-
Clara
Bulfoni
-
- IL CONTRIBUTO ITALIANO
ALLA LIBERAZIONE DELLE
- LEGAZIONI STRANIERE
ASSEDIATE A PECHINO DAI BOXER
-
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- Solitamente quando si affronta
il tema della presenza italiana in Cina, si risale fino ai nomi di
Marco Polo, alla corte di Genghis Khan, e poi del gesuita Matteo
Ricci, in Cina dal 1583 al 1610. Ad essi si aggiungono altri
viaggiatori e missionari più o meno noti i quali, oltre a
divulgare il Cristianesimo nelle più remote regioni,
diffusero anche le scienze e le tecniche occidentali1.
Ma si trattava, per lo più, di religiosi in Cina sotto la
protezione di qualche paese occidentale e di marinai imbarcati su
navi straniere.
- Di fatto le prime relazioni
politiche dell'Italia con la Cina iniziarono solo il 26 ottobre
1866 con il "Trattato di commercio e navigazione" siglato dal
comandante della pirocorvetta della Regia Marina "Magenta",
Vittorio Arminjon, durante una campagna in Oriente. Con questo
trattato quindici porti furono aperti al commercio italiano e fu
riconosciuta una rappresentanza nella capitale cinese2.
Fautore di più cospicui rapporti commerciali con l'estero,
in particolare con l'Oriente, fu il conte Luigi Torelli, ministro
dell'Agricoltura e del Commercio sotto il Governo La Marmora nel
1864. Infatti, l'allora fiorente produzione dell'industria serica
italiana fu messa a rischio da una malattia del baco, imponendo
quindi la necessità di rifornirsi dai paesi orientali, e in
particolare dalla Cina, di bachi da
seta3.
- Da allora i viaggi di navi
italiane in Cina si succedettero con regolare frequenza. La
presenza di connazionali residenti era tuttavia molto esigua: solo
23 persone nel 1872 e 133 nel 1891, per la maggior parte
stabilitesi a Shanghai, il maggior centro di
commercio4. Un trafiletto del Corriere della
Sera del 10-11 luglio 1900 riporta una statistica, redatta dal
Governo americano, sulla popolazione straniera residente in Cina:
nel 1899 gli italiani ammontavano a 124 con 3 ditte. Il nuovo
Regno d'Italia prestava scarsa attenzione alla Cina; essa infatti
non costituì mai un paese di conquista territoriale ed
economica per i nostri politici: il primo Ministro
plenipotenziario incaricato a Pechino il 31 marzo 1867 aveva
stabilito la sua residenza in Giappone, ove era pure accreditato,
e solo nel 1878 Ferdinando de Luca fu nominato residente a
Pechino, preferendo però stabilirsi a Shanghai, dove era
accentrata la presenza italiana5. Gioverà
riportare il giudizio - molto critico - di Giuseppe de' Luigi,
delegato della Missione Italiana in Cina nel primo decennio del
'900, in merito all'indifferenza del nostro
governo:
-
- "Eravamo riusciti, per
forza delle circostanze e per merito del nostro rappresentante
[il Ministro Salvago Raggi] durante l'occupazione di
Pekino, ad infondere migliore concetto di noi. Con il
riconoscimento del protettorato italiano da parte delle nostre
missioni avevamo già una considerevole mole di interessi
in Cina, ma la fedeltà ai soliti sistemi non mai
abbastanza deplorati ci fece perdere anche i vantaggi che solo
alla fortuna dovevamo [...] Con disinvoltura noi ci
ostentiamo a considerare lo stesso funzionario, adatto
indifferentemente alle Americhe ed all'Africa. I nostri
rappresentanti sono i soli, con enorme pregiudizio di nostri
interessi, a non essere specializzati [...] Parlare
d'un'influenza esercitata dall'Italia in Estremo Oriente,
sarebbe o menzogna od ironia. La Cina, il maggior mercato del
mondo, ha un bel concetto del Belgio e dell'Olanda, ma non di
noi, che crede deboli, ma intenzionalmente rapaci al pari dei
forti"6.
-
- Un argomento, finora poco
affrontato, ma che merita maggior approfondimento proprio
attraverso l'esame della stampa e della documentazione dell'epoca,
è quello dell'intervento multinazionale, di cui fece parte
anche l'Italia, per la liberazione delle legazioni straniere
assediate a Pechino dai Boxer nel 1900.
- Alla fine del XIX secolo la
Cina venne scossa da una profonda crisi culturale e politica, che
originò dalla propria debolezza economica. Dopo la guerra
cino-giapponese del 1894-95 che rivelò la tragica impotenza
della Cina7, l'imperatrice Ci Xi, non riuscendo a far
fronte ai problemi finanziari, s'indebitò sempre più
con le potenze occidentali, le quali, in cambio dei prestiti
accordati, pretesero maggiori privilegi sul territorio cinese nel
tentativo d'attuarne uno "spezzettamento" (Break-up of
China). Il fallimento delle riforme del 18988
indusse l'imperatrice a cercare di dirigere la marea del
malcontento lontano dal trono, in altre parole contro gli
stranieri e le loro proprietà. Fu in questo clima che prese
via via sempre più spazi la setta dei "Pugni di giustizia e
di concordia" (Yihe quan) - conosciuta in Occidente sotto
il nome di "Boxer"9 - caratterizzata da un estremismo a
forti tinte xenofobe. Le origini di questo movimento non sono del
tutto chiare, ma si ritiene si tratti di una società
segreta sorta agli inizi del XIX secolo e sviluppatasi soprattutto
nello Shandong, dove il governo incoraggiò l'organizzazione
di milizie locali per resistere ai Tedeschi, particolarmente
orientati ad ampliare i loro interessi in questa provincia.
Infatti l'espansione dei grandi imperi coloniali, iniziata con la
Guerra dell'Oppio nel 1840, sollevò l'opposizione violenta
delle masse cinesi, vessate dal crollo dell'economia artigianale
contadina e dalle catastrofi naturali, opposizione diretta da
società segrete legate all'ambiente rurale e rivolta
soprattutto contro le missioni e i cristiani cinesi, contro i
quali vennero diretti numerosi attacchi tra il 1895 e il 1899. In
seguito alle proteste straniere, la Corte fu costretta ad
intervenire militarmente contro i Boxer che allora spostarono il
proprio campo d'attività verso la regione del Zhili
(l'attuale provincia dello Hebei), riversandosi poi sia a Pechino
sia a Tianjin, dove distrussero beni delle missioni e degli
stranieri.
- Manifesti affissi il 20 maggio
1900 per le vie di Pechino e annuncianti che il massacro degli
stranieri avrebbe avuto luogo il primo giorno della quinta luna,
cominciarono a diffondere l'allarme, ma ancora i ministri
stranieri non si trovavano d'accordo nel richiedere l'invio di
truppe per proteggere le legazioni10. A questo
proposito, il Corriere della Sera del 9-10 giugno riportava
in prima pagina:
-
- Il problema politico del
giorno è nell'Estremo Oriente, ove la rivolta dei Boxers ha
creato una situazione assai complicata
[...]
- Solo un'azione comune delle
Potenze potrebbe domare l'insurrezione: gli ultimi dispacci fanno
credere alla possibilità di un accordo: ma, mentre
l'Inghilterra si mantiene assai riservata, è evidente la
gelosia reciproca cui si ispirano gli imperi russo e il
giapponese, fatti già rivali dalla questione della Corea
[...]
-
- Alla fine di maggio i Boxer
incendiarono la stazione ferroviaria e distrussero la strada
ferrata nelle vicinanze di Pechino, mettendo in grave pericolo
l'incolumità dei residenti occidentali. Il corpo
diplomatico internazionale decise finalmente di richiedere l'invio
di guarnigioni di soldati dei rispettivi Paesi.
- La via più breve per
arrivare a Pechino era uno sbarco nel Golfo del Bohai (all'epoca
chiamato golfo del Zhili alla foce del fiume Hai), e da qui per
ferrovia, passando per Tianjin - 58 km. dal mare e raggiungibile
con navi di minor stazza - arrivare alla capitale che ne dista
128. C'erano allora in Cina due navi italiane, l'"Elba" e la
"Calabria": la prima si trovava a Zhifu, nello Shandong, quando
ricevette le prime notizie dei disordini scoppiati a Pechino. Ma
in seguito all'aggravarsi della situazione, il Ministro d'Italia a
Pechino, Salvago Raggi, scrisse il 28 maggio un telegramma urgente
al comandante Casella dell'"Elba" con la richiesta di salpare
urgentemente per la rada di Dagu (alla foce del fiume Hai),
secondo le decisioni prese dal Corpo Diplomatico costituito dai
rappresentanti di undici potenze (Spagna, Germania, Francia,
Inghilterra, Italia, Belgio, Austria, Stati Uniti, Giappone,
Olanda, Russia). Nel pomeriggio del 30 maggio, l'"Elba" era a Dagu
e fu deciso di mandare a terra un distaccamento di trentanove
uomini comandato dal tenente di vascello Federico Paolini e dal
sottotenente di vascello Angelo Olivieri. Nel frattempo erano
già giunte, o stavano per giungere, le navi d'altre
nazioni. Fu così che il mattino del 31 i distaccamenti si
misero in navigazione verso Tianjin e da qui ripartirono, in
treno, per Pechino dove giunsero il giorno seguente. La "forza"
era così costituita: 79 uomini per l'Inghilterra, 55 Stati
Uniti, 23 Giappone, 30 Austria, 75 Francia, 50 Germania, 75
Russia, 40 Italia, per un totale di 428 fra ufficiali e soldati. I
distaccamenti s'insediarono nelle rispettive legazioni fino alla
decisione, presa il 6 giugno, di creare la difesa di un
quadrilatero racchiudente tutte le residenze straniere; il comando
fu assunto dal comandante più anziano, l'austriaco Thoman.
I numerosi volontari civili rimasero alla difesa della legazione
inglese, dove si trovavano le donne e i
bambini11.
- Il 5 giugno, su richiesta di
Monsignor Alfonso Favier, capo delle Missioni Cattoliche e Vicario
apostolico a Pechino, venne inviato un drappello di undici uomini
al comando del sottotenente di vascello Olivieri in difesa di Bei
Tang, la "Cattedrale del Nord" situata nel cuore della
città tartara. Nel recinto della chiesa si trovavano
più di 3000 rifugiati, molti dei quali bambini e donne, e
la difesa di questo luogo costò la vita a sei marinai
italiani e a 300 tra gli assediati12. Secondo
Valli13: "L'assedio del Pe-tang [Bei Tang],
durato due mesi circa, è forse il più drammatico
episodio tra tutti gli avvenimenti che si svolsero in Cina nel
1900".
- Il 7 giugno la situazione si
aggravò: furono attaccate le missioni cristiane della
regione, e i missionari che riuscirono a scappare si rifugiarono
nelle legazioni della capitale. Altri rinforzi furono allora
chiesti dai singoli Ministri e fu fatto sbarcare al largo di Dagu
un nuovo corpo di spedizione composto da 400 uomini, fra cui
quaranta italiani al comando del tenente di vascello Sirianni,
scesi dalla "Calabria". Un altro distaccamento italiano, composto
da venti uomini delle navi "Elba" e "Calabria" agli ordini del
sottotenente di vascello Carlotto, fu fatto sbarcare il giorno
successivo ed inviato a Tianjin per la difesa delle concessioni
straniere. Carlotto perse la vita in combattimento il 15 giugno e
alla sua memoria vennero poi dedicate una via centrale e la
caserma della concessione italiana di Tianjin.
- Il comando della seconda
spedizione a Pechino, di cui faceva parte il distaccamento
italiano al comando di Sirianni, venne assunto dall'ammiraglio
inglese Seymour. Questa guarnigione giunse a Tianjin l'8 giugno
rinforzata da altri reparti per un totale di 1782 uomini. Si
cercò di raggiungere Pechino in treno, ma dopo cinque
giorni di arduo viaggio e di continui combattimenti, e a causa
dell'interruzione della linea ferroviaria, il contingente
internazionale dovette rientrare a Tianjin, abbandonando i treni.
Il 26 giugno la spedizione fece ritorno a Tianjin dopo un'epica
marcia a piedi nel fango, respingendo continui attacchi dei Boxer
e dopo aver perso nei combattimenti 62 uomini, di cui cinque
marinai italiani. A seguito di titoli allarmistici come "Il
sinistro silenzio circa Seymour" e "Le forze alleate entrarono a
Tien-Tsin - Seymour sarebbe prigioniero?"14, il
Corriere della Sera del 1-2 luglio pubblica il rapporto
ufficiale dello stesso Seymour telegrafato da Londra e diramato
dall'Ammiragliato inglese:
-
- Sono ritornato con le mie
forze a Tien-Tsin, non potendo arrivare a Pechino per via
terrestre. Il 13 giugno ebbi due attacchi dall'avanguardia dei
Boxers, che furono respinti con perdite considerevoli dei
Boxers e nessuna perdita nostra. Il 14 giugno i Boxers
attaccarono un treno a Lang-Fang [l'attuale Anci]:
erano numerosi e accaniti, ma furono respinti. Essi ebbero 100
morti; noi ebbimo 5 italiani uccisi [...] La
distruzione della ferrovia davanti a noi avendo reso il
proseguimento del viaggio impossibile, decisi il 16 giugno di
ritornare a Yang-Tsun [l'attuale Wuqing], per tentare
di là di recarmi a Pechino per la via fluviale. Dopo la
mia partenza da Lang-Fang due treni lasciati indietro furono
attaccati il 18 giugno dai Boxers e dalle truppe imperiali di
Pechino [...] I due treni mi raggiunsero poi a
Yang-Tsun la sera medesima, ma essendo imbarazzato dai feriti,
cambiai parere e decisi di ritornare a
Tien-Tsin.
- Il 19 giugno per ritornare
indietro incontrai opposizione accanita in quasi tutti i
villaggi [...] Il 23 giugno dopo una marcia notturna
arrivammo presso l'arsenale imperiale prima di
Tien-Tsin15, ove il nemico dopo avermi fatto
proposte amichevoli aprì proditoriamente il fuoco sopra
di noi [...] Abbiamo alla fine occupato l'arsenale e
dovemmo respingere nei giorni seguenti ogni attacco che il
nemico faceva per riprenderlo. Trovai nell'arsenale
quantità immense di fucili, armi, munizioni. Parecchi
cannoni cinesi furono adoperati per la nostra difesa e
cominciammo a bombardare i forti cinesi più in basso.
Avendo trovato munizioni e riso, avrei potuto mantenermi ancora
alcuni giorni, ma imbarazzato da numerosi feriti domandai a
Tien-Tsin soccorsi, che arrivarono il 25 mattina. Allora
evacuammo l'arsenale incendiandolo e il 26 rientrammo a
Tien-Tsin [...]
-
- Nel frattempo altre truppe
arrivarono a Dagu e furono intraprese operazioni per assicurare le
vie di comunicazione fra il mare e la capitale: il 17 giugno
furono espugnati i forti alla foce del Hai He, alla cui conquista
partecipò un distaccamento di ventiquattro marinai italiani
al comando del tenente di vascello Tanca. Sulla prima pagina del
Corriere della Sera del 22-23 agosto, è riportata la
testimonianza di un partecipante alla spedizione, dal titolo
"L'azione degli Italiani in Cina: un veronese pianta la bandiera
sul forte di Ta-ku [Dagu]":
-
- L'"Arena" di Verona reca
una lettera che il sott'ufficiale Cesco di Castelletto di
Brenzone sul Garda (Verona) ha diretto da Tien-Tsin, 2 luglio,
alla propria madre. Ne stralciamo i punti più
notevoli:
- "Il 16 giugno, alle 17,
sbarcai dalla "Calabria" con dodici marinai. Dopo un quarto
d'ora da che ero entrato nel canale del Ta-ku [Dagu],
la Cina ordinava di far fuoco su qualunque imbarcazione che
fosse entrata in quel porto. Allora andai col mio plotone a
bordo della cannoniera inglese "Algerine".
- "Alle 14.30 del 17 si ebbe
l'ordine di ricominciare il bombardamento dei cinque forti
formidabili di Ta-ku [Dagu].
- "Una cannonata cinese alle
11.45 rompe sull' "Algerine" due manicavento. Io sbarco dalla
cannoniera insieme agli Inglesi.
- "Intanto due cannoniere
russe, una francese, una giapponese, aprono il fuoco anch'esse.
Appena sbarcati andiamo a riparo dietro una collina, ove
troviamo marinai giapponesi, russi, austriaci; tutto compreso,
noi si contava 600 uomini.
- "Dopo tre ore circa di
combattimento, ci venne l'ordine di aprire il fuoco per
pigliare il primo forte (il più agguerrito), e
finalmente dopo otto ore di fuoco si riesce a pigliarlo
[...]
- "Io stesso alzo la bandiera
tricolore sul primo forte di Ta-ku
[Dagu].
- "Il giorno 18 sbarcano
dall' "Elba" altri dodici marinai e un tenente di vascello
della "Calabria" e si uniscono a noi. Alle 6 del 19 si parte,
lasciando nei forti dei soldati per la difesa. Noi lasciammo
due marinai per la guardia alla bandiera."
-
- Intanto le notizie provenienti
da Tianjin indicavano che la situazione degli stranieri residenti
nelle concessioni era sempre più critica. Si decise cosi
d'inviare una colonna militare:
-
- "Si forma una treno
militare. In tutto potevamo essere 1000 soldati e 3000 venivano
a piedi.
- "Si va avanti nella
direzione di Tien-Tsin, distante circa 80 chilometri, per
liberare gli europei che stavano nella
città.
- "Dopo mezz'ora di cammino,
devia il primo vagone, causa la rottura delle rotaie fatta dai
nostri nemici; si smonta tutti e si continua la marcia a piedi.
Dopo circa sei ore di cammino, ci accampammo.
- "Il giorno seguente si
ripiglia la marcia, e noi italiani, compreso un plotone
americano ed uno inglese, si forma l'avanguardia.
[...]
- "Si marciava sotto il
comando di un generale russo; infine ci troviamo davanti 45
mila soldati cinesi. Dopo due ore di combattimento il nemico si
dà alla fuga [...]
- "Si insegue il nemico per
circa 10 ore sempre di corsa. I Cinesi si rifugiano sotto i
forti di Tien-Tsin. Noi si va sempre avanti e alla 5 della sera
entriamo in Tien-Tsin vittoriosi16.
-
- Appena giunto a Tianjin, fu
chiesto al tenente di vascello Tanca di portare aiuto a Seymour
assediato nell'arsenale imperiale alle porte della città:
rotto l'assedio e liberate le truppe, il 26 il distaccamento era
di nuovo a Tianjin:
-
- "Il 26 si parte alle 11.30
della notte per andare a liberare un arsenale cinese, nel quale ci
stavano chiuse circa 1500 truppe europee, fra le quali 60 marinai
della "Calabria" senza viveri e senza acqua e circondati da tutte
le parti da un nemico cento volte maggiore.
- "Il nemico sempre si ritirava
e noi si arrivò a 300 metri dall'arsenale.
- "Mentre si gridava
"urrà" perché ci credevamo sicuri della liberazione,
i cinesi ci piombarono addosso, ma dopo circa tre ore di
combattimento furono costretti alla fuga. La notte ci si accampa e
la mattina incendiamo l'arsenale e ci si ritira nella città
di Tien-Tsin e precisamente nel quartiere europeo, perché
il quartiere cinese appena noi siamo entrati l'abbiamo incendiato
e ora sono sei giorni che brucia e ce ne sarà ancora per
tutto il mese di luglio da bruciare.
- "Nell'ultimo combattimento,
noi della "Calabria" abbiamo avuto 5 morti, uno ferito gravemente
e un ufficiale dell' "Elba" morto.
- "Ora siamo qui in attesa
dell'arrivo di nuove truppe europee di terra, le quali marceranno
su Pechino, lasciando noi marinai alla difesa di
Tien-Tsin"17.
-
- Altisonanti le note
sull'eroismo dei marinai italiani riportate dai nostri giornali, e
in particolare dal Corriere della Sera, che sul numero del
19-20 agosto pubblica il seguente trafiletto:
-
- L'ammiraglio inglese Seymour
(il capo delle truppe alleate ch'era mosso verso Pechino) scrive
al comandante elogiando tutte le truppe ed in particolare le
nostre italiane. Dice che esse mettono la nota allegra in queste
circostanze e che al fuoco non vengono meno al tradizionale valor
del soldato italiano; che nell'assalto all'arsenale di Tien-Tsin
dopo che i cosacchi russi furono respinti, andarono gli inglesi
con alla testa il drappello degli italiani, i quali furono i primi
ad entrarvi. Un fuochista italiano seguito da un cadetto
austriaco, dopo aversi fatto largo attorno alla bandiera cinese
che sventolava sull'Accademia navale di Tien-Tsin, fu ferito
mentre stava ammainandola e riuscì nonostante il suo stato
ad alzare la nostra.
-
- Il 14 luglio la città
di Tianjin fu definitivamente conquistata e il 26 un proclama
annunciava alla popolazione la costituzione di un governo
provvisorio.
-
- L'espugnazione dei forti di
Dagu offrì l'occasione alla Corte per prendere
ufficialmente posizione contro gli stranieri. Lo Zongli yamen
(Ufficio per l'amministrazione degli affari esteri)
18 dichiarò che tutti gli stranieri dovevano
lasciare la capitale entro ventiquattro ore: il ministro della
Germania, Von Ketteler, decise di recarsi a protestare, ma venne
trucidato lungo la via. Il 20 giugno, alle quattro del pomeriggio,
spirato il termine delle ventiquattro ore, fu aperto il fuoco
sulle legazioni. Il giorno seguente la stessa imperatrice Ci Xi,
che aveva fino allora mantenuto un atteggiamento ambiguo nei
confronti dei Boxer, dichiarò guerra alle
potenze19: iniziarono così i 55 giorni di
assedio. Le legazioni, che erano rimaste aperte a chiunque volesse
prendervi rifugio (occidentali residenti nella capitale e
cristiani cinesi), furono organizzate per resistere all'assedio
nell'attesa dei rinforzi. Nel recinto della legazione inglese - la
più vasta e meglio protetta - vennero riuniti uomini e
donne di undici nazioni diverse, 414 persone che affrontarono i
frequenti assalti dei Boxer fino all'arrivo, il 14 agosto, del
corpo di spedizione composto da tre colonne di forze alleate, di
cui non faceva parte, però, il contingente italiano che
entrò nella capitale tre giorni più tardi al comando
del tenente Sirianni. Dieci giorni dopo arrivò Manusardi
che assunse il comando del battaglione marinai costituitosi a
Pechino.
- Come mai l'Italia, che aveva
dichiarato ripetutamente sin dall'inizio la propria volontà
di associarsi all'azione delle altre Potenze, non era presente
alla liberazione delle legazioni nella capitale? Bisogna
innanzitutto precisare che i preparativi erano stati accompagnati
da forti polemiche fra i capi militari dei vari contingenti,
soprattutto fra russi e giapponesi20. I primi
proponevano, dopo l'attacco a Beicang, di ritirarsi di nuovo a
Tianjin, mentre i secondi propendevano per un attacco immediato
alla capitale. La proposta giapponese fu appoggiata dai comandanti
inglese e americano. Come nota Valli21: "Non è
difficile scorgere che, anche qui, non si trattava di questioni
tattiche. I giapponesi erano in numero di gran lunga superiore ai
russi e le operazioni principali sarebbero state quindi compiute
da loro, e sarebbero giunti primi alla presa di Pechino.
Ciò era mal tollerato dai russi, che avrebbero voluto
ritardare la marcia fino al giungere degli attesi
rinforzi".
- Le truppe furono ripartite in
due colonne: alla destra del Hai He avrebbero marciato Giapponesi,
Inglesi, Americani, alla sinistra Russi, Francesi, Tedeschi e
Italiani. Il 5 agosto fu occupata Beicang, ma la colonna di
sinistra incontrò notevoli difficoltà a causa di
violente inondazioni e i distaccamenti, tranne il russo,
ripiegarono su Tianjin, da dove ripartirono qualche giorno dopo -
e quindi in ritardo - per Pechino. Il 6 agosto cadde Yangcun e fu
deciso di marciare su Pechino. Prima di sferrare l'assalto i
diversi distaccamenti (in altre parole quelli che avevano avanzato
alla destra del Hai He e i russi che li avevano raggiunti) si
riunirono a Tong Xian - a pochi chilometri a est di Pechino -,
dove il 13 agosto fu deciso il piano d'attacco per il giorno
successivo:
-
- Finalmente dispacci dei
generali Gaselee e Linevitch recano i particolari della presa
di Pechino.
- Gli Inglesi attaccarono la
porta sud-est sfondandola senza trovarvi resistenza,
perché l'attacco era inatteso. Entrarono quindi la
fanteria, la cavalleria e l'artiglieria. Il generale Gaselee
mandò la cavalleria e parte dell'artiglieria al Tempio
del Cielo, e lui stesso col resto delle truppe si portò
verso le Legazioni, arrivando alle tre e mezza nel canale di
fronte al recinto che le chiude. Dall'alto del muro i ministri
facevano segnali. Gaselee con una parte dello stato maggiore e
con settanta soldati traversò il canale quasi asciutto e
penetrò nel recinto senza subire
perdite22.
-
- Una brillante, espressiva
descrizione dell'assedio alla legazione italiana è fornita
dal giornalista-scrittore Luigi Barzini, il quale, come
collaboratore del Corriere della Sera dal 1899, inaugurò le
corrispondenze dall'estero23. Il 12 luglio 1900
s'imbarcò a Genova sulla "Prinz Heinrich" sulla quale
giunse fino a Hong Kong: per un caso fortuito (era in attesa di
una qualsiasi nave da guerra disposta ad imbarcarlo) giunse al
porto della colonia inglese la nave italiana "Vettor Pisani" in
rotta per Dagu. Barzini quindi si unì alla flotta fino a
Dagu, e da qui, al seguito della compagnia di sbarco,
proseguì per Tianjin e poi a Pechino:
-
- "Le prime fucilate cinesi
furono dirette contro la Legazione italiana e contro quella
austriaca. Non si aspettava l'attacco. Ma l'attacco non
sorprese. Si sapeva che le truppe del generale Tung-fu-ciau
[Dong Fuxiang] si sarebbero alleate ai "boxers" presto
o tardi [...] Poco dopo che la fucileria era
cominciata, la Legazione austriaca veniva abbandonata dalla
difesa [...] Dalla Legazione italiana si sentiva quasi
continuo il crepitio della loro mitragliatrice.
- Questa ritirata fu un
errore. La Legazione belga era stata abbandonata da vari
giorni, perché troppo isolata e lontana dalle altre.
Così la difesa delle Legazioni si operava sopra un
grande quadrato avente agli angoli le Legazioni d'Austria,
d'Italia, d'America e d'Inghilterra. La ritirata degli
austriaci portava la disorganizzazione in tutta la difesa: la
Legazione italiana, troppo esposta, si veniva a trovare in una
posizione insostenibile.
- Verso le quattro, mentre il
nostro ministro marchese Salvago Raggi, di ritorno dalla
Legazione d'Inghilterra, dove aveva disposto per l'alloggio
della sua signora, si preparava ad accompagnarla, la fucileria
contro la Legazione d'Italia era continua [...] I
marinai, vigilanti sulle piattaforme di legno lungo il muro di
cinta e quelli appostati dietro alle barricate, non riuscivano
a scorgere un cinese.
- All'alba del ventidue,
verso le quattro del mattino, la via delle Legazioni si
riempì ancora di cinesi. Ma questa volta pareva che non
fosse il saccheggio che li conducesse. Gridavano il loro
"scià" ["sha"= uccidi] di guerra e si
apprestavano alla barricata italiana con passo da contraddanza.
Ogni tanto qualche proiettile veniva a schiacciarsi contro la
barricata. evidentemente era un assalto
[...]
- Il nostro cannone
entrò in azione. Cinque colpi bastarono. La via fu
sgombrata. Ma nel frattempo i "boxers" si erano appressati dal
lato nord occupando tutte le casupole abbandonate, attigue alla
nostra Legazione. poco dopo quelle case ardevano, le fiamme
minacciose si levavano a ridosso dell'abitazione del ministro e
minacciava i fianchi dei due padiglioni abitati dai segretari
[...]
- Non era più
possibile nemmeno di prepararsi il cibo da mangiare.
Bisognò domandarne alla Legazione inglese, che mandava
del riso, dei biscotti e del the. Il nostro ministro e il
segretario della Legazione, marchese Caetani, non abbandonavano
nemmeno un istante la barricata e dividevano con i marinai il
magro pasto.
- Intanto il comando della
difesa, ad est della Legazione inglese, era stato preso dal
comandante austriaco Thoman capitano di fregata.
Improvvisamente il comandante Thoman ordinò la ritirata
generale, senza una ben chiara ragione. Questo movimento
significò la perdita della nostra Legazione... A salvare
la situazione contribuì non poco il marchese Salvago
Raggi, e questa pagina della cronistoria ha per noi un
interesse speciale"24.
-
- La legazione italiana, dopo
che il 22 mattina venne incendiata dai Boxer, fu abbandonata dal
piccolo contingente che si trasferì nella residenza
(Fu) di un mandarino cinese - fuggito alle prime
rappresaglie - situata di fronte alla legazione inglese. Qui i
marinai, insieme con un drappello di Giapponesi, si misero a
protezione delle legazioni inglese, giapponese e
spagnola:
-
- "Il Fu era la chiave della
Legazione inglese, ossia di tutta la difesa. Un solo cannone dal
Fu avrebbe ridotto la Legazione d'Inghilterra a un mucchio di
rovine. I nostri marinai avevano il posto d'onore
[...]
- La difesa del Fu, operata dai
marinai italiani, è, senza dubbio, una delle più
belle pagine dell'assedio. L'abnegazione, il coraggio, la pazienza
dei nostri uomini, che non avendo più una Legazione da
difendere le hanno difese tutte, cominciano a diventare argomento
di leggenda [...] Fra gli attacchi, le tregue e le
spedizioni, la difesa del Fu è continuata fino all'ultimo
giorno, cedendo il terreno palmo a palmo, lavorando sempre. Il
comandante Paolini dava l'esempio dell'abnegazione. Quando egli
era nell'ospedale inglese per la sua ferita, il duca don Livio
Caetani prese il comando del Fu, dove lavorava alle trincee e alle
barricate in mezzo ai marinai,
instancabile"25.
-
- Con la presa e l'occupazione
di Pechino da parte delle forze alleate, l'Imperatrice e la Corte
si rifugiarono nel palazzo d'Estate e da qui si trasferirono a
Xi'an, mentre gli edifici pubblici, i templi e i più
sontuosi palazzi della capitale divennero gli alloggi delle
truppe. Fu però stabilito che la Città Proibita non
sarebbe stata occupata: l'umiliazione all'impero fu inflitta dal
passaggio delle truppe che attraversarono da sud a nord i cortili
e palazzi vietati da secoli a tutte le persone
"comuni":
-
- "Il mattino del 28 agosto
1900, ebbe luogo la solenne cerimonia. Nello spazio, che
precede la porta Sud della Città imperiale, si
riunì il Corpo Diplomatico, i Capi di contingenti con i
loro Stati maggiori, le rappresentanze di tutte le truppe, con
rispettive bandiere: 800 russi, 800 giapponesi, 400 inglesi,
400 americani, 300 francesi, 250 germanici, 100 italiani, 60
austriaci. Fra gli Ufficiali italiani, i nuovi venuti, del
Fieramosca, ed il Tenente di vascello Sirianni. Il Tenente di
vascello Paolini, il Sotto-Tenente di vascello Olivieri, con i
distaccamenti, che avevano preso parte alla difesa della
Legazione e del Pe-tang [Bei Tang] , erano alla testa
della compagnia"26.
-
- Non tutti gli storici sono
però d'accordo con questa versione "pacifista"
dell'ingresso delle truppe straniere a Pechino:
-
- "Ha allora inizio una
carneficina e un saccheggio sistematici che superano di gran
lunga tutti gli eccessi commessi dai Boxers. A Pechino migliaia
di uomini vengono massacrati in un'orgia selvaggia; le donne e
intere famiglie si suicidano per non sopravvivere al disonore;
tutta la città è messa a sacco; il palazzo
imperiale, occupato dalle truppe straniere, viene spogliato
della maggior parte dei suoi
tesori"27.
-
- L'Italia, secondo il Ministro
Salvago Raggi, fu quasi estranea a tali vilipendi e massacri, e
nella lettera di Candiani al Ministero della Marina del 25
febbraio 1901 è scritto: "È del pari opportuno
ripetere che le nostre truppe non presero mai parte a saccheggi,
incendi e massacri, se non altro perché giunte in
ritardo"28.
-
- Sin dall'inizio del giugno gli
avvenimenti in Cina destarono l'attenzione dell'opinione pubblica
italiana e non mancò giorno che sui principali quotidiani
non apparissero notizie al riguardo: si trattava principalmente di
comunicazioni telegrafiche da Londra e altre capitali europee,
alle volte da Shanghai, mentre furono completamente interrotte le
comunicazioni con Pechino e Tianjin a causa di guasti alle
apparecchiature. Per molti giorni mancarono notizie sulla
legazione italiana, e ciò fece presagire il peggio per
l'incolumità dei connazionali. L'on. Crispi in un articolo
sulla Tribuna, riportato sul Corriere della Sera del
22-23 giugno, esordisce con queste parole: "Gli avvenimenti
cinesi, dei quali abbiamo notizie così incompiute e
frammentarie, sono il prologo d'un gran dramma, che rappresenta un
pericolo gravissimo per la pace d'Europa". E
aggiunge:
-
- Non si tratta più di
un'avventura coloniale, cui si possa discutere se convenga
agl'interessi dello Stato o disconvenga: si tratta di un
sanguinoso festino, alla fine del quale largo e ricco
sarà il bottino da dividere fra coloro che vi avranno
diritto. E l'Italia, appartandosi come fa, sarà esclusa.
Piangeremo poi la nostra imperizia, la nostra imprevidenza: ma
le lagrime dei deboli non indurranno i forti, dopo la vittoria,
a privarsi di una sola foglia dell'alloro
meritato.
-
- La questione di un intervento
più massiccio fu sollevata anche nel corso della seduta del
Senato del 23 giugno, in seguito ad una interpellanza del sen.
Vitelleschi, in cui venne ribadita la necessità della
tutela della Legazione italiana e dei connazionali non solo nel
momento attuale, ma per l'avvenire29.
- Finalmente con una circolare -
riservatissima - del 5 luglio 1900 il Ministero della Guerra dava
disposizioni d'inviare, in rinforzo dell' "Elba" e della
"Calabria" già sul posto, della "Fieramosca" partita il 10
giugno e della "Vittor Pisani" salpata il 3 luglio, le navi della
Marina Militare "Stromboli" e "Vesuvio", che dovevano costituire
la Forza Oceanica dell'Estremo Oriente al comando dell'ammiraglio
Candiani imbarcatosi sulla "Fieramosca". Il 19 luglio, a bordo dei
piroscafi noleggiati "Minghetti", "Giava" e "Singapore" della
Navigazione Generale Italiana, il corpo di spedizione partì
da Napoli per il secondo intervento in Cina. Il 12 agosto il
convoglio giunse a Singapore e da là, sotto la scorta della
"Stromboli", procedette per la rada di Dagu, dove giunse all'alba
del 29 agosto. Il contingente italiano, al comando del colonnello
Garioni, era costituito principalmente da un battaglione di
fanteria agli ordini dal tenente colonnello Salsa; un battaglione
di bersaglieri comandato dal maggiore Agliardi; una batteria di
mitragliatrici; un distaccamento del genio e un drappello di
sussistenze. In tutto 83 ufficiali e 1882 uomini di truppa che
s'aggregarono al corpo di spedizione alleato dalla fine del 1900 a
tutto il 1901. Con lo sbarco di queste truppe l'effettivo italiano
fu portato a 2445 uomini.
-
- Il 22 dicembre 1900 il Corpo
Diplomatico di Pechino presentò ai plenipotenziari cinesi
una nota collettiva e definitiva, contenente 12 articoli, che,
incondizionatamente accettata dalla Cina, doveva ristabilire la
pace con le potenze straniere, ma le trattative, per arrivare alla
firma del protocollo, si protrassero sino al 7 settembre 1901. La
Cina fu costretta ad accettare durissime condizioni: pagamento dei
danni di guerra ammontanti a 450 milioni di taels rateizzati in 40
anni, divieto di importare armi, smantellamento del forte Dagu,
presentazione di scuse diplomatiche, emanazione di un editto che
vietasse in tutto il paese le manifestazioni xenofobe. Anche
l'Italia, sebbene in misura ridotta rispetto alle altre nazioni,
ebbe la sua parte di "bottino di guerra", al quale rinunciò
con il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio
194730. I "privilegi" italiani in Cina consistevano
in:
- - il riconoscimento della
Legazione italiana nel quartiere delle Legazioni di Pechino con un
contingente di truppe a presidio;
- - la Concessione di Tianjin,
che occupava un'area di circa mezzo chilometro quadrato, e che
costituiva la principale acquisizione in Cina;
- - l'autorizzazione a servirsi
dei quartieri internazionali di Shanghai e Amoy (Xiamen, nel
Fujian);
- - un indennizzo per danni di
guerra di 26.617.000 di taels (equivalenti a 100 milioni di lire
del 1901)31.
-
- La partecipazione italiana
alla forza multinazionale non ebbe solo importanza militare, ma
offrì anche i presupposti per i futuri sviluppi economici,
benché il nostro Governo non attuasse una solida politica
di sostegno nei confronti delle imprese interessate a commerciare
con la Cina. Le "conquiste coloniali" sono state - con alterne
fortune - rivolte principalmente verso l'Africa, trascurando quasi
del tutto l'Estremo Oriente, e ciò a differenza di altre
nazioni che già da tempo avevano creato e ampliato le loro
zone di influenza. È pur vero che le condizioni interne
dell'Italia predisponevano a proporzionare l'intervento secondo le
forze economiche, ma gli interessi conseguiti in Cina -
soprattutto l'acquisizione della Concessione di Tianjin -
avrebbero potuto porre le basi per più proficui sviluppi
commerciali. Certo la presenza di una sessantina di aziende
italiane a Tianjin e nei quartieri internazionali di Shanghai
poteva far credere che le relazioni fossero ben consolidate, ma
l'assenza di grandi complessi industriali, come la Fiat e la
Marelli, attenuava l'importanza della nostra partecipazione. Sin
dal 1901 il Credito Italiano e la Società Bancaria Milanese
istituirono la "Società italiana per il commercio con le
Colonie"32, ma la mancanza di sportelli bancari in Cina
non fu avvertita dal Governo. Fu soprattutto su iniziativa
personale che si cercò di promuovere la presenza italiana:
nel 1913 il Conte Sforza (addetto commerciale presso la Legazione
di Pechino) segnalò la necessità dell'apertura di
una banca italiana, ma solo nel 1918 l'allora primo Ministro Nitti
sollecitò i quattro maggiori gruppi bancari (Banca
Commerciale Italiana, Credito Italiano, Banco di Roma e Banca
Nazionale di Sconto) a prendere atto di questa necessità; e
nel 1920 fu istituita a Tianjin la "Banca Italo-cinese" con
filiali a Pechino e Shanghai33. Quest'ultimo fatto
testimonia la cronica lentezza degli "arrivi" italiani in Cina,
come del resto si è potuto constatare quando, nei decenni
successivi, una stabile e qualificata presenza industriale e
commerciale del nostro paese si è proposta sul mercato
cinese.