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               poetica
               
               
               
               
               
                   Antonia Barba, Su cenere azzurra, editrice
                  Montedit, 1998, pp.48, Lit. 7.500, ISBN
                  88-86957-36-X 
                  
                  Prefazione Un giovane cuore, quello di Antonia Barba,
                  già nota al mondo della poesia per altre
                  sillogi, che si racconta in versi creati, modulati
                  e ritmati in modo da seguirne i battiti. Affetti,
                  sentimenti, emozioni e contrastanti, se non
                  contraddittorie, passioni si vivificano e
                  s'inverano nel linguaggio della poesia, unico
                  tragitto che l'anima conosce per esprimersi,
                  guardarsi intorno, fermare un attimo, evocare un
                  ricordo, isolarsi a riflettere, valutare,
                  giudicare, amare e trovare il coraggio di opporsi,
                  persino di odiare.In perfetta consonanza con la ricchezza dei
                  temi e il vario alternarsi dei sentimenti è
                  il titolo scelto per la raccolta, "Cenere azzurra",
                  che riesce a comporre in unità significativa
                  e stigmatizzata in immagine la duplice valenza del
                  messaggio poetico. "Cenere" è una vita che,
                  seppur giovane, appare polverizzata e ridotta in
                  particelle all'apparenza inerti; è
                  ciò che rimane della sfavillante fiamma
                  prodotta dai carboni ardenti dell'amore
                  polisemicamente inteso come un tendere verso
                  l'altro, verso l'ambiente, la natura, la
                  società, ossia l'amore in tutte le sue
                  diverse connotazioni e sfumature, rivolto a
                  qualsivoglia oggetto. Un amore che è
                  consumato dall'"indifferenza" ("Mitologia umana",
                  "Didone", "Ali che nascono"), dalla
                  difficoltà della comunicazione ("Ali che
                  nascono", "Senza parlare dell'amore"),
                  dall'impossibilità che si realizzi quella
                  "celeste corrispondenza d'amorosi sensi" che
                  "celeste dote è negli umani" (Foscolo).
                  "Azzurra" è la capacità squisitamente
                  umana di dar vita, malgrado tutto, alle illusioni;
                  vincere e superare il tempo con i miti
                  dell'amicizia, dell'amore, della poesia; essere
                  paghi della felicità che regala l'attimo,
                  senza pensare al futuro o al passato.Sono liriche spesso di non facile
                  ermeneutica per chi si lascia avvincere
                  dall'eleganza della parola, dalla musicalità
                  del verso o dal fascino distraente dello scenario
                  naturale che vi fa costantemente da sfondo, dalla
                  ricchezza e problematicità dei motivi. Versi
                  in cui la non scolastica formazione culturale,
                  pregna di letture attente dei classici greci e
                  latini, d'un contatto frequente con la poesia e la
                  produzione artistica tra Settecento e Novecento,
                  riesce a rivivere in maniera affatto personale e
                  plastica.Antonia Barba dà prova di saper
                  uscire persino dagli schemi imposti dalla scelta
                  d'un unico linguaggio che dia voce al sentimento.
                  L'universalità dei temi cantati richiede che
                  si accetti la possibilità che, non solo
                  l'italiano, ma qualunque altra lingua sia in grado
                  di rendere e di esprimere con pari efficacia
                  ciò che il cuore sente. Di qui la
                  volontà d'un internazionalismo compositivo e
                  la presenza delle due poesie in francese e in
                  inglese, messe a fronte della versione
                  italiana.Non mancano, inoltre, suggestioni
                  espressionistiche ed ermetiche, e l'uso d'un
                  linguaggio che si fa languido e dolce o aspro ed
                  incisivo, duro ed essenziale. Parole che sembrano
                  schegge pronte a ferire o quasi impalpabili aliti,
                  messaggeri delle dolcezze e dei più pacati
                  sentimenti; parole in cui si dispiegano il senso ed
                  il valore d'un'emozione, d'un affetto, d'una
                  passione, o si coagula, s'incapsula e si costringe
                  ciò che l'animo prova, ma che non riesce ad
                  esprimere per il perverso gioco del volere e non
                  potere. Allora, arduo diventa comprendere e
                  conoscere fino in fondo; si resta spettatori, ci si
                  compiace dell'immagine e dell'apparenza. Se,
                  tuttavia, si riesce a valicare il confine tra
                  l'apparire e l'essere, si coglie quel tormento
                  interiore che fatica a mostrarsi perché chi
                  scrive è avvezzo a dialogare solo con se
                  stesso, "a camminare di notte sui deserti esposti
                  ai venti", alla ricerca d'un punto fermo, che forse
                  non esiste e che di volta in volta s'identifica con
                  false ed effimere presenze: scogli infiniti contro
                  cui l'anima s'infrange.Il dialogo con l'altro, l'incontro, vivere
                  all'unisono identiche passioni ("Radici divelte"),
                  poter sfogliare assieme lo stesso libro ("Un libro
                  aperto"), viaggiare con la mente e col sentimento
                  sulla stessa lunghezza d'onda, ottenere per
                  sé ciò che si dà o che si
                  è dato ("Didone"), paiono sogni, negati
                  anche come tali, in quanto li accompagna la
                  coscienza della loro evanescenza esistenziale,
                  della loro impossibilità a vivere e a
                  realizzarsi: "i sogni non possono parlare, / sono
                  troppo fragili". Sebbene i sogni siano proiezioni
                  fantasmatiche, tuttavia sono pur sempre creazioni
                  dell'io, un io che riesce ad esprimersi appieno
                  solo quando si sottrae al rigido controllo della
                  sua facoltà raziocinante. Fuori del tempo e
                  dello spazio del vivere quotidiano, il sogno ha una
                  sua realtà, è un angolo vitale che
                  ciascuno si ritaglia e riesce a vivere sino in
                  fondo, senza limitazioni, senza remore, senza
                  paure: un angolo ove ritrovarsi e recuperare la
                  propria autenticità e verità
                  ("Brividi di tempo"). Ma il sogno si dilegua e...
                  al risveglio la ragion critica riprende il
                  sopravvento e immediatamente lo riconduce alla sua
                  dimensione di fantasma, ne fissa il limite ed il
                  valore. I desideri, le richieste, le aspettative,
                  la stessa figura di chi si ama, il comportamento di
                  chi ama, vivono l'ambiguità e la
                  contraddizione del loro essere, della loro
                  identità, della loro significatività;
                  appartengono al mondo dei sogni, ma non lo sanno;
                  contrastano le lineari leggi della dislocazione
                  spaziale e della consequenzialità temporale,
                  bruciano nel contrasto tra volere e non volere,
                  appaiono e nel contempo scompaiono. Ma, a volte,
                  contro di essi nulla può la ragione ("Logos
                  alogos", "Una forza assoluta"), che anzi si perde e
                  dichiara, non senza un breve cenno di resistenza,
                  la propria impotenza: "non posso abbandonarmi ai
                  sussulti" ("Logos alogos"); "non posso credere / ai
                  discorsi che ordisci esperto. / Credo solo alla mia
                  follia / unica forza / abbarbicata / alla mia
                  volontà" ("Senza parlare dell'amore"). E
                  allora, mentre in "Brividi di tempo" si grida in
                  nome della ragione ("Ma perché non porti via
                  / queste braccia che stringono sogni?"), si cede al
                  sentimento, all'astratta follia del destino che
                  reclama, all'illusione ("Senza sognare c'è
                  la vecchiezza senza stelle, / non vi sono io"), si
                  naufraga nell'essere, ci si appaga dell'equivoco,
                  si consuma la contraddittorietà dell'amare,
                  che è dedizione sconfinata ("Didone"),
                  ardore ("Come una crisalide"), follia ("Senza
                  parlare dell'amore, Logos alogos"), sdegno, "odio
                  che ci ama più dell'amore / perché
                  scuote l'anima / e annullando la ragione / si
                  trasforma in amore" ("Come una crisalide"). E,
                  seppur di tanto in tanto la vita regala attimi o
                  occasioni per placare l'animo e appagarsi della
                  felicità del momento spingendo alla
                  speranza, come una "forza assoluta di
                  necessità" si ripresenta la consapevolezza
                  di "vivere nell'attesa di un'emozione che ...
                  dovrai abbandonare", perché siamo "Lapilli
                  di vento /... fragili / porosi / eterni / come
                  alberi bruciati dal mare. / Infiniti che si
                  sgretolano in presenza / di oggetti, /
                  invisibilità di tramonti. / Forme diafane /
                  divenute / disincanto / rabbia / ruvida
                  realtà. / Conchiglie di corpi / che perdono
                  se stessi". L'amicizia, l'affinità e la
                  comunicazione intellettuale, la consonanza,
                  l'amore, la fiducia nell'altro sono solo simulacri
                  che la giovinezza intravede e insegue, un "presagio
                  di primavera", forme incorporee che svaniscono nel
                  tempo e col tempo.La sottile tensione e l'avvolgente
                  malinconia, avvertibili nelle liriche, potrebbero
                  indurre a suggestioni poetiche di derivazione
                  leopardiana, ove la globale visione della vita che
                  le sottende, indirizza verso un'interpretazione
                  sostanzialmente positiva, anche quando "l'arido
                  vero" pare condurre al disincanto totale. Quasi
                  sempre, anche nelle liriche dagli accenti
                  più drammatici, fa da sfondo una
                  disposizione d'animo incline all'attesa e alla
                  speranza, un'apertura alla possibilità:
                  "basta una parola, uno sguardo,... un menomo bene
                  inaspettato.... a persuadere che la vita umana non
                  è un niente" (Leopardi, "Zibaldone" 1652, 8
                  Settembre 1821). Coerentemente con lo spirito
                  leopardiano, la poetessa non s'abbandona alla
                  disillusione totale, alla morte del cuore, alla
                  rinuncia ("Insieme", "Spiega ai pensieri", "Senza
                  parlare dell'amore"). Attraverso il canto poetico
                  sembra quasi voler esorcizzare il dolore, fuggire
                  al solipsismo, lanciare uno sguardo al di là
                  del sé, valicando il rischio del banale
                  protagonismo, del monologo interiore e
                  dell'ancorarsi a contenuti meramente
                  autobiografici. Anzi, proprio la paura del
                  convenzionalismo conduce all'apertura. Antonia
                  Barba riesce a raggiungere le inquietudini che
                  s'annidano nell'animo di tutti, ad entrare nelle
                  pieghe delle emozioni, a far emergere certi bisogni
                  di limpidezza e di chiarezza che ognuno racchiude
                  in sé. Di qui la reazione, l'ironia: "hai
                  dimenticato che esiste il coraggio? /... ma tu /
                  preferisci la dea Sopravvivenza / a tutte queste
                  umane passioni" ("Mitologia umana"); la denuncia:
                  "Uomo! / Tu spendi preghiere sacrileghe" ("Un
                  profeta ateo"); la condanna: "pensieri spenti nella
                  formalità. / Sono questo le tue parole"
                  ("Ali che nascono"). Situazioni e momenti di vita
                  vissuta si dilatano e il verso supera la sua genesi
                  individualistica, sino a comprendere
                  significativamente tutt'intera la realtà
                  umana e naturale. Emblematico esempio è "La
                  panchina dei gabbiani ciechi", quasi bozzetto di
                  sapore impressionistico, laddove tutto sembra
                  immerso nella quiete e nel silenzio: parole appena
                  sussurrate, ricordi che affiorano, serenità
                  e immobilità persino della natura e del
                  paesaggio ("verdi viali si rincorrono / ... / Le
                  strade tacciono al silenzio di controra"). Sembra
                  spento ogni guizzo di vitalità; tutto appare
                  e scorre in maniera necessaria. Si respira
                  l'accettazione rassegnata d'una sorta di
                  naturalità delle cose, che non può
                  essere alterata. È la trasfigurazione
                  poetica del mondo degli anziani, metaforicamente
                  "gabbiani ciechi" che hanno perso il diritto a
                  vivere e in cui si riconosce al più la
                  possibilità d'aver vissuto. Il tono è
                  pacato, lento, ampio. Ma ecco che un moto di
                  ribellione pervade l'animo e lo eleva alla
                  coscienza, alla demistificazione di un vivere
                  sociale che è solo apparenza e
                  volontà di repressione, realtà
                  contraddittoria e crudele che, uccidendo il
                  sentimento, si consuma nella divaricazione tra
                  passato e presente, tra oppressore e oppresso, tra
                  soggettività e oggettività, tra
                  sentimento e ragione. Ma bastano due sfavillanti
                  pupille, che brillano d'una remota speranza, per
                  avvertire l'esistenza d'una dimensione sommersa
                  dell'umano che dev'essere salvata e spinge il cuore
                  a gridare in nome dell'individualità,
                  irriducibile ed indomabile, che non può
                  cedere al compromesso né perdersi
                  "nell'inferno di falsità / nel vortice
                  lussuoso del Nulla, né tanto meno danzare in
                  eterno davanti a un fuoco di paglia". Non si
                  può "credere ad una maschera / che parla
                  enigmi / e potere". Bisogna avere il coraggio di
                  salvare se stessi e il proprio mondo interiore,
                  cioè l'autentico che ci rende persone.
                  Accenti duri, parole aspre per chi, in nome del
                  potere, dell'ambizione sfrenata, del narcisismo, si
                  vota alla falsità, destinandosi al vuoto.
                  Sono i temi ricorrenti in numerose liriche: "Forza
                  assoluta", "Un profeta ateo", "Ali che nascono",
                  "Elegie di Fuoco", "Come una crisalide" e "Didone",
                  in cui non a caso il mito entra a far parte della
                  poesia. Non già artificio poetico o sfoggio
                  culturale o ritorno ad un classicismo di maniera.
                  Il ricorso al mito è da intendersi, forse,
                  nella più pura e immediata presa che il suo
                  fascino e il suo potere esercitano sull'animo
                  umano; il mito si riscontra anche in altri
                  componimenti, da "Mitologia umana" a "Logos
                  alogos", per manifestare e rendere afferrabili
                  sentimenti e passioni il cui potere travalica per
                  potenza e forza ciò che è
                  "naturalmente umano". Il mito e la sua
                  utilizzazione metaforica rinviano a una sorta di
                  tecnica tendente ad esprimere il concetto per
                  immagini. "Artemide", "Afrodite", "Nettuno",
                  "Didone", "Enea" diventano simboli e figure d'un
                  vissuto lacerante, di sentimenti che non trovano
                  parole per esprimersi, ma nel contempo atti a
                  provocare, quasi catarticamente, emozioni immediate
                  e liberatorie. E ancora, non a caso, "Mitologia
                  umana", laddove le varie divinità sono
                  personificazione di modi psicologici di essere e di
                  vivere. In un susseguirsi di metafore, similitudini
                  e immagini simboliche, la poetessa canta con
                  accenti graffianti l'eterna vicenda di chi ama e di
                  chi non vuole o non sa amare, di chi non osa
                  rivelare i propri sentimenti ed emozioni in tutta
                  la loro violenza e profondità. Senza meta,
                  senza sicurezze, vaga, continua ad amare nella
                  speranza che forse un giorno, prendendo una
                  conchiglia oltre la sabbia, l'altro potrà
                  tornare a sentire il fremito della vita e a
                  riconoscere l'amore.Ancora due parole per il modo in cui vive e
                  si anima il paesaggio e l'ambiente in ogni
                  componimento. Pare ci sia, per un verso, una sorta
                  d'inscindibile legame tra uomo e natura fondato
                  sulla duplice corrispondenza configurativa e
                  simpatetica, al punto che spesso la natura è
                  impiegata simbolicamente o metaforicamente per
                  stigmatizzare o significare gli stati d'animo. La
                  consonanza tra la fragilità e la forza dei
                  fenomeni, l'infinita mutevolezza,
                  variabilità e alternanza degli scenari ben
                  si confà al sentire umano e diviene in
                  numerose liriche l'unica via d'accesso alla
                  comprensione del vissuto ("Presagio di Primavera",
                  "Al Dio dei mari"); per l'altro, la natura si fa
                  sovente contraltare o contraddittorio simbolico del
                  sentire, quasi a sottolineare il divario oggettivo
                  e invalicabile che tuttavia sussiste tra mondo
                  esterno e uomo ("Vienna", "Un profeta ateo",
                  "Forse", "Un pugno di forza"). Il risultato diviene
                  allora la creazione d'uno spazio sovradimensionale,
                  non identificabile concretamente, ma in cui si
                  collocano e s'inseriscono in maniera quasi visibile
                  e tangibile le inquietudini, il conflitto, il
                  disincanto, le gioie, gli affetti. Rompendo ogni limite, l'anima si perde e si
                  confonde nell'infinità dell'essere per
                  ritrovarsi... cenere azzurra. Antonietta D'Alessandro   |