- Il PIÙ BEL
TIRO DI GIUGIA
- di Aldo
Cirri
-
- Era una
squadra di provincia, o meglio, era una squadra
isolana, di una di quelle piccole isole non lontane
dalla costa, che anche se non vivono lontanissime
dal continente, risentono comunque della malinconia
dei seppur brevi, ma solitari inverni e dei giorni
umidi in cui un libeccio ostinato ricopre di
salsedine uomini e cose. Giocava in seconda
divisione, ma aveva conosciuto tempi splendidi in
cui era arrivata i testa alla classifica delle
interregionali, aveva avuto giocatori notevoli e
tecnici di valore, e tutto questo quando ancora non
possedeva un campo di erba, ma una specie di
pianoro di un'orrenda terra battuta, quando in
Italia non esistevano né moduli, né
doping ma solo terzini, mediani, mezzeali,
centravanti e sudore
tanto sudore. Per noi
ragazzini, che andavamo a seguire la squadra quando
giocava in casa (nessuno poteva permettersi di
seguire le trasferte) e più di una volta
c'eravamo ritrovati aggrappati alla recinzione,
senza voce dal troppo urlare, sicuramente
l'attività preferita era mettersi dietro al
portiere della squadra avversaria e sfotterlo fino
a fargli fare qualche papera. Quando uno dei nostri
giocatori subiva qualche fallo e rimaneva a terra,
scoppiavamo all'unisono in un grido: "Dollaro!!!".
"Dollaro" era il soprannome del massaggiatore della
squadra, non so chi e perché gli avesse
affibbiato quel nomignolo e non ricordo neanche
quale fosse il suo vero nome, ma chissà
perché i soprannomi sono sempre
maledettamente azzeccati e il meschino che se lo
ritrova sulle spalle, robuste o no, non se lo
scrolla più di dosso. Nei piccoli paesi la
gente è conosciuta per soprannomi: Caccola,
Pandoro, Cannavota, Pirulé, ecc. sono degli
epitaffi, delle etichette, dei termini di
riconoscimento, essenziali per spettegolare, vitali
per sparlare, insostituibili per molestare, ma come
l'anima vanno oltre la morte e con poche sillabe
ricordano ai nostri posteri il personaggio a cui
erano appartenuti senza il bisogno di raccontarne
per intero la storia. Dollaro era un tipo
corpulento e quando veniva richiesto il suo
intervento partiva da bordo campo con il secchio e
la sua famosa spugna, la sua corsa e il ballare
della sua ciccia venivano accompagnati dal nostro
tifo. Ho parlato della sua famosa spugna: si dice
che contenesse due litri d'acqua misurati, nessuno
ha mai saputo dove se la fosse procurata, fatto sta
che Dollaro, ansioso di prestare la sua opera,
sparava spugnate a destra e a manca. Una volta
arrivò trafelato di gran carriera alle
spalle di un giocatore e, mentre questi piegato in
avanti si massaggiava uno stinco dolorante, gliela
tirò tra capo e collo facendogli fare una
doccia fuori programma: lo sfortunato
spalancò gli occhi e la bocca, non tanto per
l'improvvisa doccia, quanto perché
l'episodio avvenne in uno dei giorni della Merla,
cioè in pieno gennaio con cinque gradi sopra
lo zero. Ma Dollaro non era il solo dei tanti
personaggi dello sport paesano. Molti nomi della
prima squadra passavano davanti agli occhi di noi
ragazzini, specialmente quando cominciammo a
lasciare le spianate e i prati a ridosso del
cimitero, ed entrammo in campo, nel campo vero,
quello grande, quello dove non si tiravano dei
semplici calci, ma si giocava a pallone, dove per
la prima volta ti infilavi le scarpe di cuoio con i
tacchetti. Un personaggio in particolare ci rimase
nel cuore, si chiamava Giugia (ovviamente questo
era il suo soprannome) giocava in prima squadra e
nella società sportiva aveva voluto
occuparsi di allenare i ragazzi, per noi quindi era
una specie di idolo: un giocatore titolare tutto
nostro! Giugia, nonostante la sua giovane
età, aveva pazienza e cercava di
trasmetterci la tecnica e il gioco senza strafare,
noi pendevamo sempre dalle sue labbra e quando la
domenica giocava il campionato al Comunale, eravamo
sempre lì, attaccati alla recinzione, a fare
il tifo per lui, rischiando di farsi strappare i
pantaloni dal custode del campo che, ogni tanto,
passava sotto il reticolato e ci obbligava a
scendere bestemmiando e strattonandoci per i
calzoni. Giugia era bravo. Giocava nel ruolo di
mezz'ala destra e tirava certe staffilate di
sinistro (così chiamavamo i tiri tesi e
violenti) che quando passavano vicino alle tribune
con il risucchio spettinavano mezza tifoseria, ma
quello che a noi piaceva era la sua maniera di
bloccare la palla, il suo stop a seguire aveva del
capolavoro: per un momento sembrava l'avesse persa,
un attimo dopo te lo trovavi venti metri avanti con
la palla attaccata al piede senza che avesse
rallentato un secondo. Si sapeva che qualche
società importante ci aveva messo gli occhi
sopra, qualcuno diceva che Giugia aveva già
firmato un contratto milionario (allora quelli
miliardari erano di là da venire), qualcun
altro aveva mormorato addirittura la parola
Juventus. Ma Giugia alla Juventus non ci
arrivò mai. Non arrivò neanche ai
venticinque anni, una malattia innominabile se lo
portò via prima. Giugia se ne andò in
un'età in cui gli unici dolori concepibili
sono una scarpata sul ginocchio, in seguito a un
fallaccio nell'area di rigore, o una ragazza che ti
lascia perché non le vai più a genio.
Soffrimmo. In qualche modo soffrimmo. Soffrimmo nel
linguaggio dei ragazzini: senza lacrime, perplessi
e disorientati. Non dimenticammo quel ragazzo che
ci faceva entrare nel campo grande e che faceva
esplodere tutti il nostro orgoglio facendoci
correre nel tempio dedicato al calcio. Nessuno ci
fece più entrare nel campo grande, nessuno
si prese la briga di addestrarci a tirare calci a
un pallone, nessuno ci avrebbe insegnato il famoso
"stop a seguire" di Giugia. Ci rassegnammo,
scovammo un prato dietro il muro del cimitero
comunale, lo ripulimmo dalle erbacce e continuammo
a giocare lì. Qui occorre fare una
parentesi: quando il campo grande fu realizzato la
prima volta (quasi settant'anni fa) l'unico spiazzo
degno di un campo di calcio era posto in una
piccola valle di campagna, tra i due cimiteri del
paese, nessuno se ne preoccupava, nessuno era
superstizioso, perché in questo il calcio fa
miracoli, e i vivi, nonostante la vicinanza dei
morti, continuarono a seguire le partite. Nessuno
dubitò mai del fatto che entrambe le
categorie si divertivano come matti. In parole
povere la prima squadra, come numero, aveva una
tifoseria da San Siro, anche se più
silenziosa. Quindi per noi ragazzini patiti di
calcio, una volta spodestati dal campo grande, era
logico continuare a rimanere nei dintorni, era
impensabile andare a giocare da un'altra parte,
quello era il Comunale, il campo grande, un giorno
saremmo rientrati a giocare sulla sua terra, per
questo dovevamo stare nei dintorni, non potevamo
essere assenti quando l'occasione si fosse
presentata. A una cosa non riuscimmo ad abituarci:
il pallone. Prima di entrare nel campo grande
giocavamo con pallonacci di gomma, quando Giugia ci
fece giocare con quello di cuoio ci sembrò
di sognare, così dopo che Giugia se ne
andò e ci ritrovammo nel campetto dietro il
cimitero, mettemmo insieme i nostri risparmi e ci
comprammo un magnifico pallone di cuoio
regolamentare. Non era come giocare nel campo
grande, ma dava la sensazione di giocare del calcio
vero. Il fatto accadde forse un anno e mezzo dopo.
Era la fine della primavera, faceva caldo, fra poco
avremmo lasciato il nostro campetto per andare a
scorrazzare sulle spiagge, giocavamo già da
una mezz'ora schiamazzando come pollastri ed
eravamo sudati fradici, a un certo momento ci fu
una mischia al centro, poi una pedata più
forte delle altre colpì la palla che
volò dritta in alto, venti paia di occhi
seguirono la parabola che, vigliacca, la
spedì al di là del muro del cimitero.
La palla ruppe il vetro di un lucernario e
sparì all'interno di uno dei padiglioni
nuovi. Ci guardammo sgomenti. Se ci beccava il
custode del cimitero erano guai. L'istinto fu
quello di scappare. Poi qualcuno di noi
ricordò che a quell'ora il cimitero era
chiuso, non volevamo perdere il pallone, era
costato tutti i nostri risparmi. Conoscevamo un
punto dove si poteva scavalcare il muro e andammo
tutti a caccia del pallone. Una volta dentro il
cimitero cercammo di stabilire dove potesse essere
caduto, entrammo nel padiglione nuovo e dopo poco
individuammo il lucernario rotto. I vetri giacevano
sul pavimento, ma della palla nessuna traccia.
Cercammo ancora. Poi qualcuno ci chiamò,
accorremmo tutti, Giorgio l'aveva trovata: si era
infilata tra il marmo di una tomba e la grande
lampada votiva piegandone il supporto e rimanendo
incastrata, alzammo gli occhi, era la tomba di
Giugia. Nessuno parlò, nessuno la
toccò, ci sembrò impossibile che
fosse successa una cosa del genere, di una cosa
fummo sicuri: nessuno di noi avrebbe mai più
giocato con quel pallone e noi non tornammo
più su quella tomba. Giugia aveva diritto
anche lui al suo pallone. Arrivò l'estate.
L'episodio restò per parecchio tempo
argomento di conversazione, quando in autunno
tornammo a giocare nel campetto a ridosso del
cimitero, vedemmo che il vetro del lucernario era
stato sostituito, ma non andammo a vedere che fine
avesse fatto il pallone di Giugia. Mettemmo ancora
mano ai nostri risparmi e riuscimmo a comprarci un
nuovo pallone, ricominciammo a giocare e
ricominciammo a seguire la squadra nel campo
grande. Crescemmo ancora un po'. Il ricordo del
fatto del cimitero sfumò appena, ma non fu
dimenticato, il nuovo pallone rischiò
più volte di andare al di là del
muro, ma forse eravamo diventati un po' più
bravi e riuscimmo a evitare che accadesse. Un
giorno, in una partita più accanita delle
altre, si formò l'ennesima mischia a
centrocampo, solita ressa di calci, soliti urli e
bestemmie e solita pedata fortuita che
riuscì a spedire il pallone oltre il muro
del cimitero. La palla ruppe di nuovo il lucernario
del padiglione nuovo e sparì dentro. Un
silenzio glaciale stese il suo velo su tutti noi.
Continuammo guardare imbambolati il lucernario
rotto senza riuscire a pensare a qualcosa di
logico, questa volta nessuno avrebbe avuto il
coraggio di andare a vedere dove fosse finito il
pallone, poi qualcuno dietro di me mormorò
"No Giugia, non ti puoi tenere anche questo!" Ce ne
stavamo lì attoniti ad aspettare che
accadesse qualcosa. E qualcosa accadde. Accadde una
di quelle cose da "Domenica del Corriere": un altro
lucernario andò in frantumi e una specie di
siluro volò alto nel cielo, compì
un'immensa parabola e andò a cadere a
ottanta metri da noi, al centro del Comunale: era
il nostro pallone. Rimbalzò una decina di
volte nel campo e poi si fermò. Rimanemmo un
quarto d'ora a bocca aperta senza dire una parola,
poi ci avvicinammo alla recinzione del Comunale
osservando la palla come se fosse un'astronave
aliena. Ci voltammo di nuovo a guardare verso il
cimitero giudicando la distanza, non avevamo dubbi:
quello fu il più bel tiro di Giugia.
Applaudimmo sorridendo. Dopo quella volta ci fu
permesso di giocare di nuovo nel campo
grande.
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