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Dossier
Studi Culturali
- Gian
Piero Piretto
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- VISIONI
E RAPPRESENTAZIONI DI NON-FLÂNEURS
SOVIETICI
- LO
SGUARDO DEL E SUL COMPAGNO
STALIN
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- Nell'universo
visivo della cultura sovietica le immagini, nella loro
più basilare ma fondamentale accezione di
produttrici di significati, hanno occupato una
posizione di immensa importanza. In qualunque conto si
voglia tenere la matrice religiosa-spirituale
dell'icona (in russo ikona ma soprattutto
obraz, immagine per antonomasia), la tradizione
affida alla sua poetica la responsabilità di
farsi tramite tra l'uomo e il soprannaturale, dando
vita a un particolarissimo rapporto tra
osservatore-fruitore, immagine (sacra) e
parole-motti-didascalie in essa contenuti (cfr.
Florenskij: 1997, Franzini: 2001, Passarelli: 2003).
Attraverso la contemplazione e la venerazione
dell'icona l'uomo acquisiva la capacità di
vedere l'invisibile, quanto la raffigurazione sulla
tavola di legno non poteva e non intendeva riprodurre,
ma a cui simbolicamente rimandava. Su questa base si
sono sviluppate tendenze e atteggiamenti diversi e
originali che nel corso dei secoli hanno segnato il
rapporto dialettico tra osservatore e oggetto
osservato, ciò che costituisce quanto viene
oggi definito "evento visivo", tratto fondamentale per
l'analisi della visual culture in ogni
cultura:
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- The
constituent parts of visual culture are, then, not
defined by medium so much as by the interaction
between viewer and viewed, which may be termed the
visual event (Mirzoeff: 1999, 13).
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- Il secondo e
fondamentale atteggiamento di interazione dialettica
tra fruitore e oggetto iconografico della tradizione
visiva russa, complementare a quello sacro e rituale
dell'icona, è impostato sulla stampa popolare
del sei-settecento (lubok), affine all'immagine
sacra per impianto e origini, ma laica, folclorica,
"bassa", ancorché, come l'icona,
"caratterizzata dalla semplicità di un'immagine
che si coniuga con il testo scritto" (Pesenti: 2002,
14). La differenza fondamentale, oltre al soggetto
rappresentato, era data dall'utilizzo ludico e quasi
fisico di quest'ultima, in contrasto con la ieratica
contemplazione riservata all'icona. In altra sede ho
affrontato la relazione tra queste due forme
d'arte1
antica e il riscontro che hanno trovato
nell'iconografia e nell'immaginario sovietico degli
anni Venti e Trenta (cfr. Piretto: 2002). Oggi, ferme
restando le considerazioni sulle matrici storiche
della cultura visiva in quel paese, mi spingo oltre
per analizzare un problema legato a un suo aspetto
fondamentale: lo sguardo e la rappresentazione di
quanto osservato, tenendo come punto di riferimento un
paio dei più illustri occhi dell'epoca, quelli
di Iosif Vissarionovic Stalin, e utilizzando come
materiale documentaristico una delle forme più
interessanti di arte massificata, il manifesto di
propaganda e la sua specificità di farsi negli
anni staliniani esclusivo e indiscusso modello di
mondo.
- Un tratto di
specificità e originalità della
produzione e della conseguente fruizione del
plakat (manifesto) nella cultura sovietica
è legato ai fattori stimolanti politici e
sociali che lo hanno fatto nascere. La funzione di un
prodotto visivo è solitamente connessa a
motivazioni che vanno dalla comunicazione, alla
divulgazione, all'informazione, alla persuasione, sui
fronti più diversi: politica, commercio,
istruzione, spettacolo. In URSS la molla che fece
scattare la produzione massiccia dei manifesti fu
articolata e plurifunzionale. La lingua russa mutua il
termine propaganda dal latino, il termine
reklama (pubblicità) dal francese, ma
conia un concetto di notevole originalità
combinando in una nozione specifica e direttamente
dipendente dalle esigenze di un preciso periodo
storico due sostantivi: agitacija (agitazione)
e propaganda, ottenendo agitprop. Figura
che univa in sé l'attività del
propagandist (propagandista), colui che
combinava slogan e immagini a sostegno dell'ideologia,
e quella dell'agitator (agitatore), che
divulgava nei luoghi appositamente pensati per
l'occasione i prodotti usciti dalla creatività
degli agitatori (Kenez: 1985, 7). All'inizio
dell'esperimento sovietico, negli anni più
vicini a quella che era stata l'avanguardia, la
collaborazione tra politica e cultura avrebbe
investito, anche sul fronte propagandistico, in
sperimentazioni ardite e utopistiche, rispettando e
stimolando la concezione che anche guardare e vedere
potessero essere esperienze semiotiche. La relazione
tra l'apparato visivo, il mezzo di comunicazione, la
tecnologia che lo aveva creato e un
osservatore-fruitore sfociava nell'esperienza
dell'evento visivo (Mirzoeff: 1999, 13). Le immagini,
oltre a connotarsi come veicolo privilegiato per
arrivare alla massa degli ex contadini e operai, ormai
unificati nella definizione di proletari che li
avrebbe portati a diventare i nuovi signori dello
stato sovietico, continuavano, secondo lo spirito
distruttivo e provocatorio dell'avanguardia, a
procurare esperienze semiotiche. L'osservazione di
quel particolare sistema di segni implicava la lettura
dei messaggi iconografici come interpretazione degli
stessi. Vedere, secondo la cultura-propaganda dei
primi anni Venti, non era credere, ma interpretare.
Negli anni della Nuova Politica Economica (NEP) lo
stato sovietico dovette fare i conti con la
concorrenza commerciale dei negozianti privati,
tornati in auge nel tentativo leniniano di risanare la
fallimentare economia sovietica, disastrata dalla
guerra civile e dalle conseguenze della rivoluzione.
Questa operazione vide ancora all'opera artisti e
poeti, epigoni dell'avanguardia, che anche in quella
forma popolare e massificata di arte finalizzata alla
pubblicità commerciale investirono le forze
migliori (Piretto: 2001, 42-46). I risultati non
furono entusiasmanti. Il gusto primitivo,
l'impreparazione, l'arretratezza e l'ignoranza che
caratterizzavano loro malgrado i fruitori di quei
prodotti avrebbero reso impossibile il rapporto
dialettico tra le due parti, che avrebbero continuato
a preferire testi banali, privi di dialettica
politica, lontani dalle elitarie complessità
delle sperimentazioni. La messa al bando della NEP
coincise con la fine di contributi provocatori e
dell'alleanza tra una certa schiera di intellettuali e
il potere. Il passaggio di testimone a Stalin e la sua
cosiddetta rivoluzione culturale avrebbero
considerevolmente cambiato le cose, indirizzando verso
categorie molto diverse produzione e fruizione della
cultura, quella visiva compresa. Si fa ricorso alla
categoria estetica del Kitsch per interpretare questi
cambiamenti. Il livello fu abbassato, semplificato,
reso abbordabile a tutti. Nessun approfondimento dei
problemi, ma una loro trionfalistica soluzione e
proposizione in termini di concetti facili,
preconfezionati e facilmente condivisibili. Immagini
chiare, prive di trasparenza interpretativa, mimetiche
e piatte fino all'inverosimile. La tecnica del
montaggio che aveva caratterizzato gli anni Venti nel
cinema e nella fotografia viene rimossa e condannata
come artificio che, creando da due o più punti
di vista una nuova visione unitaria, rende difficile
l'osservazione ed esige interpretazione. La lettura
semiotica dell'immagine suscitava "admiration, awe,
terror and desire" (Freedberg: 1989, 433), in altre
parole evocava la categoria estetica del sublime, che
lo stalinismo avrebbe condannato come troppo complessa
e anacronistica, preferendole una reazione che avesse
come effetto la più scontata e garantita
empatia. Il nuovo cittadino sovietico aveva diritto a
sensazioni ed emozioni positive, a tutto tondo. Il
timor panico, per quanto suscitato da un surplus di
bellezza, era stato eliminato anche dalla tradizionale
concezione della natura russa. La nostra vita è
la più bella che si possa immaginare, e il
bello è la nostra vita. L'immagine e l'emozione
nascevano e morivano in se stesse, non rimandavano ad
altro. La confusione, gli elementi ambigui
di sfondo che, secondo Baumgarten, costituiscono
la sfida che ogni immagine lancia nel suo dover essere
chiarita e compresa, venivano a cadere2.
La composizione dell'immagine si esauriva
nell'osservazione e nell'applicazione della categoria
filosofica della credenza: credo a ciò che
vedo. Ciò che vedo rappresentato è il
vero, più autentico di quanto si para al mio
sguardo nella vita di ogni giorno.
- Per esaminare
la categoria dello sguardo e le sue possibili funzioni
procedo introducendo la figura che nella storia della
cultura universale ha incarnato lo spirito
dell'osservatore per antonomasia: il
flâneur, che dai Passages
parigini, dalle aure baudelairiane e benjaminiane in
poi si è sfaccettato in mille varianti e
sfumature. Anche la Russia della modernità ha
avuto un suo flâneur, ben inteso carico
di specificità culturali, non tanto nazionali,
quanto complesse e problematizzate dall'autore che lo
aveva creato: Fëdor Michajlovic Dostoevskij (cfr.
Piretto: 1993, 1996). Il flâneur russo si
chiamò sognatore pietroburghese
(peterburgskij mectatel'), perché
soltanto in quella città la figura di un
viandante urbano poteva combinarsi con spazi, volumi
architettonici, bizzarie climatiche e folla. Tra
ponti, lungofiumi e territori urbani marginali il
sognatore-strampalato-flâneur avrebbe
alternato passeggiate a testa bassa a contemplazioni
solitarie, in preda a un trasporto quasi onirico,
della Pietroburgo estiva. Avrebbe dialogato con le
case, osservato volti e abitudini comportamentali,
cercato o fuggito personaggi e fantasmi, soprattutto
evitato di scambiare qualsivoglia parola con chiunque.
Come i suoi omologhi europei avrebbe privilegiato
l'attività dello sguardo, muovendosi nello
spazio con un'andatura e una motivazione che
favorivano e rendevano possibile una particolarissima
osservazione. Avrebbe elaborato tecniche singolari di
passaggio attraverso gli spazi, ottenuto visioni
alternative della realtà (Jenks:
1998,148).
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- Tutto
lo colpiva; non si lasciava sfuggire una singola
impressione e con lo sguardo pensieroso guardava i
visi dei passanti, fissava il volto di chiunque gli
stesse intorno, ascoltava amorevolmente la parlata
popolana, come se volesse verificare su tutto le
conclusioni a cui era arrivato nel silenzio delle
sue notti solitarie (Dostoevskij: 1956,
426).
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- Con Simmel e
la sociologia marxista il flâneur europeo
avrebbe perso la sua connotazione riduttiva di
viandante di strada borghese, letterario,
blasé. Storia, politica, capitalismo e
merce avrebbero contribuito a fare di lui un
osservatore più responsabile, a mutare il suo
atteggiamento snobistico nei confronti della folla, a
richiedere un suo "engagement with the crowd" (Jenks:
1998, 153). Si sarebbe connotato anche come critico
culturale e indagatore privilegiato. Proprio per
questo, e nonostante tutto questo, per il potere e la
cultura sovietica staliniana uno spettatore solitario,
partecipe soltanto nel gusto voyeuristico delle
attività della folla (massa), troppo isolato e
troppo attento indagatore di fenomeni e creatore di
particolarissimi "eventi visivi", rischiava di
diventare figura anacronistica e priva della corrente
correttezza politica. La parola chiave dello
stalinismo, già lanciata dagli agitprop
degli anni Venti, sarebbe diventata "attiva
partecipazione". L'indolenza, il vagabondaggio, lo
starsene in disparte a scrutare con curiosità
quasi morbosa lo scorrere della vita non avrebbe
trovato né spazio né comprensione nel
nuovo sistema di valori e mentalità. Il
rendersi invisibile tra la folla, il vedere senza
essere visto (Ihle: 2002, 86-87) erano prerogative che
nell'Unione Sovietica di quegli anni spettavano a una
ben precisa categoria di persone: i collaboratori del
Comitato di sicurezza statale (komitet
gosudarstvennoj bezopasnosti), altrimenti noto
come KGB. Osservatore privilegiato, immobile, privo
sia della agilità frenetica di un certo
flâneur, che della curiosità
indagatrice della variante stanziale, unico ad aver
diritto allo spettacolo della folla senza mai
mescolarsi a essa, sarebbe stato Stalin. Dalla tribuna
del Mausoleo di Lenin, irrigidito nella divisa,
limitando la dinamicità a un meccanico gesto
della mano, avrebbe trovato legittimazione e
giustificazione alla propria autorità nel
rimirare, ma senza gusto autenticamente voyeuristico,
la massa dei cittadini sovietici che sfilavano innanzi
a lui in occasione di manifestazioni, dimostrazioni,
ricorrenze, tutti con il capo piegato verso destra per
rendere omaggio alla sua supremazia e per godere della
visione dell'idolo nell'attimo fugace del passaggio di
fronte alla tribuna. Ad avere il diritto di sfilare
sulla piazza Rossa nelle occasioni rituali erano i
privilegiati, coloro che con prestazioni da super
lavoro, stacanovismo, adesione entusiastica alla
causa, si fossero guadagnati la postazione di favore.
Per il resto del paese, in corsa o meno verso quel
posto al sole, tutto era affidato alla
rappresentazione, cinematografica, iconografica,
visiva. Il principio di visualizzazione inteso come
traduzione dell'esperienza in immagini (Mirzoeff:
1999, 5), applicato massicciamente dalla cultura
staliniana, avrebbe contribuito a rendere il discourse
più comprensibile, di più rapida
ricezione, di maggiore effetto. Il bisogno moderno di
raffigurare o visualizzare l'esistenza si
realizzò nell'URSS degli anni Trenta-Cinquanta
con particolare rutilanza e con tratti di grande
originalità, dovuta anche all'utilizzo politico
che ne sarebbe stato fatto. La parola come testo
cedeva lo spazio alla parola come immagine. Lo stesso
Stalin avrebbe fatto pochi e misurati ricorsi
all'oratoria. Tutti i suoi discorsi furono brevi,
essenziali, con il suo russo fortemente segnato dalla
nativa cadenza georgiana. La parola, anche per il
dittatore, avrebbe ceduto il posto
all'immagine.
- Il consueto
andamento storico dell'avvicendamento dei modelli di
rappresentazione, secondo il quale la moderna
instabilità dell'immagine fa sì che
mentre un sistema di raffigurazione perde terreno
già un altro avanza, pur senza far scomparire
il precedente, subì una violenza. La cultura
degli anni Trenta tese a rimuovere e nascondere, anche
fisicamente, modelli e prodotti del decennio
precedente. Il rapporto dialettico fu bruscamente
interrotto. La relazione tra osservatore e oggetto
osservato mutò. L'esperienza semiotica venne
abbassata e ridotta, privata del suo aspetto
più coinvolgente e dinamico: l'interpretazione.
Vedere tornò a essere credere, non
interpretare.
- I molteplici
manifesti che ritraevano Stalin circondato dalle
più svariate componenti di popolo sovietico, o
nell'atto di intrattenere a distanza ravvicinata gli
specialissimi e privilegiati ospiti dei mitici
banchetti al Cremino, appartengono alla più
assoluta virtualità e rientrano in quella
funzione di creazione di modello di mondo a cui la
strategia del potere tendeva. Anche in questo ambito
con differenze e sfumature comportamentali che
risentono del passare della storia e dell'evolversi o
involversi della situazione al potere. Lo Stalin degli
anni Trenta, vestito della semplice casacca militare,
sulla traiettoria di lancio verso i trionfi del culto
della propria personalità, è
rappresentato attorniato da bambini, lavoratori,
popolo in raffigurazioni pressoché allegoriche:
la sua figura non è narrativamente inserita nel
gruppo, ma si staglia in forme diverse al di sopra
della quotidianità e della folla. La sicurezza
di cui godeva gli permetteva quel ruolo di
flâneur tanto particolare, di altero,
stanziale osservatore degli altri. Non nascosto allo
sguardo del mondo, non seduto al tavolino di un
caffè ma pronto a scattare all'inseguimento di
un'attrazione fantasmatica, come l'uomo della folla di
Poe (Poe: 1840), né al riparo di una finestra,
costretto all'immobilità da una paralisi,
attratto dall'animazione di un mercato, come il cugino
del racconto hoffmaniano (Hoffmann: 1822). Ma bene in
vista sulla tribuna del mausoleo, legittimamente e
trionfalisticamente esposto a sguardi che non lo
potevano scalfire, né mettere in discussione.
Non era lui l'indagato, gli occhi di chi sfilava lo
sfioravano per pochi attimi ed erano tenuti dal
cerimoniale e dal ritmo della manifestazione a passare
prontamente oltre. Consapevole di questo stato di cose
non si curava neppure della propria immagine: si
presentava semplice e sobrio, cosciente di essere lui
a detenere il privilegio dello sguardo attivo (Lotman:
1994, 65). La folla era per lui spettacolo, ma in
maniera assai diversa da quella che il
flâneur aveva concepito. La situazione si
era complicata e articolata secondo gli stimoli che
venivano dalla politica. L'osservatore-fruitore stava
fermo, sicuro di sé nell'ostentazione della
propria figura pubblica, e la rappresentazione,
teatrale e organizzata secondo un preciso copione,
scorreva davanti ai suoi occhi. Nessuno, tanto meno
lui, si immergeva più nella quotidianità
trasformandola in strumento di narrazione. La
normalità o i territori marginali in cui
muoversi erano stati banditi. Soltanto rito e
celebrazione, soltanto luoghi leggendari e carichi di
mito. Nessuno attraversava lo spazio sociale
scrutandone l'organizzazione pratica. Il pedone
sovietico marciava, non camminava, ed era squadrato
dall'alto di una tribuna. Il suo movimento, mai
solitario e sempre ritmato, organizzato e ben
costruito, si trasformava in spettacolo e
legittimazione della bontà del regime e delle
sue iniziative. Spettacolo in questa circostanza
è da intendersi come convenzione visiva e
determinazione dell'imagery del momento.
È la forza reazionaria che si oppone
all'interpretazione. È un'appropriazione
preesistente del visivo nella forma di quella che deve
diventare l'unica realtà accettabile (Jenks:
1998, 155). Lo spettacolo indica le regole di cosa si
può e non si può vedere, la sua
"visibilezza" (seenness), l'aspetto rappresentazionale
dei fenomeni che sono promossi, non la valenza
politica o estetica che li renderebbe meritevoli di
essere visti. Il pedone urbano del paese sovietico
più felice del mondo non deve banalmente
"mingle with the crowd" sulla base di un'attrazione
personale e quasi morbosa, ma farsi totalmente
folla-massa-collettivo e diventare parte dello
spettacolo inscenato per il leader e per il resto del
mondo, per una recita che egli non avrebbe osservato
ma di cui sarebbe diventato consapevolmente attore.
Quando lo spettacolo dell'eccezionale nel quotidiano
fosse andato in scena, avesse avuto la sua prima sulla
piazza Rossa e avesse ottenuto l'imprimatur attraverso
la convalida dello sguardo fisso e vuoto del capo
supremo, il prodotto sarebbe stato pronto per la
divulgazione attraverso vari stadi di cultura visiva.
Trasposizione in film, la più completa delle
esperienze visive, con tanto di intreccio, immagini in
movimento, colonna sonora che riprendeva e fissava
nella memoria, con un allargamento sinestetico
dell'evento visuale, il messaggio e l'esperienza
vissuta in sala. Poi il manifesto, forma ridotta,
sintetica ma fondamentale dell'operazione, che
rilanciava concetti già noti o ne promuoveva di
inediti, ma sempre sostenuto da parallele campagne che
totalizzavano l'evento di cui era protagonista. Ultima
tappa, non meno importante era la parola-immagine, i
grandi slogan esibiti a caratteri cubitali su muri e
tetti di edifici in ogni città, a riprendere il
concetto chiave già introiettato dal pubblico
attraverso più facili e godibili esperienze.
Una sorta di ripasso costante, di memento in forma
breve ma efficace di eventi visivi ed emotivi
già vissuti e da non dimenticare. Una ripresa,
in forma riduttiva e talora degenerata, della poetica
dell'icona. Vedere l'invisibile non significava
più arrivare a una dimensione soprannaturale o
spirituale, bensì cedere totalmente
all'illusione della realtà virtuale che veniva
confezionata quotidianamente e di cui i prodotti
visivi erano complici e responsabili fondamentali.
Manifesto come modello di mondo in cui credere, da
osservare e fare proprio invece di quello reale.
Secondo il modello teatralizzante dell'immagine
fornito dal lubok (stampa popolare), la
realtà raffigurata sul manifesto doveva essere
vivificata, messa in scena ogni giorno per eliminare
la routine che uccide lo spettacolo e infrange la
ritualità. La situazione effettuale della
storia quotidiana doveva essere costantemente
trasformata in rito ed eccezionalità.
Difficoltà di sopravvivenza, terrore, squallore
esistenziale sparivano nella coscienza comune della
maggioranza, anche grazie alla sofisticata strategia
di organizzazione delle immagini e delle visioni
offerte, concesse e imposte al popolo. La
ripetitività delle immagini, la loro
rassicurante riconoscibilità, veicolavano un
sapere comune che faceva accettare l'evidente
falsità di quel testo in nome della sua
"verità" ideologica. La retorica dei manifesti
di propaganda non si poneva il problema del vero o del
falso. Il problema etico era altrettanto sospeso, a
vantaggio dell'efficacia della narrazione, della legge
dell'empatia, del legame che creava tra il soggetto e
il mondo. La tensione dovuta alla costante situazione
di insicurezza, timore e ambiguità di rapporto
con il potere faceva il resto e contribuiva a
"convincere". Nulla meglio del cinema e del
plakat si prestava a questa funzione: vincere
la resistenza allo spettacolo opposta dalla pratica
della quotidianità e promuovere una
realtà illusoria ma consolatoria e legittimata
dall'ideologia che altrove ho definito Stalinland
(Piretto: 2001, 129-150), il paese come parco a tema,
astratto, privo di connotazioni autenticamente
storiche, ma giocoso e attraente nella sua
rappresentazione. Attraverso queste forme di
spettacolo la gente acquisiva una (fasulla) conoscenza
degli aspetti irrinunciabili della vita
sociale.
- Lo Stalin
sorridente e bonario nei manifesti degli anni Trenta e
Quaranta ha sempre una barriera che, in varie forme e
modalità, lo separa dalla folla: una tribuna,
un mazzo di fiori, un podio. A significare che la sua
figura non si mescolava alla massa, che la sua
immagine era trascendente, superiore,
unica.
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- Sotto
la guida del grande Stalin, avanti verso il comunismo!
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- Grazie
al caro e amato Stalin per la nostra infanzia
felice!
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- L'amato
Stalin è la felicità del popolo,
1949
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- Il
grande Stalin è il vessillo dell'amicizia tra i
popoli dell'URSS, 1950
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- Solo a guerra
vinta, ma a tensioni e paranoie acuite al massimo, la
raffigurazione iconografica lo porterà a
cercare una rassicurazione alle sue fobie in un a
maggior ragione sempre più virtuale contatto
fisico con i suoi cittadini. E la sua sicurezza di
detentore del podio d'osservazione, di essere colui
che contempla, tradirà un'incrinatura pesante
nel suo addobbarsi con la divisa di grande ufficiale e
le onorificenze applicate alla casacca bianca.
Cadranno barriere ed elementi separatori. Sentendosi
osservato, studiato, la sua immagine avrà
bisogno di orpelli e sostegni esteriori.
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- Lavora
con militante costanza, affinché il
kolchoz diventi esemplare! Per un lavoro onesto
ti aspetta una ricompensa: agiatezza, gloria e
rispetto!
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- B.
Vladimirskij, Rose per Stalin,
1949
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- Paradossalmente
l'idolo scenderà tra la gente, ma
toccherà al suo look la responsabilità
di segnalarne quella superiorità e quel
distacco che non saranno più spontanei. E a
stigmatizzare questa situazione arriveranno delle vere
e proprie icone.
Sotto l'insegna di Lenin, sotto la guida
di Stalin, avanti verso la vittoria del
comunismo!
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Noi siamo per
la pace e difendiamo la causa della
pace.
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- Arriveremo
all'abbondanza!
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- Uno Stalin
ringiovanito, con il volto rilassato e lo sguardo
invariabilmente volto altrove rispetto al punto di
vista di chi osserva. La sua immagine elegante e
imponente e uno slogan: l'essenza del pensiero.
Talvolta l'aura-ombra leniniana alle spalle a
confermare l'ispirazione e l'impronta del grande
predecessore. Il resto dei manifesti di propaganda
prodotti negli anni Cinquanta, prima della sua morte,
avrebbero continuato a fornire modelli di mondo sempre
più artificiali e "laccati", in barba alla
disastrata situazione dell'economia e
dell'agricoltura. La parola chiave "abbondanza"
(izobilie), riportata anche in una delle
"icone" staliniane dei primi anni Cinquanta, avrebbe
improntato di sé manifesti e film, inserendo
nell'epopea del non-flâneur sovietico il
rapporto con la merce. Con lo spettacolo della merce,
non il suo utilizzo o tanto meno fruizione. La
contemplazione di beni di consumo, che già
raffigurazioni degli anni Trenta avevano inserito
nella realtà virtuale di quell'universo,
sarebbero esplose a convincere la popolazione di
vivere in uno stato non soltanto ricco, ma
eccezionalmente agiato. Non solo prodotti alimentari,
ma ogni genere di bene materiale sorrideva allo
spettatore dai muri e dagli schermi.
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- Alla
terra, acqua. Al popolo,
ricchezza!
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Più
verdura e frutta per le città e i
centri industriali!
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Più
tessuti solidi e abiti belli!
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- Concludo
citando il testo che più di ogni altro incarna
queste posizioni, un film del 1949, Kubanskie
kazaki (I cosacchi del Kuban') di Ivan
Pyr'ev. La scena dei cosacchi in festa e in riposo
alla fiera più virtuale della storia, del
cinema e in assoluto (Piretto: 2001, 216-219), offre
una vera orgia visiva di abbondanza. I visitatori non
consumano nulla di quanto esposto sui banchi. Prendono
liberamente, senza la banale e capitalistica
mediazione del denaro, e la gioia è tutta per
gli occhi. Guardare, riempirsi lo sguardo, per
personaggi e spettatori, pare essere l'unica ragione
di vita, l'esigenza primaria. Necessaria e
sufficiente. Guardare e credere. Che importa se a casa
la tavola è vuota, la credenza pure e l'armadio
altrettanto. Dai manifesti e dalle pellicole la vita
ci sorride, basta osservare e credere.
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