Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Romanzo di
Chiara Del Soldato


MAGIA DI UN'IDEA
 
I
 
Carlo bighellona da stamani per casa.
Si è alzato, è andato a fare colazione al bar dell'angolo, ha comprato giornale, sigarette ed è tornato su. Un'occhiata alla prima pagina, una cicca all'angolo della bocca e s'è messo davanti al computer.
Nuovo documento, pagina bianca.
Niente, niente da scrivere.
Eppure è uno scrittore; una volta i suoi personaggi gli balzavano davanti agli occhi con la prepotenza invadente di chi vuol vivere in una storia.
Era perseguitato da loro, che nella sua fantasia diventavano corposi. Lui doveva solo prendere una penna, un foglio bianco e seguirli nei loro movimenti, nelle scelte, nei meccanismi mentali.
E quando scriveva l'ultima parola, l'ultimo punto e si appoggiava soddisfatto allo schienale della sedia, era già da giorni tiranneggiato da altri personaggi, uomini e donne, giovani e vecchi, che lo dominavano, non lo lasciavano in pace.
Da un anno, più nulla. Neppure uno lo svegliava di notte, gli faceva compagnia di giorno, neppure uno stava al suo fianco in macchina, nei viaggi lunghi, a raccontargli la sua storia. La vena creativa s'era seccata. I personaggi avevano cambiato indirizzo: forse stavano bussando ad un'altra porta.
Carlo scrive qualche parola sulla tastiera, qualche riga, poi si ferma, rilegge, cancella.
Si alza di nuovo, va a prepararsi un caffè. Dopo, non sarà cambiato niente, ma almeno saranno passati dieci minuti e magari nel fondo della tazzina apparirà il suo destino. Un destino di solitudine.
Caffè, telefonata ad un amico, che è in vacanza con la famiglia. Così dice la segreteria: ritelefonare a fine mese. E intanto? Carlo torna al computer, con la stessa sensazione di fallimento, di inutilità, di vuoto. Collegamento a Internet: forse c'è un messaggio nella posta. Nessun messaggio in arrivo.
Carlo chiude la posta e comincia a navigare, veleggiando di porto in porto…guarda un po' dov'è finito, nella vetrina dei giovani scrittori. Ecco, si presentano: sono giovani, giovanissimi, pieni di speranze; magari non saranno mai nessuno, però quante idee, quanto entusiasmo! Illusioni da vendere, idee da vendere.
Navigare per trovare un'idea…un'idea minuscola, insignificante, un'idea che poi germogli, diventi grande, produca frutti. Lui li raccoglierà e ne farà un bel cesto per il suo pubblico, che lo aspetta. Un cesto, come quelli natalizi, tutti colorati, con belle mele lucide rosse, come quella che deve aver dato Paride a Venere o la strega a Biancaneve.
Lucide e rosse e grandi e tutte uguali, clonate, che sembrano finte. E poi arance perfette e kiwi e mango e un bell'ananas in mezzo, da aprire nel pranzo di Natale.
No, niente, questa non è un'idea, è spazzatura… Persone, Carlo vuole persone, storie, sentimenti veri, buoni o cattivi, purché veri, non finti e artificiosi, come quelli del suo ultimo libro. Un fiasco.
Critiche negative a pioggia. Stroncature giuste.
…l'autore ha supplito alla mancanza d'ispirazione con un'abilità tecnica sofisticata…
...virtuosismi barocchi per un linguaggio anticonvenzionale, ma poco sentimento…
…cambi continui di prospettiva e relativismo conoscitivo… sì, ma che caos!
E il pubblico? Manco a dirlo, non l'aveva capito. E che c'era da capire se non che l'autore non sapeva più cosa scrivere, non aveva più nulla da dire?
Carlo doveva assolutamente riscattarsi.
Si alza di nuovo e va a prepararsi un panino. Pane un po' duro, quasi secco, riempito con un rimasuglio di prosciutto. Nostalgia di altri panini, di altre merende, flash di situazioni vissute, risate, canzonature.
Esce nel terrazzo, nell'aria sonnolenta di mezzogiorno. Già mezzogiorno? Un'altra mezza giornata persa nell'attesa di un'idea; magari è tra questi alberi, qui davanti, è tra quelle nuvole laggiù, è in quel filo d'erba piegato dal vento, in quel fiore impettito. Forse, ma Carlo non la coglie, non la sente, non la vede. L'idea non c'è, manca la magia.
Torna dentro. Prende carta e penna.
 
 
Roma, 20 luglio
 
Caro Alberto,
è tanto che non ti scrivo, che non ti sento, ma arriva sempre il momento in cui bisogna riallacciare i legami; con un fratello, poi…
Lo so come ci siamo lasciati l'ultima volta, mesi fa; la responsabilità fu mia. Fui io a dire cose che non vanno dette mai, nemmeno per scherzo, nemmeno ad un fratello.
Tu, un fallito! Cosa mi venne in mente?
Volevo ferirti, perché tu avevi ferito me, perché mi avevi dato del Peter Pan, che non vuol crescere, non vuol prendersi le responsabilità, non vuol accettare di invecchiare.
Non una parola di comprensione da parte tua ed eri mio fratello!
Mi ero aspettato almeno che tu cercassi con me il motivo del mio comportamento, del mio avvinghiarmi alla giovinezza, come fa un bambino piccolo con la mamma, quando si trova in mezzo a tanta gente.
Sì, la paura di invecchiare mi attanaglia ora, come allora, da anni ormai; la paura di vedermi la pelle flaccida sotto l'avambraccio, dentro le cosce, sotto il mento, e le rughe, le maledettissime rughe intorno a gli occhi.
Paure da donne, mi sembra di sentirti dire. Eppure a me capita ogni giorno, quando mi guardo allo specchio, ogni volta in cui mi sono accorto che i figli crescevano, che mia moglie aveva l'aria stanca e le appariva quella brutta piega tra gli occhi, sul naso, quando le ho visto cambiare il colore dei capelli per mascherare i fili bianchi e, guardando meglio, li ho trovati anche tra i miei; ho paura d'invecchiare, di perdere quest'aria da eterno ragazzo, che è sempre piaciuta alle donne. Aria leggera e scanzonata, che ha conquistato anche lei, mia moglie, portandola via a te, che la corteggiavi invano.
Sono convinto che non me l'hai mai perdonato, ma lei non era tua e mai lo sarebbe stata.
Eravate troppo diversi e lei non è mai stata attratta da tipi come te, razionali, con i piedi per terra, quasi cinici, anche un po' masochisti nel voler trovare il male nel comportamento di ognuno.
Lei era un angelo ed aveva bisogno del suo cielo blu, del sole dorato per vivere: ero io quello, pieno di sogni, di speranze, di fiducia cieca nel genere umano. Ero io l'altra metà della sua mela.
Ma ora sono una mela marcia e tu non puoi non avere pietà di me, della mia fine; non puoi non perdonarmi, ora che sono la prova vivente del fatto che, se Benedetta avesse sposato te e non me, sarebbe felice, avrebbe una famiglia unita, due figlie affezionate.
Ma non ti ho scritto per rinvangare cose che conosci bene e che, anche se sotterrate, possono ancora far male. Ti ho scritto, perché sono finito come scrittore.
Sì, quel venditore di best sellers che ti ha dato del fallito, dall'alto della sua presunzione, quello scrittore che ti ha rinfacciato la tua vita borghese, mediocre, inquadrata, rivendicandosi il diritto di essere fluttuante come l'esistenza e per questo capace di rappresentarne la magia, sì, quello scrittore che, terrorizzato dalla vecchiaia, correva dietro alla giovinezza, mettendo a repentaglio tutto ciò che aveva, da un po' di tempo non ha più nulla da dire.
Anche l'ultimo libro, hai visto, è stato un fiasco: non c'era niente di affascinante. Erano seghe mentali, solitarie e sterili, che non sono piaciute a nessuno, perché nessuno ci si è ritrovato. Tu mi avevi avvertito!
Ora mi servirebbe una storia vera.
No, ti prego! Non dirmi che sono il solito opportunista, che tutto il discorso precedente è stato un lamentevole e viscido preambolo per arrivare al sodo. Sì, lo so che tu pensi che la molla dell'agire umano sia esclusivamente il tornaconto personale.
Ti ricordi le nostre discussioni? Tu dicevi che ognuno di noi agisce solo in vista di una gratificazione sua propria: arrivasti a dire che Dio creò l'uomo per compiacersene, che i martiri si fecero sbranare per guadagnarsi la vita eterna, che Maria Teresa di Calcutta pensava agli umili per farsi bella agli occhi del Creatore. Non esiste per te nessuna azione fatta per puro amore? C'è sempre l'obbiettivo di un compenso, di un guadagno magari solo morale, di un vantaggio spirituale, di un do ut des sofisticatamente immateriale?
Figurarsi se scendiamo tra noi, poveri esseri mediocri, che non aspiriamo a tanto!
Se uno ti segue nelle tue elucubrazioni, non può che autodistruggersi.
Comunque, sono disperato ed ho bisogno di te. Pensa quello che vuoi!
Tu eri la mia musa, la parte di me concreta, eravamo dialettici io e te, uniti in un magico destino di reale e ideale, concretezza ed evanescenza. Ora sono come il Visconte dimezzato di Calvino; chi di noi due sia il buono e chi il cattivo, non lo so, però.
Certo, per la società tu sei quello riuscito meglio, perché hai rispettato i parametri tradizionali. Hai una bella famiglia, tu e Gaia vi volete bene, hai dei figli praticamente perfetti, un lavoro che ti dà soddisfazione.
Io sono un puttaniere, che corre dietro alle giovani ragazze, meglio se mie alunne, sono un irrequieto che ha distrutto la sua famiglia. Ma ad un artista è concesso d'essere diverso, no? Cerco di convincermene, ma non sono sicuro.
Però non credo che tutto il buono sia finito in te e il male in me, ti pare?
Insomma, il problema resta. Devo riscattarmi con il prossimo romanzo, altrimenti sarò un fallito anche da questo punto di vista, ma non so cosa scrivere. Sono settimane che cerco un'idea e non la trovo. Come quando cerchi la donna della tua vita e non c'è da nessuna parte. Poi, magari, quando non ci pensi più, la trovi.
Ma io non posso aspettare, ho un contratto che mi sta sul collo come una spada di Damocle. Tra quattro mesi devo presentare il romanzo e, ti giuro, non so dove mettere le mani.
Potrei usare il jolly, come accade in tutti i giochi, che si rispettino; perché la vita è un gioco come un altro. Ti possono capitare carte migliori o peggiori, ma la partita è una sola. Io ho un jolly, ma non vorrei usarlo. Tutti gli scrittori lo hanno, ma non si decidono a sfruttarlo, se non in situazioni estreme, quando stanno per annegare o essere mangiati dal pescecane.
Qual è il jolly? Narrare la propria storia.
Quando la fantasia è prosciugata, quando l'esperienza non ti aiuta più a creare personaggi affascinanti, perché li hai bruciati tutti, tiri fuori l'ultima carta: parli di te, ti metti in piazza, poi inserisci qualche scena erotica, per accontentare i guardoni, ed il successo è garantito. Il tuo pubblico compra, per conoscere i retroscena della tua vita, i tuoi amori, curioso come quando legge un giornale scandalistico.
Insomma, sono a questo bivio: scrivere un altro romanzo surreale, lontano dalla vita vera, che forse qualche critico leggerà come espressione della difficoltà del vivere di oggi, ma nessuno amerà, o giocare il jolly.
Ho paura, però. Paura di vedermi nero su bianco, come non mi sono mai voluto accettare, paura di sottoporre al microscopio sentimenti e di scoprirli, come tu hai sempre detto, guidati da egoismo, gelosia, immaturità, presunzione.
Forse verrebbe fuori un bel libro, ma io ne uscirei distrutto, senza più i puntelli dei miei autoinganni. Che ne dici? Semmai inizierei parlando di un professore universitario, angosciato dall'idea di invecchiare.
So che non risponderai una riga a questo sproloquio. Forse con una smorfia strapperai la busta, senza nemmeno aprirla, dicendo a Gaia che lo stronzo di tuo fratello deve aver bisogno di qualcosa.
Invece ti voglio bene, nonostante tutto, e tutt'al più ti invidio, perché hai tutto quello che mi manca. Il vero fallito sono io

tuo Carlo

 
Carlo, senza rileggere la lettera, la piega, la ripone in una busta e la appoggia al computer. Poi si siede davanti alla tastiera e inizia a scrivere, con foga, senza guardare lo schermo, tutto concentrato su quel punto intenso che sente accendersi dentro di sé.
Il titolo? Perché non usare la famosa frase del Magnifico -Quant'è bella giovinezza, che si fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia, di doman non c'è certezza-?
Baleno, saetta, scarica elettrica, guizzo rincorso perché non svanisca, perché non si perda nel buio del nulla.

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agg. 22-04-2003