°
ediz. 1963), definisce l'area
geografica intercontinenale abitata dai
popoli sedentari, caratterizzati da una
civiltà agricola e poi urbana,
visti in opposizione ai popoli nomadi.
Abbandonando dunque la tradizionale
visione occidentalizzante che indica
l'origine della civiltà umana
nei tre bacini culturali della
Mesopotamia, dell'Egitto e del
Mediterraneo, Torri si apre a una
visione policentrica e globale
("ecumenica" appunto) che disegna i
mutamenti della società indiana
all'interno delle macro-tendenze
socioeconomiche succedutesi
nell'Ecumene, nella convinzione che
"sostanzialmente fino al XVIII secolo
della nostra era, una dinamica
fondamentale della storia del mondo
venne a essere costituita
dall'interazione fra i popoli sedentari
dell'Ecumene e i nomadi"
(ibidem). Il "sistema India"
viene dunque visto come autonomo, ma
legato alle problematiche di un
"sistema mondo" che è costituito
dall'Ecumene. Alla luce di questa
impostazione, Torri rilegge numerose
tappe fondamentali della storia
indiana, per esempio la crescita della
civiltà vallinda (fiorita fra il
III e il II millennio a.C.) in rapporto
alle civiltà mesopotamiche;
l'apice e la caduta dell'impero Gupta
in India, ed il contemporaneo crollo
dell'impero romano, in relazione al
"sorgere di una potente confederazione
tribale nella Mongolia esterna" e delle
spinte di popolazioni nomadi, verso
Ovest e verso Est, da essa causate (p.
110); il delinearsi del Medioevo
indiano secondo "una serie di
peculiarità politiche, culturali
ma sopratutto socio-economiche analoghe
a quelle che caratterizzano l'alto
Medioevo in Europa" (p. 130), e il
confronto fra i processi di
centralizzazione statale in Europa e in
India fra il 1000 e il 1400 (p. 168).
Ma gli esempi potrebbero continuare
numerosi, dal momento che l'Ecumene
resta il quadro di riferimento
dell'intera opera.
- 2) La seconda
linea-guida del volume di Torri si
può individuare nella costante
reinterpretazione (e a tratti
nell'aperta rivalutazione) del ruolo
delle espressioni politiche dell'Islam
in tutto il corso della storia indiana,
in base alla convinzione che l'Islam
stesso non sia mai stato "un corpo
estraneo" alla civiltà indiana
(come ripete certa odierna storiografia
induizzante), e che non sia lecita una
lettura della storia indiana basata su
categorizzazioni religiose. Ne
consegue, per esempio, che Torri,
riferendosi all'egemonia esercitata
dagli stati islamici in India dal XIII
al XVIII secolo, con vis polemica
definisce "irrilevante l'etichetta di
'età islamica' ", pur accettata
da buona parte degli storici,
poiché "il tentativo di
unificazione (dell'India, ndr.) e di
centralizzazione venne portato avanti
dai sultani di Delhi non certo
perché essi erano di religione
islamica, ma per ragioni di
Realpolitik" (p. 170). E più
avanti sottolinea: "La stella polare
che orientò l'azione di governo
dei sultani di Delhi fu... la
necessità di far funzionare lo
Stato, piuttosto che quella di
difendere e di glorificare l'Islam" (p.
213).
- È
questa un'impostazione senza dubbio
stimolante (anche perché, ancora
una volta, lega l'evoluzione delle
dinamiche statuali indiane alle ben
più ampie modificazioni
strutturali nell'Ecumene), e tale da
meritare grande attenzione; tuttavia
rischia, a parere di chi scrive, di
portare a sottovalutare l'importanza
del fattore religioso come elemento
identitario degli "attori" della storia
politica indiana. Quest'opera di
riconsiderazione delle ragioni della
politica degli stati islamici indiani
in quanto "entità statuali" e
non in quanto "islamici" porta Torri,
per esempio, a porre in secondo piano
il senso religioso dello scontro
(militare, politico, ma anche
culturale) che oppose la dinastia
islamica dei Mughal alla
comunità Sikh lungo il XVII
secolo fino agli inizi del XVIII (pp.
298-313). Su un piano più
generale, si tratta di un'impostazione
che sembra contenere in sé sia
la negazione di qualsiasi carattere
espansivo o "aggressivo" attribuibile
all'Islam in quanto Islam, sia la
negazione che l'Islam possa avere
rappresentato, in alcuni momenti della
storia indiana, non solo un elemento di
grande ricchezza culturale per la
società (ciò che
indubbiamente è sempre stato) ma
anche un elemento di contraddizione e,
talora, di frattura. Arrivando al XX
secolo, sono indicative in tal senso le
pagine, peraltro documentatissime, che
l'Autore dedica al sorgere dell'idea di
Pakistan all'interno della Lega
Musulmana, ove attribuisce scarsa
importanza e influenza alle istanze
separatistiche espresse da illustri
membri della Lega, istanze destinate
poi a sfociare, nel 1947, appunto nella
nascita dello Stato pakistano (pp.
569-580).
- 3) La terza
linea-guida dell'opera di Torri
è individuabile in una costante
e circostanziata critica della
"spiritualizzazione della politica"
(per usare un'espressione di Nehru
citata da Torri stesso) e al contempo
in una desacralizzazione dei "miti"
della politica indiana, con particolare
attenzione alla storia dell'età
moderna e contemporanea, materia
già affrontata dall'Autore in
numerosi studi (fra i quali ricordiamo
Dalla collaborazione alla
rivoluzione non violenta, Torino
1975, e Regime coloniale,
intellettuali e notabili in India,
Milano 1996). Dopo avere considerato
criticamente l'intreccio fra
ispirazione religiosa e azione politica
in figure centrali nella storia del
subcontinente indiano, quali Jinnah e
Gandhi (quest'ultimo in parte
responsabile, secondo l'Autore,
dell'innescarsi del processo di
"spiritualizzazione della politica"),
Torri dedica passi illuminanti (pp.
758-771) alla nascita della cultura del
fondamentalismo indù, al suo
progressivo affermarsi nella
società indiana e poi al suo
consolidarsi sul piano della formazioni
politiche, destinate a conquistare la
maggioranza e il governo dell'India
negli anni Novanta del secolo scorso. E
coerentemente con l'impianto dell'
opera, termina augurandosi che "l'opera
degli zeloti indù dell'anno 2000
non abbia miglior fortuna dell'opera
dello zelota musulmano (l'imperatore
mughal Aurangzeb, ndr.) del XVII
secolo".
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