Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Antonio Monte
Ha pubblicato il libro
Antonio Monte - "Le parole dai nodi d'oro"
 
 
 
 
 
 

Collana I salici (narrativa) 14x20,5 - pp. 280- Euro 13,50 - ISBN 88-8356-510-X

Presentazione
Prefazione
Note dell'autore
Capitolo primo
Capitolo ventesimo 


Presentazione
Quando, nella quiete della notte, solo silenzio e tenebre si accompagnano alla nostra solitudine e al silenzio si chiede la pace dell'anima, allora, più che mai, col desiderio di una carezza, sorge spontaneo il bisogno di comunicare con se stessi, per sussurrare al proprio intimo i ricordi più cari di un passato che ci appare tanto più lontano quanto più cupo è il vuoto lasciato da un bene perduto.
È nel segno di questa condizione esistenziale che un uomo come tanti - dietro il cui sguardo severo s'intravede un vissuto intenso fatto di esperienze dolci e amare - riscopre, quasi per gioco, la passione giovanile per la poesia e diventa scrittore.
"Le Parole dai nodi d'oro" è la storia di Emiliano, un ragazzo ambizioso, baciato dalla fortuna che lo porta a realizzare il sogno della carriera militare.
Ma la storia è solo un pretesto per introdurre il lettore nell'universo che si rinviene tra le righe del romanzo e che costruisce, nella traccia di fondo, il motivo portante: la celebrazione dell'amore, di quella magia che attiva energie produttive insospettate e scatena emozioni.
L'amore, qui, è l'idea, il soggetto, la trama, il senso: l'amore più importante della vita, più forte della morte ed è in questa sintesi la sensazione che stordisce il lettore nel chiudere il libro.

Prefazione
 
Chi, come me, conosce da vicino Antonio Monte ne apprezza soprattutto la profonda spiritualità, congiunta ad un naturale talento estetico.
 
Di siffatte doti si accorgerà d'istinto anche il lettore che certamente resterà avvinto e coinvolto nel seguire, di un fiato, la trama di questo pregevole romanzo.
 
La seduzione del libro sta invero nel disegno, a tutto tondo, di un percorso interiore che si snoda e si gioca intorno al "sentimento del tempo", nel segno che, ad esempio, ispirò la poetica di Ungaretti; pertanto in queste pagine anche il lettore frettoloso potrà "sentire" ciò che riporta all'anima vera del mondo e che in sostanza conferisce senso ai nostri giorni.
 
L'autore, dunque, ci regala un affresco nel quale sfilano, sotto i nostri occhi e per il nostro diletto, vicende portanti e piccole storie, tutte tra loro legate e innervate da una sorta di nostalgia da "amarcord", rese ancor più gradevoli da un sottofondo di grazia musicale che richiama le note di Nino Rota nell'omonimo film felliniano.
 
Il romanzo è, infatti, sapientemente costruito attraverso l'intreccio di continui flashback che richiamano fatti e avvenimenti apparentemente tra loro slegati, che si rincorrono nel tempo e nella memoria, senza tuttavia sfuggire ad un canovaccio di fondo costituito da un viaggio dell'anima alla ricerca di un amore perduto eppur ritrovato, nel mistero e nei miraggi dell'esistenza.
Si prendano, ad esempio, le splendide pagine in cui l'autore descrive un fantastico viaggio in treno che vede il protagonista inseguire i propri sogni. Gli incontri ivi descritti con suggestiva efficacia dialettica offrono all'autore l'opportunità di giocare con i personaggi, ciascuno elevato a protagonista-interprete delle rispettive emozioni sul filo dei ricordi.
 
Il viaggio in treno viene qui assunto come metafora e cioè come sintesi rappresentativa del passaggio e della perpetua transizione della condizione umana che trova alimento proprio nell'intreccio delle esperienze passate e talvolta riesumate attraverso la pulsione fantastica. La mano sagace e arguta dell'autore è così in grado di disegnare una schiera di personaggi, di oggetti e di piccoli dettagli che regalano al lettore emozioni intense.
 
Il libro, tra l'altro, appassiona ed è reso più accattivante da uno stile sobrio, vivace ed insieme icastico, qua e là spumeggiante di ironia dall'antico sapore italico, per cui al lettore resta il piacere di un "viaggio" intenso e partecipato in compagnia dell'autore... e del suo amore ritrovato, essendo, in sostanza, il romanzo, un inno all'amore.
 

Benito Melchionna


Note dell'Autore
 
Il romanzo è liberamente ispirato a eventi vissuti dei quali costituisce una rielaborazione fantastica, lo stesso è stato ambientato in luoghi precisi e familiari, a beneficio esclusivo del dettaglio descrittivo.
 
Questo lavoro sarebbe rimasto solo un'idea se non avessi beneficiato dell'input del prof. Antonio Tartaglia che mi ha costantemente incoraggiato e sostenuto in questo percorso e del quale sono i versi di "Anime stanche" e di "Va dritto al cuore" riportati nel romanzo. Ad Antonio, con l'espressione dei sentimenti di amicizia autentica e di stima, va un abbraccio e un "grazie" di cuore.
 
All'amico caro, dr. Benito Melchionna, magistrato e docente universitario, nonché poeta e saggista, autore di molteplici pubblicazioni a contenuto giuridico, "fratello nel segno di Calliope", rivolgo un pensiero affettuoso e un ringraziamento sentito per la lusinghiera prefazione al libro.


"L'amore può solo nascere, non morire, se non con noi.

Quello che perdiamo per strada non è l'amore ma la persona amata."


Le parole dai nodi d'oro  

Parte prima
Capitolo primo

Lasciare la mia casa, la mia famiglia, fu un evento vissuto con estrema disinvoltura. Non mi resi conto che quella partenza segnava il distacco definitivo dalla casa materna, dalla spensieratezza e dall'irresponsabilità. Avevo davanti a me un futuro sul quale contare ed ero troppo preso per accorgermi di ciò che mi lasciavo alle spalle.
Mancava poco più di un'ora alla partenza; Giorgio sarebbe passato, di lì a poco, a prendermi col padre.
Mentre sistemavo le ultime cose nella valigia, Leonardo tentò una battuta di spirito per mascherare l'emozione; lo fece goffamente e, nel ricevere dalle sue mani l'accendino che più volte gli avevo visto ostentare, sentii che l'euforia di quel momento era un privilegio mio esclusivo: io guadagnavo un futuro al quale anelavo, gli altri, per questo, mi perdevano ma durò solo un istante, il tempo di un "grazie!" in un lampo di tristezza.
Quando suonarono alla porta, Giorgio fu puntualissimo, mia madre ebbe un momento di debolezza; aveva resistito con dignità al dolore che covava da oltre un mese, negandosi anche il più piccolo segno di cedimento liberatorio. Oggi che sono padre so che fu un dolore tagliente.
 
Partimmo da Capua alle 17.45. Ci sistemammo in uno scompartimento vuoto di una carrozza ancora in esercizio soltanto sulle linee secondarie, una di quelle carrozze costruite all'epoca della prima guerra mondiale, con sedili lucidi di pino di Svezia, montati su telai metallici, e con portapacchi fatti con rete di corda.
Mentre la locomotiva sbuffava, seminando lungo il treno un odore acre, e gli alberi ci correvano incontro, l'immagine di mio padre, sorridente, com'egli l'aveva affidata alla mia memoria, uscì dalle ombre della mia adolescenza, quando la sua allegria contagiosa infondeva ottimismo e la sua parola, mai grave, rasserenava e dava sicurezza.
Mio padre non mi ha visto uomo, ci ha lasciati mentre mi accingevo a diventarlo, mentre cercavo ancora protezione nella stretta della sua mano, in quella stretta che fu, per lui, l'ultimo legame con la vita, in un letto d'ospedale.
Mi ero addormentato, tenendogli la mano, e quando mi svegliarono non c'era più. Mi dissero poi che negli istanti supremi aveva cercato, lucidissimo, di scendere dal letto, nell'estremo, disperato tentativo di resistere alla morte.
La sua vita è stata breve e dura, eppure l'ha vissuta con entusiasmo e con ottimismo, cogliendone le gioie più minute puntualmente.
Negli appuntamenti decisivi della mia esistenza, nei miei pensieri c'è stato immancabilmente un momento per mio padre e credo che questo rapporto ideale abbia sempre, in qualche modo, ispirato le mie decisioni.
Ancora oggi il suo ricordo è un porto sicuro per i miei smarrimenti.
Immerso in questi pensieri, lentamente, mi addormentai, cullato dal treno e dal baluginante carosello di lontane memorie.
Mi risvegliò lo stridio dei freni nella stazione di Roma. Erano le 20,35. Ci affrettammo a scendere dal treno per raggiungere il binario di partenza del direttissimo per Milano, proveniente da Reggio Calabria, che arrivò in ritardo. Giorgio aveva già esaurito la sua resistenza al digiuno e prese un panino, di quelli asciutti e stantii che si vendono nelle stazioni. Controllai l'ora al fischio di partenza: le 21,15.
Era il 21 ottobre; saremmo arrivati a Modena alle cinque circa del giorno dopo.
Passò il carrello e prendemmo un caffè, per così dire, poi fumammo una sigaretta.
Provai un senso di pienezza, mi sentivo libero e padrone di me stesso, come non mi accadeva da tempo. Aspiravo ogni boccata con voluttà mentre immaginavo Ileana piangente.
L'avevo vista quella mattina, coi genitori e Veronica, la sorella più grande di due anni. Avevo telefonato ai suoi per salutarli ed essi mi avevano dato appuntamento davanti al palazzo municipale. Dispiaciuti e, al tempo stesso, felici per me, nell'apprendere la notizia della mia partenza, i genitori avevano indugiato sulla promessa di mantenere i contatti, ora epistolari. Ileana non mi era parsa addolorata ma neanche euforica e questo era già tanto; mi aveva fissato per qualche istante, con aria d'ironico rimprovero, ma sentivo che quell'espressione non era lo specchio dei suoi sentimenti; per il resto aveva fatto da comparsa.
Fui certo che la novità, appresa quella mattina, le avesse messo addosso l'agitazione dei cambiamenti repentini, che la prospettiva di non vedermi per un pezzo avesse dato una scossa ai suoi umori, ma di questo avrebbe preso coscienza solo più tardi.
Tutto era cominciato una sera di febbraio di quello stesso anno.
La vidi in centro, sotto il porticato di via Duomo.
Procedeva nel senso inverso al mio e incrociai il suo sguardo per un istante, un istante intenso che mi parve interminabile come un replay rallentato. Mi passò accanto, insieme ai genitori, e si perse nella folla.
Rimasi stordito per tutta la sera dai suoi occhi azzurri, sotto una cascata di capelli biondi, e andai a letto con la pienezza di quell'istante mentre la luna, che faceva capolino dalla finestra socchiusa, sembrava sorridermi compiacente.
Il mattino seguente nulla era cambiato: dolcissima, la sua immagine si era impossessata della mia mente e quello sguardo mi sorprendeva ripetutamente, astraendomi da ciò che mi circondava.
Non capivo tutto questo, non mi era mai accaduto, ma mi piaceva.
Passò una settimana. Il ricordo di quell'incontro andava sfumando come l'immagine di un sogno e mi stavo abituando a considerarlo tale quando mi accadde di rivederla al Luna Park.
Avevo appena preso posto su un disco volante, con Gian Mario, e mi accingevo a cercare bersagli da inquadrare nel mirino per guadagnarmi un giro premio quando la vidi sulla stessa giostra con un'amica.
Ritrovai quegli occhi, lo sguardo intenso e caldo del primo incontro, questa volta più insistito, quasi di sfida; fui scosso da un fulmine - era bellissima - e mi sentii colpito, insieme al disco volante che andò giù.
Al giro successivo non c'era più; la cercai dall'alto e la vidi allontanarsi con l'amica.
Quella sera non riuscii ad addormentarmi. Un lampo d'azzurro tornava ripetutamente a folgorarmi, dandomi sensazioni forti che non riuscivo a contenere.
Fu un caso a farci incontrare.
Accadde un mattino di marzo, una di quelle giornate che fanno onore alla bizzarria climatica di marzo: un vento tiepido portava, con l'odore di pioggia, un presagio di primavera mentre nuvole minacciose si addensavano nel cielo. Ero uscito di casa presto e stavo percorrendo il lungofiume. Camminavo accanto alla ringhiera, ancorata a colonnine di pietra, che correva lungo la sponda alta dalla quale si godeva la vista del Volturno. In quel punto, il fiume formava un'ansa, scorrendo sotto il ponte romano, ricostruito dopo la guerra, e poi verso le campate del ponte nuovo e di quello ferroviario.
Avevo appena distolto lo sguardo dalle torri di Federico II di Svevia, sulla sponda opposta, oltre il ponte romano, quando la vidi sopraggiungere, dirigendosi nella parte bassa del lungofiume, laddove questo si sdoppiava in due livelli collegati da una gradinata.
Incrociai il suo sguardo a distanza, vivendo la sorpresa per un istante di trasalimento.
Assecondai l'impulso, deviando verso la gradinata, e presi contatto nel modo più scontato:
"Ciao!"
"Ciao!"
rispose, quasi ci conoscessimo già, ed ebbi l'impressione che gradisse la mia presenza.
"Ti accompagno?" proposi e, senza attendere la risposta, l'affiancai, camminando con lei.
Superava appena la mia spalla e stimai che fosse alta poco più di un metro e sessanta. Una sensazione di benessere mi accompagnò, nel sentirla al mio fianco, e mi avventurai con entusiasmo, assaporando il gusto della conquista.
"Come ti chiami? " dissi.
"Ileana."
"Ileana..." ripetei, provandone il suono,
"è bello... ti si addice!"
osservai, cogliendo la prima opportunità per un omaggio alla sua bellezza che parve gradire in un "Grazie" segnato da un lieve imbarazzo.
"Hai anche un cognome?"
"Sì... Gioia."
"Di chi?" le chiesi, strappandole un sorriso, mentre, a sua volta, chiedeva: "E tu?"
"Emiliano... Emiliano D'Alambra."
"Fai questo ogni mattina, Emiliano?"
"Cosa?"
"Accompagni sconosciute a scuola?"
"Perché... non ci conosciamo?" chiesi serio.
Mi guardò con aria interrogativa ed io soggiunsi:
"Non sei Ileana?"
"Certo che sono Ileana!"
"E io?"
"Emiliano."
"Allora ci conosciamo!"
S'illuminò in un sorriso ed entrammo in sintonia.
In quello stesso istante fui invaso da una sensazione che non conoscevo; la percezione della sua presenza s'impossessò di me, occupando ogni spazio del mio essere. Avvertii l'incanto che ci stava avvolgendo, sentii che potevo osare e allora, tra il serio e il faceto, fissandola con uno sguardo scopertamente ammaliatore, preso in prestito da Humphrey Bogart, di quelli che al divo dello schermo garantivano successi devastanti sulle sue prede inermi, dissi:
"I tuoi occhi li sogno da sempre."
L'effetto non si fece attendere.
"Non andrai troppo al cinema?" disse, con aria complice.
In effetti, anche se la battuta era la manifesta e scherzosa parodia di una sequenza cinematografica, in essa c'era un fondo di verità, avevo davvero l'impressione di conoscerla da sempre, tante volte avevo evocato il ricordo dei due incontri.
Sorridevo, ma il mio corpo tremava. Avevo rotto il ghiaccio con un approccio felice e, incoraggiato da questo, mi feci più temerario; niente dovevo inventarmi per catturare la sua attenzione, per introdurla nell'atmosfera che mi avvolgeva.
Mi sentivo fortemente ispirato, tanto che dovetti reprimere le sensazioni che mi pervadevano, concedendone al dialogo solo una parte; così, tra una battuta e un sorriso, cominciammo a tessere un rapporto che, sin dai primi istanti, escluse con decisione la monotonia.
"Quanti anni hai?" le chiesi.
"Diciassette, oggi."
"Oggi? Vuoi dire che compi gli anni proprio oggi?"
"Sì!"
"Davvero?" chiesi, non convinto.
"Davvero!"
Le augurai buon compleanno e, ammiccante, aggiunsi che sarebbe stato il suo migliore compleanno.
"Sei così modesto sempre o solo quando devi difenderti dalla timidezza?" chiese, ironica.
"Tu cosa pensi?"
"Direi che sei un timido."
"Un timido che simula sicurezza?"
"Sì."
"E se fossi un presuntuoso che dissemina indizi di timidezza?"
"È difficile apparire timido per chi non lo è."
"Però!"
"E tu... quanti anni hai?"
"Ventuno suonati, saranno ventidue a luglio."
La guardai con attenzione e colsi nel suo sguardo un barlume di compiacimento. Le giovinette sono sempre lusingate dall'attenzione di cui sono fatte oggetto da ragazzi più grandi; una lusinga che le rende, ai loro occhi, più donne di quanto esse si sentano.
Ileana non era esente da questa debolezza.
C'infilammo in un vicolo, poi in un portone e mi disse di attendere; tornò subito dopo:
"Ho portato un libro ad Anna, una mia compagna di classe che è ammalata."
Mentre tornavamo indietro dissi:
"Mi è simpatica questa Anna, mi piacerebbe conoscerla."
Mi guardò perplessa.
"Non trovi che sia simpatica?" chiesi.
"Se nemmeno la conosci!"
"Sono sicuro che lo è."
"Cosa te lo fa pensare?"
"Si è ammalata per te."
"Sentiamo perché." disse sorridendo.
"Oggi non avresti percorso il lungofiume, se non si fosse ammalata, e non mi avresti incontrato, mentre io starei chiedendomi perché mai mi è simpatica questa Anna che non conosco."
"Sei sempre così?" disse preoccupata.
Ripercorremmo il lungofiume, quindi imboccammo il corso Appio.
Cominciò a piovere e mi invitò a ripararmi sotto il suo ombrello; questo ci costrinse ad avvicinarci per cui mi accadde di sfiorarla ripetutamente con il braccio e di sentire i suoi capelli scivolare sulla mia spalla, traendone una gradevole sensazione d'intimità.
"Che classe frequenti?" le chiesi.
"Il secondo anno dell'Istituto magistrale."
"Siamo un po' ripetenti, direi!"
"Nient'affatto!"
"Allora siamo stati ripetenti!"
"A te non è mai successo?"
"Certo! Se vuoi t'insegno come si fa."
"Quanti anni hai ripetuto?" chiese, incuriosita.
"Due!"
Mi guardò con alterigia, affermando:
"Io ho ripetuto solo un anno."
"Abbi fede, c'è ancora tempo!"
"Non ci penso nemmeno, ho ripetuto la seconda media solo perché mi sono ammalata."
"Anche a me è successo perché mi sono ammalato."
"Sei stato ammalato per due anni?" chiese stupita.
"No, per sette."
"Come per sette?" disse, non tornandole i conti.
"Mi sono ammalato in quarta ginnasiale e non mi sono più ripreso."
"Ma che dici?"
"Sto dicendo che avrei fatto lo studente a vita e smettere è stato difficile, soprattutto per i professori. Quando andai al ginnasio scoprii un mondo nuovo che mi fece perdere la testa senza rimedio."
"Smettila!" disse, appena tacqui "Sono arrivata."
Eravamo davanti al portone d'ingresso dell'Istituto e dovemmo salutarci.
"A che ora esci?" le chiesi.
"Alle 12,30."
"Ti aspetto all'uscita... vuoi?"
"Sì."
"Ciao."
"Ciao."
"Aspetta!" esclamò, mentre mi allontanavo sotto la pioggia, "Prendi l'ombrello."
"Non temere, verrò comunque."
"Dai!... Devo correre in aula."
Presi l'ombrello e la seguii con lo sguardo mentre entrava.
Camminando sotto la pioggia, pensai che i suoi diciassette anni le facevano, in parte, torto.
La sua bellezza, calda e carica di femminilità, la rendeva donna mentre il suo modo di porsi tradiva la ragazzina che era ancora in lei.
I tratti del viso, appena pronunciati in linee morbide e punteggiati di lentiggini che davano alla pelle un caldo rosso ambra, denotavano la sua fiorente giovinezza ma nello sguardo luminoso e caldo, come nel taglio della bocca, ben disegnata, dalle labbra carnose, c'era già il richiamo sensuale della donna.
La rividi al termine delle lezioni e l'accompagnai alla fermata dell'autobus. Fu così ogni giorno fino alla fine dell'anno scolastico.
Mi aveva spiegato dove abitava, indicandomi il percorso, e ci eravamo dati appuntamento per il pomeriggio alle 17,30 in fondo al viale di casa sua. Cercai Gianni per chiedergli il lambrettone, come lui lo chiamava, per il pomeriggio. Ebbi fortuna a trovarlo nel suo studio e concordammo di vederci alle 17,00. Gianni Fiore era un Geometra di cinque anni più grande di me, una persona molto speciale che avevo conosciuto da poco tempo e che frequentavo di sera quando si liberava dagli impegni di lavoro.
Alle 17,00 ritirai il lambrettone e partii alla volta di S. Angelo in Formis.
Pensavo all'effetto che mi avrebbe fatto rivederla mentre percorrevo la strada comunale che conduceva al suo paese, saltellando sul fondo accidentato e zigzagando, per evitare le grosse buche scavate dal passaggio degli autocarri sulle scrostature dell'asfalto.
Mi sentivo in un sogno. Il vento mi accarezzava il volto e mi spettinava i capelli; la giacca sbottonata svolazzava all'indietro con un rumore morbido di frusta e la cravatta saltellava dalla spalla alla tempia. Niente mi sembrava fuori posto e nulla mi turbava; ero in pace con me stesso e sentivo che era appena iniziata una magia che avrebbe dato una svolta alla mia vita.
Arrivai in anticipo di cinque minuti all'appuntamento e mi fermai davanti al viale di casa sua, restando sul ciglio della strada. Parcheggiai il lambrettone e guardai l'orologio. Soltanto cinque minuti e l'avrei rivista.
Ci eravamo lasciati da cinque ore e mi sembrava trascorso un tempo infinitamente più lungo.
Mi sentivo in preda all'ansia, un'ansia elettrizzante e dolce che mi faceva scalpitare dentro.
Passarono quindici minuti e sul viale non scorsi alcuna presenza. Pensai di avere sbagliato e ripassai mentalmente le indicazioni che mi aveva dato; davanti a me c'era il ponte sull'autostrada e alla mia destra il viale; non c'erano dubbi, il viale era quello. Temetti per un attimo che i suoi le avessero proibito di uscire e, proprio in quell'istante, scorsi la sua figura. Era in fondo al viale e stava correndo verso di me. Non mi aveva visto.
Il viale era costeggiato da due file di peschi e mi ero defilato dietro l'ultimo mentre l'aspettavo. Mi spostai di qualche metro e mi vide, mentre era a meno di trenta metri; arrestò la corsa e sorrise.
"Ciao. Ho temuto che fossi andato via."
disse, ansimando più per la trepidazione che per la corsa.
"Non ci contare mai." replicai.
"Ho dovuto inventarmi un pretesto all'ultimo momento; mia madre non aveva commissioni da affidarmi.
Ho detto che Noemi mi ha chiesto il libro di matematica e sarebbe passata alle sei. Mi posso trattenere poco."
Indossava un kilt con colori tendenti al rosso e una camicetta bianca con pupazzetti nella trama del tessuto, sotto un gilet di lana blu. Il tutto la rendeva più ragazzina e mi complimentai: "Stai bene col kilt!"
"È un capo che porto volentieri. Ma cosa nascondi?"
"Buon compleanno!"
esclamai, porgendole una rosa che avevo tenuto dietro la schiena. Dopo qualche istante di silenzio, con voce segnata dall'emozione, mi ringraziò e mi confidò:
"È la prima volta."
Mi dissi felice di questo e affondai la mano nella tasca della giacca per estrarne un bacio Perugina; nel gesto di offrirglielo l'accarezzai con lo sguardo e tutta la dolcezza ch'era in lei affiorò negli occhi che le prime ombre della sera resero di una colorazione più intensa.
Non riuscivo a distrarre lo sguardo e un'attrazione fortissima mi fece parlare: "Sei bellissima!" dissi, quasi a mia insaputa, come immerso in un sogno nel quale vedevo me stesso, staccato da me. Le presi la mano, accostandola, ed ella, con un gesto inatteso, poggiò il viso sul mio petto.
Le circondai le spalle col braccio, tenendola stretta. Sentivo il suo respiro sul mio petto e i capelli sulle labbra e sul mento. Restammo immobili sul ciglio della strada, per un tempo indefinibile, a goderci l'incanto.
Il suono di un clacson, e non era il primo che ci salutava festoso, ci scosse e ci accorgemmo che era buio.
"Devi andare." le dissi.
"Sì, ora vado."
"A che ora arrivi a Capua domattina?"
"Alle otto e dieci."
"A domani allora. Adesso vai!"
"Ciao."
"Ciao."
Si staccò da me e attraversò la strada salutandomi con la mano. Feci lo stesso gesto, poi inserii la chiave nel quadro del lambrettone montando in sella, quindi volsi lo sguardo verso il viale per vederla rientrare in casa e mi accorsi che stava invece tornando indietro. "Cosa è successo?" dissi.
Non rispose ma, frugale e a sorpresa, si levò sulle punte dei piedi e mi baciò sul viso. Poi corse di nuovo, attraversando la strada, e s'inoltrò nel viale.
La seguii con lo sguardo fino a vederla rientrare in casa.
Ero pieno di lei: il bagliore degli occhi, il respiro sul mio petto, le sue labbra sul mio viso, tutto era dentro di me.
La strada di casa quella sera fu lunga e il fascio di luce del faro, per l'intero percorso, proiettò sull'asfalto le sequenze del giorno più intenso e vissuto.
Tra passeggiate e fugaci incontri pomeridiani, nei pressi del viale, dove mi recavo con mezzi fortuna, e poi a casa sua, dove ebbi l'ardire di presentarmi per conoscere i suoi, vivemmo insieme la primavera, con la gioia di scoprire l'amore e di scoprirci nell'amore, accumulando un bagaglio di emozioni che ho trovato irripetibili come la giovinezza.
Arrivò l'estate ed ella partì per il suo paese di origine con la famiglia per trascorrervi le vacanze. La raggiungevo saltuariamente per trascorrere qualche giorno insieme e una domenica di agosto, dopo uno stupido litigio da innamorati, andai via, insalutato ospite, con la prima corriera del pomeriggio. Non tornai più. Così perdemmo i contatti, pur senza un'esplicita rottura del rapporto, mentre io ero impegnato nelle prove del concorso di ammissione all'Accademia militare. Per quanto fossi preso da questo progetto, il ricordo di Ileana restò vivo in me e una sera in cui più forte tornò il desiderio di lei, rilessi la sua lettera, la sua prima lettera, che avevo ricevuto qualche giorno prima; rilessi quella lettera più volte, poi, ascoltando il favoloso Elvis in quella vecchia "Are you lonesome to night" così in sintonia con lo stato d'animo del momento, le scrissi.
 
 
 
"Se vi saranno ancora giorni di marzo da dedicare ad una bimba dagli occhi azzurri, incontrata per caso in un giorno di pioggia, per avere dai suoi diciassette anni una nuova primavera d'amore, per riavere dal destino i giorni di speranza rimasti chiusi in un passato lentamente scivolato nel rimpianto, forse allora, con un sorriso amaro, le dirò di te, di un amore sciupato senza un perché; le dirò dei giorni che seguirono la fine, delle notti vissute nel ricordo.
Forse allora, leggendo ancora una lettera ingiallita, mi chiederò se mai può aver dimenticato la Ileana che conobbi in essa, se mai mi mentisse quando diceva di amarmi, mentre mi tormenterà il dubbio che non fossi solo a soffrire, che anche lei vegliasse, col rimpianto, nella nostalgia di un passato ancora vivo nel ricordo.
Forse non è tanto nella felicità che si coglie l'amore quanto piuttosto nel dolore perché in esso è più caro e, se anche, talvolta, il cuore ne piange ci fa sentire più uomini, forti della propria infelicità che, paradossalmente, resta il solo conforto. Anzi, quando guardo lontano nel futuro per scoprirvi ancora sorrisi e lacrime, una nuova forza m'infonde coraggio, mi aiuta a continuare e quasi avverto una parvenza di felicità in queste pene che mi faranno forse sorridere quando, lontano negli anni, di te mi resterà solo un'immagine diafana, in un caro ricordo legato a un sogno rimasto tale."
 
 
Arrivò l'autunno, mentre attendevo la convocazione per l'inizio del corso. All'epoca abitavo in una stradina di periferia dove avevo trascorso gran parte dell'adolescenza e la prima giovinezza. Su quella stradina dava la finestra della mia cameretta in cui consumai buona parte dei pomeriggi, tra bilanci e progetti, in completa solitudine, per circa venti giorni.
Le serate, più movimentate, furono vissute all'insegna del commiato dalle cose, dalle abitudini e, soprattutto, dai compagni d'allora, quelli che avevano diviso con me le prime sigarette e la gioia di una faticosa vittoria su un campo di calcio, nei tornei giovanili, con la squadra intitolata alla memoria del mio " amico per la pelle " che un infame destino aveva strappato troppo presto alla vita. Quante volte, caro Mimmo, sulla tua tomba, ho pensato a tutte le cose che avremmo fatto insieme, a quelle che avrei fatto fuori copione, senza accorgermene. La mia vita avrebbe avuto un corso diverso da quella che ho vissuto, risucchiato com'ero dal vortice della tua esuberante vitalità. E invece...
 
"All'insaputa di noi stessi,
arrivammo al cospetto del silenzio
e il mio cuore sconvolto
cercò invano ragioni
nelle viscere della mente.
Senza un cenno di saluto,
andasti lontano,
in un luogo che non conosco,
lasciando epitaffi scolpiti sulla calce dei muri
e odori di fresco mattino.
Troppo tempo è passato!
Le scelte esistenziali sono nuvole
che avvolgono i meandri della memoria
dove il mio cuore, caparbiamente giovane,
brancola alla ricerca dei sorrisi
e ricicla con affanno gli entusiasmi d'altri tempi."
 
Non è cosa di tutti i giorni l'amicizia e io questo l'ho compreso negli anni che tu non hai vissuto.
Per amicizia intendo quella che vive oltre la via, nel ricordo struggente delle emozioni vissute attraverso gli anni che ci hanno portati dall'adolescenza alla giovinezza.
Con un senso di rabbia ho sempre accomunato il tuo destino a quello di tuo zio Mimmo, ucciso dai Nazisti; mi è rimasta scolpita nella memoria l'immagine del suo splendore nell'uniforme di S. tenente dei Bersaglieri, in quel ritratto che la tua nonna, la cara nonna Edelweis, teneva nel suo studio e che guardavo con religioso raccoglimento, percependo la sensazione dell'ineluttabilità del tempo anche nelle frazioni più minute.
Furono proprio quegli anni che mi inculcarono il gusto della storia, il culto del passato e il senso della caducità delle cose e della banalità del quotidiano.
Caro Mimmo, oggi che ho varcato la soglia della maturità l'amicizia è solo un'astrazione ricca di fascino e un ricordo dolce e remoto.
 

Capitolo ventesimo

In stazione trovai Patrizia ad attendermi e alle cinque e un quarto partimmo da Bergamo.
Un'ora dopo arrivammo a Milano dove salimmo sul direttissimo per Roma.
Entrammo in uno scompartimento occupato soltanto da due anziane signore che risposero al nostro saluto con un largo sorriso e cogliemmo subito, nei loro sguardi, una voglia di parlare che non tardarono a liberare.
Ci sedemmo di fronte alle due donne e la meno giovane, sollevando lo sguardo dal libro che era intenta a leggere e al di sopra degli occhiali che inforcava sulla punta del naso, mi guardò a più riprese, ogni volta con un sorriso che ricambiai, prima per cortesia e poi per contagio.
Indossava un tailleur grigio con giacca corta e sagomata, sopra una camicetta bianca a righe azzurre nella cui scollatura notai una catenina con un pendente: un piccolo astuccio ovale. La bellezza sfiorita, in tratti sottili, dei suoi settant'anni circa aveva ancora i segni di una leggiadra avvenenza giovanile che si armonizzava col portamento distinto. Alzò lo sguardo su di me un'ennesima volta e, dopo avermi sorriso, disse:
"Mi toglierebbe una curiosità?"
"Prego!" risposi.
"Lei è un tenentino?"
Provai tenerezza a quel "tenentino" che mi era del tutto nuovo e pensai che fosse legato a un suo lontano ricordo.
"Non ancora." risposi "Sono un allievo ufficiale."
"Lei mi ricorda un tenentino che ho conosciuto tanto tempo fa."
rivelò, con voce tremula.
"Lo immaginavo."
pensai e dissi:
"L'uniforme degli ufficiali, ai suoi tempi, era diversa da questa."
Mi fissò per qualche istante, poi, con voce roca, precisò:
"Non è la sua uniforme che me lo ricorda ma lei, gli rassomiglia tanto, sa!"
"Le dispiace darmi del tu, signora?"
dissi, trovando del tutto fuori posto quel "Lei".
"Come ti chiami?" mi chiese allora.
Fu a questo punto che ci presentammo; si chiamava Rosa Mariano e la sua amica Oriana Mallevi. Viveva da trent'anni a Parma dove aveva insegnato; non si era mai sposata e il suo solo affetto era quell'amica e collega che viveva con lei.
Al termine delle presentazioni e di un breve scambio di battute con cui simpatizzammo reciprocamente, Patrizia, rivolgendosi alla signora Mariano, disse:
"Posso farle una domanda personale?"
e la vecchietta si compiacque di rispondere:
"Non fare complimenti."
"Quel tenentino era il suo ragazzo?"
"Come?"
"Era il suo innamorato?
"Oh... sì!"
esclamò, mostrandosi felice di sentirsi rivolgere quella domanda che la incoraggiava a parlarne, e aggiunse:
"Era il mio innamorato, sì."
Lo disse con dolcezza, una dolcezza che tradiva languore e percepii il suo trasalimento mentre gli occhi sembravano spaziare su un orizzonte lontano.
Pensai che la mia presenza le stava regalando un revival tanto inatteso quanto gradito e provai di nuovo tenerezza per lei. Seguì un silenzio carico di suggestione che non osammo rompere, come aspettando che si traducessero in parole le immagini inseguite dai pensieri della signora Rosa la quale, trascorsi pochi istanti intensi, si riebbe dal trasalimento e incrociò i nostri sguardi che non avevamo distolto da lei; ci sorrise ancora, studiandoci con uno sguardo insistito, poi disse:
"Siete una bella immagine della giovinezza!"
Ebbi voglia di abbracciarla ma non per il complimento in sé; c'era un garbo, una gentilezza, in quell'affermazione, che andava oltre le parole.
"Le va di parlarci del suo tenentino?"
disse Patrizia, con l'intento di assecondare il desiderio che si percepiva in lei.
"Non voglio annoiarvi con le mie storie."
rispose, ma i suoi occhi si illuminarono.
La rassicurai: "Sono certo che non sarà così."
Patrizia si alzò e le si avvicinò, chiedendole:
"Posso sedermi accanto a lei?"
"Ma certo!" rispose e le fece spazio.
"Ce ne parli!" disse Patrizia.
"Non farti pregare!" incalzò l'amica Oriana.
Quando ero ragazzo, nelle sere d'inverno, mio padre e mia madre ci raccontavano i fatti lontani della loro giovinezza, dei tempi della guerra.
Nei racconti di mio padre c'erano gli episodi di guerra vissuti da soldato, mentre in quelli di mia madre c'erano i ricordi dei bombardamenti e dell'occupazione tedesca. Quei racconti, conducendomi in un mondo che non esisteva più, esercitavano su di me un forte fascino del lontano e del perduto. Davanti a quella vecchietta che si accingeva a raccontare ritrovai quel fascino e mi disposi ad ascoltarla con trasporto.
"Ero giovane allora," esordì "avevo vent'anni e studiavo a Bari.
Erano gli anni della belle époque e l'atmosfera che si respirava era di scanzonata voglia di vivere; stavamo andando incontro a una guerra che ci avrebbe strappato gli affetti e ci avrebbe portato tanti lutti. Una sera di novembre, mi trovavo davanti alla fermata dell'omnibus con Ersilia, la mia compagna di università con la quale dividevo una camera in pensione.
Pioveva a dirotto e l'ombrello ci riparava appena la testa dalla pioggia."
Parlava lentamente, concedendosi una pausa di tanto in tanto, come per darsi il tempo di assaporare le sensazioni che riemergevano coi ricordi.
"Eravamo lì da molto tempo quando ci passò davanti una piccola carrozza senza cavalli che si fermò appena oltre.
Fu allora che lo vidi per la prima volta.
Scese dalla vettura, si avvicinò a noi e, dopo essersi presentato, si offrì di accompagnarci. Io ed Ersilia ci guardammo per un istante e accettammo.
Si chiamava Carlo Alberto Montanari ed era un tenente di fanteria. Veniva da una famiglia benestante di Torino con un'antica tradizione militare. Scambiammo poche parole durante il percorso e, prima di salutarci davanti al portone di casa, ci disse che sarebbe stato un piacere rivederci.
Era alto e bruno con la barba corta sul mento come la tua" precisò, rivolgendosi a me
"e gli occhi castani dallo sguardo intenso.
Due giorni dopo ci fu recapitato un bouquet con un suo biglietto col quale ci invitava a teatro; passò a prenderci alle sette di sera.
Ci colmò di attenzioni e i suoi occhi restarono su di me per tutto il tempo.
Lo rividi il giorno seguente; Ersilia s'inventò un'indisposizione.
Quella sera andammo a cena in un ristorante sul lungomare; quando ne uscimmo mi riaccompagnò ma davanti al portone mi disse che quella notte piena di stelle era troppo invitante per rientrare e mi chiese se mi andava di camminare."
Esitò un momento, una breve pausa, forse per concentrare il pensiero sull'immagine evocata e cercare le parole giuste per raccontare quel momento nel modo più fedele al suo ricordo.
"Le strade di Bari erano già deserte; passeggiammo a lungo, parlando di tutto, senza mai stancarci e perdemmo la cognizione del tempo. Stavamo così bene insieme che nemmeno per un istante ci chiedemmo se fosse ora di rientrare, non avevamo voglia di separarci e quando fu prossima l'aurora mi propose una corsa in auto.
Andammo in riva, in un villaggio di pescatori, appena in tempo per vedere il sole sorgere dal mare; ci lasciammo abbagliare dal sole all'orizzonte e dai suoi riflessi sul mare.
La magia che mi avvolse era così forte che vissi quel momento con le sensazioni che ti danno solo i sogni e mi prese, irresistibile, il desiderio di toccarlo.
Camminammo sulla spiaggia e ci fermammo a guardare i pescatori che, parlottando, armeggiavano con le reti, senza fare caso a noi, anche quando Carlo Alberto mi cinse le spalle con un braccio e mi lasciai baciare. Fu l'alba più luminosa della mia vita. Non l'ho più dimenticata. Non passò un giorno senza che sentissi il desiderio d'incontrarlo, un desiderio forte che non è mai rimasto inappagato.
Era la cosa più bella che mi fosse capitata; lo sentivo mentre m'innamoravo e mi abbandonai a quell'amore senza riserve."
Un ferroviere entrò nello scompartimento e, col suo:
"Biglietti prego!", interruppe il racconto che ella riprese immediatamente dopo.
"Fu un sogno dorato dal quale ci risvegliammo quattro mesi più tardi, quando, nel marzo successivo, arrivò l'ordine di trasferimento del suo reggimento al nord.
L'ultima notte tornammo in quel villaggio dove, insieme, aspettammo l'alba, ma quel giorno non vedemmo il sole levarsi sopra il mare, il cielo era cupo come i tempi che si preparavano.
Partì da Bari il 19 marzo del 1915. Alla stazione c'era la folla delle grandi partenze e i soldati si staccarono dalle loro amate, dispensando sorrisi per esorcizzare la malinconia.
Nell'ultimo abbraccio ci scambiammo una promessa, poi lo vidi allontanarsi, col treno, tra tanti berretti agitati, ai finestrini, dai soldati che cantavano in coro l'addio alla donna amata.
Lo seguii con lo sguardo in fondo a mille fazzoletti sventolati fino a quando ci giunse la melodia del coro.
Ricevetti una sua lettera da Rovigo e poi una seconda da Verona. A maggio l'Italia entrò in guerra e di lui non ho più saputo niente. Ho dovuto attendere la fine della guerra per apprendere che il 30 luglio di quell'anno era caduto nella seconda battaglia dell'Isonzo."
Era visibilmente commossa la vecchietta e Patrizia, che la teneva sottobraccio, non resistette all'impulso di baciarla.
Le avevamo fatto un regalo, offrendo alla sua evocazione una piccola ma attenta platea, e si sentì grata di questo, così, quando si riebbe dalla commozione, disse:
"È un piacere guardarvi, vedervi insieme! Quando siete entrati ho avuto un sussulto; per un istante ho visto il mio Carlo e me con lui; ho avvertito la presenza dell'amore e sono stata rapita da ricordi così vivi che non ho saputo resistere al bisogno di parlarne. Non lo avevo mai fatto prima d'ora. A voi non capiterà di perdere l'amore per colpa della guerra. Sappiate farne tesoro!"
Su quelle parole, d'impulso, interrogai Patrizia con lo sguardo ed ella mi fece un impercettibile cenno di no col capo. Abbassai le palpebre in segno d'assenso.
Quella cara nonnetta nemmeno per un momento aveva considerato la possibilità che fossimo altro che una coppia di innamorati. Mi dispiaceva mentire a nonna Rosa ma convenivo con Patrizia, sentivo che dare una spallata all'idea che si era fatta di noi l'avrebbe privata della gioia che l'aveva condotta nel passato e avrebbe annebbiato, in qualche modo, la bellezza di quell'evocazione.
Nell'anziana donna, il cuore aveva avuto palpiti d'amore, di un amore lontano che tutto il tempo vissuto nella privazione non era bastato a cancellare dalla sua memoria e la nostra presenza ne aveva rinverdito il ricordo; per questo non potevamo dirle che si era sbagliata, che non poteva avere percepito la presenza dell'amore, quella presenza che le aveva infiammato il cuore dopo tanto tempo.
Questa disposizione mentale mi spinse in una dimensione irreale nella quale l'esortazione della dolce nonna Rosa "Sappiate farne tesoro!" mi cacciò in bocca, quasi a mia insaputa, l'esclamazione:
"Purtroppo non c'è solo la guerra!".
Sorpresa, nonna Rosa mi rivolse uno sguardo interrogativo che subito dopo tradusse in parole:
"Che intendi dire?"
Dovevo dare un senso a quell'affermazione che mi era uscita incontrollata e mi soccorse, immediato, l'umore ispiratomi dalla forte carica di simpatia che mi legava a Patrizia:
"Provi a chiederlo alla mia dolce metà."
affermai, serioso, e rivolsi a Patrizia uno sguardo di sfida al quale ella rispose con un sorriso appena abbozzato in cui lessi "Mascalzone!".
"C'è qualcosa che non va?"
chiese la signora Rosa, rivolgendosi a Patrizia che, colta impreparata, restò assorta per qualche istante, poi disse:
"Forse non è il caso..."
"Scusami!" - disse nonna Rosa -- "Non intendevo essere indiscreta."
"Non si tratta di questo." affermò Patrizia, lasciandoci sospesi e cercando di uscire dall'impasse; passarono, quindi, alcuni istanti di silenzio in cui tutti gli occhi restarono su di lei, in attesa, mentre io sorridevo dentro di me, divertito dall'imbarazzo nel quale l'avevo messa e incuriosito da ciò che avrebbe detto per uscirne.
Alla fine mi ringraziò, ironicamente, di averle passato il testimone e disse:
"Emiliano è in polemica con me perché ritengo che non siamo fatti l'uno per l'altra."
"Ma sentila!" pensai.
Un velo di delusione segnò il volto di nonna Rosa, abbuiandolo.
La signora Oriana, facendosi interprete della sorpresa dell'amica, si rivolse a Patrizia:
"Posso fare anch'io una domanda personale?"
"Prego!"
"Posso davvero?"
"Certo!"
ma quando le pose la domanda:
"Sei innamorata di questo ragazzo?"
Patrizia esitò e mi parve in difficoltà, poi rispose affermativamente ma non fu convincente, tanto che la signora Oriana, con tono suadente, insistette:
"Ne sei sicura?"
"Come potrei non esserne sicura!"
rispose, decisa questa volta, ma chinò il capo e immaginai che stesse nascondendo una smorfia, nel tentativo di soffocare un sorriso ché mal si addiceva a quel contesto.
La signora Oriana si rivolse poi a me:
"Anche tu lo sei, vero?"
Non era una domanda, era piuttosto un'affermazione che ammetteva un'improbabile smentita. Mi resi conto, così, che dava per scontati i miei sentimenti ed io, per non deluderla e creare altre complicazioni, serio, esagerai:
"È quanto ho di più caro."
Si compiacque di questo la signora Oriana e nonna Rosa mi guardò con dolcezza, affermando:
"La guerra, caro Emiliano, è un'altra cosa, quella ti lega e ti separa, al tempo stesso, senza darti possibilità di scelta e, se non fosse un flagello, a volte sarebbe un bene."
Poi richiamò l'attenzione di Patrizia e disse:
"Mentre abbracciavo Carlo alla stazione, in quel lontano 19 marzo, sentii che stava andando via per sempre e pensai che, pur di non perderlo, avrei fatto di tutto. In un momento, passai in rassegna, tutte le cose alle quali avrei rinunziato purché un miracolo fermasse per sempre quel treno. Fu così che mi resi conto di quanto egli fosse importante per me, del posto che occupava in quella scala dei valori che determina le scelte, ma io non potevo scegliere, altri l'avevano già fatto per me."
Si concesse una pausa, forse pensando a una fortuna che noi non eravamo in grado di apprezzare, la fortuna di vivere un tempo in cui i destini delle persone lasciavano maggiore spazio al libero arbitrio, poiché, dopo, si rivolse a entrambi, con un tono nel quale colsi un cenno di severità:
"Provate, almeno una volta, a salutarvi in una stazione, considerandolo un addio; fatelo, col convincimento che è esattamente ciò che vi accadrà e se questo vi fa paura chiedete a voi stessi cosa sareste disposti a sacrificare per cambiare quel futuro; non aspettate che sia una qualunque guerra a farvelo capire."
Provai un senso di colpa. Non volevo che quel gioco si snodasse al di fuori della complicità di nonna Rosa e pensai di porvi rimedio, scoprendolo, ma ormai era tardi, le avrei solo dimostrato di averle mancato di rispetto, giocando alle sue spalle. Poi considerai che, in fondo, era nato da un equivoco del quale non eravamo responsabili e mi sentii affrancato in parte dal senso di colpa ma dovevo rassicurare nonna Rosa: "Non si dia pena per noi!" esclamai e spiegai:
"Quando le ho detto che, purtroppo, non c'è solo la guerra, ho inteso solo lanciare a Patrizia una provocazione sulle nostre divergenze di opinione. Si rassicuri, quella paura, noi l'abbiamo già conosciuta."
Dissi questo, pensando a Ileana, ai quattro mesi vissuti lontano da lei. Mi sorpresi così a pensare a Ileana che in quel momento era dall'altra parte del mondo e mi resi conto che avevo dimenticato quanto era successo, mi ero allontanato da quella realtà che mi aveva tenuto in ansia per una settimana e mi aveva angustiato per l'intera notte del viaggio a Roma. Tutto mi parve, d'improvviso, più leggero e nessuna difficoltà insormontabile. Ebbi la sensazione di essere uscito dal tunnel di grigiore che mi aveva afflitto; avevo, d'incanto, ritrovato la serenità, attraverso un percorso estraneo alla soluzione del problema ma saturo di quel buon umore che ti porta all'ottimismo.
Ero rimasto assorto per qualche istante, il tempo della percezione di questa sensazione di benessere e, mentre incontravo lo sguardo sorridente di nonna Rosa, sentii Patrizia sostenermi, affermando:
"Questo legame è troppo importante per rompersi con una congettura, ma so che dovremo difenderlo dalle nostre diversità."
"Perché mi provochi?"
pensai e guardai Patrizia con un sorriso malizioso del quale ella colse il senso, mentre mi dicevo che, suo malgrado, se le cercava.
Il concetto di diversità, così inaspettatamente chiamato in causa, entrò nella mia mente come un detonatore di una prorompente carica di simpatia e non resistetti alla tentazione:
"Le diversità di cui parla la mia piccola sono tutte nelle dimensioni; è questo il suo problema inconfessato: un complesso dell'altezza che la sta logorando. Immagino che le riesca difficile pensare che possa rappresentare un problema per due persone che si amano, eppure Patrizia, che mai lo ammetterà, ne ha fatto un tarlo della mente."
Patrizia mi fulminò con lo sguardo, trattenendo una voglia di ridere che le restò negli occhi, e nonna Rosa mi guardò con dolcezza. Mi sentii incoraggiato da questo e continuai, liberando la fantasia:
"Quando il buon Dio ha creato le bambole si è distratto per un momento, soffiando la vita su questo esemplare e ne ha fatto una splendida miniatura di donna che il caso ha mandato sulla mia strada. In tutto questo io non ho avuto alcuna parte, mi sono limitato a innamorarmi ma è la cosa che più conta; perciò non m'importa se devo inginocchiarmi per baciarla, m'importa di poterlo fare sempre."
Nonna Rosa sorrise con la simpatia di chi è apertamente schierato. Mi ero spinto, con la fantasia, ai confini dell'assurdo, ma ella colse un senso che non avevo inteso dare alle parole, infatti disse:
"Sono d'accordo con te! Per quanto scherzosa, la tua considerazione finale contiene l'affermazione della priorità dei sentimenti nel rapporto di coppia e non può essere altrimenti perché laddove manchi questa priorità il rapporto è di altra natura e il problema delle diversità, di qualsiasi specie, non ha alcun rilievo."
"È così!"
pensai mentre la signora Oriana assentiva col capo.
Nello sguardo di Patrizia, fisso sull'anziana donna, c'era la suggestione del discepolo rapito dal maestro. Restammo, in silenzio, ad aspettare che continuasse la lezione:
"In ogni relazione emergono, inevitabilmente, le diversità che appartengono alle nostre individualità; nel rapporto d'amore, però, esse incidono tanto meno quanto più grande è la disponibilità a donarsi e questa è misura del sentimento che vive in noi. Non esistono incompatibilità aprioristiche ma soltanto la volontà di completarsi a vicenda ed essa è dettata dalla capacità di amare."
Le parole di nonna Rosa risuonarono nella mia mente come un'eco che ritornava alla fonte del pensiero che esprimevano, tanto era forte l'intimo convincimento della fondatezza di quell'affermazione. Sentivo questo mentre lanciavo una nuova sfida a Patrizia, imponendole lo scomodo ruolo della controparte di nonna Rosa.
"Hai capito, bambolina?"
dissi con il piacere sadico del provocatore e, dopo aver lanciato il sasso, attesi la reazione, riparandomi sotto le ali della saggezza della signora Mariano.
Non si lasciò sorprendere Patrizia che, raccogliendo la provocazione, chiese:
"Se non esistono le incompatibilità cos'è che distrugge gli amori?"
Nonna Rosa si concesse una pausa di riflessione, forse pensando che Patrizia non era sintonizzata sulla stessa lunghezza d'onda dei suoi e dei miei pensieri e disse:
"Quando si ama, se è di questo che parliamo, sono sempre gli errori i responsabili della fine di un rapporto, gli errori dettati dall'egoismo, dall'impulso di affermazione della propria personalità che è in antitesi con quella capacità di amare e di donarsi di cui dicevo prima. Questi errori originano dalle strutture sociali, dall'educazione, dalle esperienze di vita e da quant'altro concorre a darci quella personale visione della vita nella quale si forma la scala dei valori che determina le scelte."
Interloquì Patrizia:
"Ma cosa ci permette di capire, prima che sia tardi, se un rapporto merita di essere protetto da questi egoismi o se, invece, dobbiamo proteggere noi stessi dal rischio di annullarci in un rapporto?"
"La risposta a questa domanda l'hai data tu quando hai affermato che il vostro legame è troppo importante per rompersi con una congettura.
Non hai bisogno di capirlo perché lo senti; lo senti nell'incanto che ti avvolge e sul quale non hai alcun controllo.
Quando scocca quella scintilla che ti sorprende e ti travolge, tu non hai fatto niente per averla e niente per meritarla, è solo avvenuto un miracolo che non hai invocato e che non puoi fermare: il miracolo dell'incontro di due persone che si attraggono, un miracolo che si manifesta nell'emozione che ti prende e non ti lascerà più.
Dovunque e in qualunque momento avvenga o si ripeta quell'incontro, l'incanto ti avvolgerà."
Un dubbio mi attraversò la mente, pensando che, a tale stregua, l'amore fosse invulnerabile e chiesi:
"Se questa forza che attrae è così grande e incontrollabile, come si spiega che tanti amori si perdono per strada?"
"L'amore non si perde per strada, caro Emiliano, non se ne va da nessuna parte; se c'è, resta in noi, per sempre. L'amore può solo nascere, non morire, se non con noi. Quello che perdiamo per strada non è l'amore ma la persona amata."
Restai assorto per qualche istante a riflettere, chiedendomi come questo fosse possibile, essendomi del tutto estranea l'idea che un amore potesse sopravvivere ad un rapporto finito e mi dissi che la risposta doveva essere nella qualità del sentimento.
La signora Oriana si alzò e indossò il cappotto. Il treno era ormai prossimo alla stazione di Parma. Si alzò anche nonna Rosa che ci guardò a lungo, accingendosi a salutarci, poi disse:
"Non commettete il peccato di presunzione di ritenere che dovunque possiate trovare ciò che avete già. Guardatevi dal commettere l'errore di cercare altrove ciò che non vedete nel vostro compagno, convinti di trovare sempre anche quello che amate in lui."
Ci strinse la mano e ci augurò una vita felice.
Patrizia l'abbracciò con trasporto e la baciò.
Le accompagnammo in fondo alla carrozza ed io le aiutai a scendere dal treno. Ebbi un momento di tristezza all'idea di non vedere più la signora Mariano mentre, sulla banchina, le dicevo: "Non la dimenticherò."
Esitò un istante e, prima di andare, mi fissò e disse:
"Stai vicino a quella ragazza. Nei suoi occhi c'è la paura di perderti."
Mi sorprese e mi sentii stordito, come colpito da una bastonata senza difesa. Restai attonito sulla banchina a guardarla mentre si allontanava ed esitai a risalire sul treno ma poi pensai che nonna Rosa aveva tratto quella sensazione dall'equivoco nel quale era caduta e dalla sua natura romantica più della mia.


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