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cover di Apocrifia

Prefazione di
Bianca Cerulli
 
 
Prima di incominciare la lettura di questa seconda fatica del giovane poeta siciliano Davide Malandrino è d'obbligo avvisare il lettore che dovrà armarsi di vocabolario e di una buona dose di pazienza. Già dal titolo aspro e inusitato, infatti, la raccolta si preannuncia difficilmente accessibile; l'impressione è poi confermata dalla lettura delle singole poesie, la quale impone, per essere portata a termine, un bagaglio di conoscenze lessicali certo non comune.
Viene da chiedersi per quale motivo un ragazzo - perché tale è il Malandrino - abbia scelto di rivestire la sua ispirazione di versi tanto complessi ed elaborati, andando vistosamente (e certo deliberatamente) controcorrente rispetto ad alcune tendenze di tanta parte della poesia moderna: l'uso di un linguaggio semplice, quotidiano, financo tratto da gerghi professionali o da circuiti sicuramente "antipoetici" (come quelli della burocrazia o della pubblicità); l'adozione di moduli espressivi trasparenti, di una versificazione a rime sciolte libera dai rigidi vincoli della metrica; infine, la "delega" al piano del significato di tutto quanto si vuole esprimere nella poesia, lasciando libero il significante (cioè le scelte della struttura compositiva e dello schema ritmico) di assumere, come si diceva, forme più accettabili anche a un pubblico di non addetti ai lavori.
Verrebbe da rispondere che Malandrino dichiara in tal modo la volontà di chiudere se stesso e la sua poesia in un mondo artificiosamente letterario, privo di ogni contatto con la realtà. È una scelta come un'altra, e il giovane poeta non è certo il primo a percorrere la strada dell'incomunicabilità. Una scelta che, d'altra parte, impone da sé un altro quesito. Se la poesia si vieta a priori ogni possibilità di contatto col mondo, che le resta? Non rischia di diventare un gioco, prezioso quanto si vuole, ma comunque arido, freddo, privo di vita? Se poi spingiamo queste considerazioni al limite estremo, diventa incomprensibile il motivo per cui queste poesie vedono la luce. Esse vengono stampate e pubblicate con il chiaro intento di essere rese pubbliche e quindi divulgate, lette da più persone. E questo è del tutto normale: nessun poeta scrive esclusivamente per se stesso, per quanto ardua ed elevata possa essere la sua concezione di poesia. La poesia è una forma di comunicazione, potente e sintetica, e nasce perché altri la possano leggere, sentire, meditare; perché altri vi si possano immergere sentendone il battito.
Proviamo allora a dare per scontata una sia pure nascosta volontà di comunicazione e passiamo ad esaminare alcuni aspetti della raccolta. Proprio l'estrema ricercatezza di questi versi mostra come essi siano attentamente costruiti, con cura e pazienza; certamente con un duro lavoro. Fanno pensare che il poeta vi abbia dedicato ogni sua energia. E già questo potrebbe gratificare un lettore stanco di tanti dilettanti allo sbaraglio che improvvisano senza un minimo di autocritica. Con questa considerazione abbiamo fatto un primo passo in avanti sulla strada della comprensione: non abbiamo ancora stabilito un dialogo aperto, ma è chiaro che Malandrino ha sufficiente rispetto e attenzione per i suoi lettori da cercare per loro il meglio, mettendosi in gioco in prima persona.
A questo punto la difficile architettura di questi versi può assumere un diverso significato: non di isolamento letterario ma di sfida. Come se il poeta volesse sottrarre i suoi versi alla lettura dei frettolosi e dei distratti (i quali dopo la prima poesia chiuderanno il libro senza rimorsi) riservandoli, al contrario, agli appassionati disposti a fare la fatica di seguirlo passo passo, lentamente, nelle sue acrobazie verbali. E man mano che le poesie della raccolta si dispiegano emergono, già ad una prima lettura, particolari confortanti, come fossero ammiccamenti del poeta che si affaccia dai suoi versi per sussurrarci: per di qua, venite, di qua si entra. Spesso queste scorciatoie si trovano poste in fin di poesia, a riprova che Malandrino chiede soprattutto tenacia. Un esempio? L'ultima strofa della poesia XVI: «Ai poeti io declino l'onore / poiché ambirono nella lena / deliri per rissoso dolore / un sollievo all'inclita pena / intinsero lo stilo nel vino». Il vino dà ebbrezza, euforia, allegria. Ci sorge il dubbio che il giovane siciliano si sia anche francamente divertito nella composizione dei suoi versi: ci sono giochi (come il nome nascosto nella poesia III), sonorità deliziose (tinnanti nicchiando), ricercatezze retoriche che tradiscono un vero gusto per la composizione (si veda ad esempio la poesia XLVIII) e, anche, una buona preparazione. Si capisce che Malandrino, oltre che poeta, è attento lettore di poesia. Ai suoi "padrini", dichiarati e amati, sono dedicate poesie (sullo stile dei «Tombeau» di Mallarmé) drappeggiate intorno alle loro figure con sensibilità e attenzione per la vita e lo stile di ciascuno (non sfugga che Baudelaire riceve un sonetto, Corazzini versi sciolti).
La raccolta si chiude, significativamente, con una poesia scritta in occasione della visita alla città natale di Rimbaud. I suoi ultimi versi suonano come un omaggio a Rimbaud e un monito a chiunque cerchi di intraprendere il difficile mestiere della poesia: «...e che Poeta è colui che si trascina / per metà della sua miserevole vita / terrena nella fredda e tormentata / convinzione di non avere da essere / un martire sconnesso della Verità. / All'altra metà, in genere, / non è solito arrivare».
 

 

Bianca Cerulli

 

 
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Inserito 6 novembre 1997( 10 p, au)