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- Questo
libro è composto da sei brevi racconti
ognuno con una sua tematica di fondo: il tentativo
di combattere la solitudine con un gatto stralunato
che sarà chiamato Fido, tipico nome per un
cane. Incontri imprevisti con diverse tipologie di
donne e i ricordi adolescenziali tra discoteche e
spericolate corse in auto con tutte le inevitabili
conseguenze.
- Le
storie essenziali ed intriganti scorrono veloci e
si fanno leggere tutte d'un fiato in una
sera.
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Massimo
Barile
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- Racconto
felino
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- Si
chiamava Fido, così l'aveva chiamato il suo
padrone perché più che ad un gatto
somigliava ad un cane. Sperava soltanto che il buon
Dio, che non si dimentica mai degli animali, ma che
forse a volte, li preferisce agli uomini, gli
avesse dato le sue belle sette vite, che spettano
di diritto ad ogni gatto.
- Ci
sperava tanto, anche se, pensava che qualcuna se
l'era già giocata ed anche male.
- "Vero
Fido che sei un po' scemo?", gli diceva sempre il
suo padrone. Ma lo diceva con bontà,
accarezzandogli il pelo, lui per tutta risposta gli
tirava fuori le unghie affilate e pungenti a
ricordargli che non era un cane ma un gatto vero,
ma non infieriva, perché anche a lui faceva
un po' di pietà.
- Il
suo padrone era infatti un tipo solitario, si era
da tempo separato e lo aveva comprato
affinché gli facesse un po' di compagnia. Si
ricordava ancora di quando era andato a comprarlo:
lo aveva visto, era stralunato, gli occhi tristi,
la testa bassa, stava passando davanti alla vetrina
del negozio quando lui lanciò un miagolio;
lo vide, era un piccolo gattino secco e
spelacchiato, gli fece un po' di pena ma
entrò ugualmente nel negozio e chiese:
"Quanto costa?". "Niente, glielo regaliamo",
rispose cortesemente la commessa.
- Lui
per tutta risposta vide la porta del negozio
accostata e svicolò fuori rischiando di
essere travolto da un'auto di passaggio. Già
una vita se la giocò allora, per fortuna la
commessa che lo conosceva riuscì a farlo
tornare mostrandogli una fettina di
salmone.
- "Sa,
riprese la commessa, è un gatto selvaggio ma
non si accontenta di pesce comune, gli piace solo
il salmone".
- "Accidenti,
rispose lui, mi manca solo un gatto dai gusti
difficili e sono a posto".
- "Perché
- riprese lei - non le sta simpatico?"
- "Sì,
sì per essere simpatico è simpatico,
ma quanto mi verrà a costare?"
- "Ma,
poco, lo sa perché..."
- "Perché?"
disse lui.
- "Perché
mangia pure le ossa".
- "No,
non è possibile" pensò
lui.
- "Ora
mi chiamerà Fido", pensò il gattino
nel frattempo, che con il suo istinto felino e con
la sua bontà canina aveva già capito
tutto.
- "Fido,
lo chiamerò Fido", pronunciava a bassa voce
lui, mentre il gatto chiuso nella gabbietta
miagolava in continuazione.
- "Sì
- continuava a pensare - è un nome che gli
si addice". Intanto era già arrivato a casa,
aprì la porta e gli disse: "Questa adesso
è la tua casa".
- Fido
smise di miagolare, si guardò intorno e vide
che la casa era spaziosa, il che andava bene per un
gatto un po' selvaggio come lui. Alle finestre vi
erano anche delle tende che erano l'ideale per
grattarsi le unghie ed anche numerosi divani e
sedie dove dormire tranquillamente.
- "Niente
male nel complesso" pensò Fido, sul retro
della casa vi era anche un giardino dove avrebbe
potuto fare i suoi bisogni, perché d'altra
parte, non era mica fatto di stoffa.
- E
c'era anche una sorpresa: una bella scala che
portava su nel tetto dove avrebbe potuto
passeggiare nelle notti d'estate.
- Non
avrebbe potuto chiedere di meglio, c'era una sola
cosa che non andava: non conosceva ancora bene il
suo padrone.
- Questa
era la cosa più importante, perché da
lui dipendeva la sua esistenza, pensava saggiamente
Fido.
- Il
padrone sembrò quasi intuire il suo
pensiero, aprì il frigorifero e gli diede
una fettina di salmone che era rimasta. Fido li per
lì storse la bocca ma tutto sommato gli era
andata bene perché sempre salmone era. Ormai
s'era stabilito un buon rapporto, tra lui e Fido,
tanto che questo cominciò ad annusare un po'
dappertutto.
- "E
questo sarebbe un gatto selvaggio", pensò ad
alta voce lui.
- Fido
si strofinò allora alla gamba del suo
padrone con la coda alzata e facendo le fusa; ormai
si volevano bene ed erano diventati
amici.
- Saltò
subito sul divano e si accovacciò leccandosi
il pelo, lui lo guardava pensando a volte che fosse
la reincarnazione di un uomo vissuto nel passato
chissà come e chissà quando e
pensò a se stesso se morendo sarebbe
diventato un gatto o magari donna o forse meglio
un'anima del paradiso o del purgatorio.
- Se
l'era fatte spesso queste domande quando si era
separato da sua moglie e dai suoi figli, prima era
impegnato con la sua famiglia, ora aveva tanto di
quel tempo libero che centinaia di pensieri gli
attraversavano la mente.
- Fido
si continuava a leccare il pelo e lui lo osservava
invidiando la sua condizione di animale forse, per
certi versi, migliore di quella di un
uomo.
- Fido
lo guardò, poi girò la testa vide la
porta aperta e scappò: forse per davvero era
troppo selvaggio.
-
-
- Alba
magica
-
- Era
mattina. Il chiarore dell'alba illuminava la
città ancora semideserta. Le luci dei
lampioni si riflettevano sulle pozzanghere d'acqua
lasciate dalla pioggia notturna. Gli ultimi sprazzi
di nebbia si scioglievano ai primi raggi di sole.
Tutto sembrava irreale, perfino lo scampanellio
delle biciclette sembrava provenire da lontano.
Eppure la città si stava svegliando,
stancamente come ogni mattina. Il panettiere alzava
la serranda del negozio, dopo aver passato parte
della notte al lavoro nel retrobottega, ed i primi
avventori potevano sentire l'odore del pane fresco
uscire ed inondare l'aria.
- Il
tabaccaio con la sua solita sigaretta in bocca
avvolto in una spirale di fumo si disponeva dietro
il suo bancone in attesa dei primi accaniti
fumatori. Le massaie con sottobraccio le loro
sporte, si avviavano verso i banchi appena
approntati del mercato. Insomma era una giornata
qualunque, di un mese qualunque, di un anno
qualunque.
- Anche
per Ernesto iniziava una giornata di dura
fatica.
- La
sveglia con il suo bip bip, suonava in
continuazione, ma Ernesto non ne voleva sapere di
alzarsi dal letto. D'improvviso, entrò in
camera sua madre:
- "Alzati
che fai tardi" gli disse con tono
deciso.
- "Guarda
mamma - rispose - oggi non ho voglia di andare a
scuola".
- "Ma
come, sei stato a casa tre giorni con la scusa di
essere malato perché mi avevi detto che
avevi una interrogazione da preparare".
- "Sì,
è vero, ma oggi devo partire".
- La
madre trasalì: "E dove devi andare?" chiese
concitata.
- "Devo
andare a Londra".
- "Come
a Londra, questa è bella! E che ci vai a
fare a Londra?" continuò.
- "Sai
- rispose - quegli amici di cui ti avevo parlato
tempo fa, che avevo conosciuto in viaggio l'anno
scorso?"
- "Sì,
ricordo, quelli che avevi conosciuto a
Milano".
- "Sì,
loro, mi hanno invitato in una loro casa che hanno
preso in affitto in Inghilterra".
- "Vai,
vestiti, non dire scempiaggini".
- Ernesto
desistette, sua madre non poteva capire quello che
gli passava per la testa. Lui aveva deciso, voleva
andare a fare fortuna a Londra, gli avevano detto
che lì la vita era più facile, che le
ragazze erano disponibili, che la vita era
più bella.
- Sua
madre l'avrebbe sicuramente cercato tramite Chi
l'ha visto? Già si vedeva, la sua foto sullo
schermo del computer, con la barba lunga e le
occhiaie. Ma cacciò questi pensieri dalla
mente e si avviò verso la stazione dove
l'attendeva il suo solito treno.
- Ma
stavolta non sarebbe sceso alla prima fermata
assieme ai suoi compagni di scuola, avrebbe tirato
dritto fino al capolinea dove avrebbe preso il
treno per Londra.
- Era
fatta, i suoi compagni erano scesi alla fermata che
conduceva alla scuola, ormai non poteva più
tornare indietro.
- Affacciandosi
dal finestrino vedeva la campagna ancora avvolta
nella nebbia mattutina, filari di alberi scorrevano
davanti ai suoi occhi, sembravano anch'essi irreali
come i momenti che stava vivendo in questo istante.
Ripensava alla sua vita passata, a come i suoi
genitori lo avevano accudito sin da bambino, ai
compagni di giochi della sua infanzia, alla sua
ragazza che forse, adesso, si chiedeva come mai non
fosse venuto a scuola proprio oggi, il giorno della
sua interrogazione; ma era contento lo stesso, si
sentiva finalmente libero, libero su quel treno che
correva nella campagna ormai già rischiarata
dal sole dell'alba.
- Mentre
questi pensieri gli affollavano la mente,
entrò nello scompartimento un anziano
signore, il sigaro in bocca che emanava miasmi
tremendi, pulì il sedile e si
accomodò a sedere.
- Ernesto
lo guardava mentre apriva il giornale e ne
sfogliava le pagine con fare metodico e
preciso.
- Si
fece coraggio e gli chiese:
- "Dove
finisce questo treno?".
- Il
signore lo guardò e gentilmente
rispose:
- "A
Milano".
- Milano,
pensò, sto andando a Milano, la
città, anzi la metropoli italiana. Ad un
certo punto, però, un dubbio lo
assalì: Ma che ci faccio a Milano?,
pensò tra sé, non conosco nessuno,
non so dove andare. Non si preoccupò del
fatto più di tanto.
- L'importante
era andare da qualche parte: Milano, Monaco,
Parigi, Londra. Sì, l'importante era andare
e lasciarsi alle spalle le fatiche di tutti i
giorni, almeno per un po'. Considerava quella fuga,
perché di fuga si trattava, non poteva
mentire a se stesso, come un diversivo della sua
vita. Sarebbe tornato a casa? Mah, non lo sapeva,
ed anzi adesso non si voleva porre nemmeno il
problema. Riprese il dialogo con il compagno di
scompartimento.
- "Scusi
- chiese - ma lei a Milano ci abita?"
- "Sì"
rispose conciso.
- "E
mi dica - insistette - come ci si
vive?"
- "Bene,
- rispose - ci sono tante cose da fare, -
continuò - andare a teatro, al cinema, per
mostre o a ballare..."
- "A
ballare?" chiese Ernesto stupito.
- "Sì,
perché, non le do l'impressione di uno che
sa ballare?"
- "Mah...
veramente..."
- "Caro
giovanotto, io ballo e ballo molto
bene".
- Quella
risposta gli diede fastidio ed interruppe la
conversazione. Una persona di quella età che
ballava, con quel sigaro che lo faceva apparire
ottuagenario e, se non lo era, ci mancava veramente
poco.
- Mah!
Il mondo è veramente strano, pensò
Ernesto e riprese a guardare fuori dal finestrino.
Ormai la luce del giorno aveva inondato la campagna
circostante, il sole col suo calore aveva dissolto
la nebbia: erano le dieci.
- Sentì
il treno che rallentava, vedeva le case di
periferia di una cittadina, supponeva. Poi ad un
certo punto il treno si fermò.
- "Panini,
panini, bibite" non c'era dubbio, era proprio fermo
in una stazione. Si alzò di scatto dal
sedile sul quale un torpore soporifero lo stava
cogliendo, abbassò il finestrino e chiese:
"Quanto costano un panino e una Coca?"
- "Cinquemila"
rispose l'omino.
- Non
aveva molti soldi, ma un panino e una Coca se li
poteva permettere. E poi, come avrebbe fatto? Mah,
ci avrebbe pensato Dio. Addentò subito il
panino con fare famelico, era il panino più
buono che mai avesse mangiato in vita sua, forse il
pane era un po' duro, ma quel panino aveva un
sapore di libertà, di voglia di vivere, di
spensieratezza. Era immerso in questi pensieri,
quando un vociare concitato, urla e schiamazzi
attirarono la sua attenzione. Si affacciò
nuovamente dal finestrino e vide un gruppo di
ragazzi con stivaletti di cuoio, giubbotti di pelle
e bottiglia di birra alla mano, che si spintonavano
nella fretta di salire sul treno.
- "Mah,
saranno naziskyn o che altro" pensò
Ernesto.
- Il
gruppetto infilò il corridoio e si
sistemò proprio nello scompartimento dove si
trovava il nostro malcapitato.
- Lo
sferragliare del treno, intanto, era come se lo
cullasse nei suoi pensieri, ricordava ancora sua
madre ed il suo sorriso dolce che lo aveva
accompagnato fin da bambino.
- Il
gruppetto dei giovani naziskyn era lì
silenzioso, accanto a lui, e non credeva che dei
giovani così ribelli potessero essere
così tranquilli.
- S'affacciò
dal finestrino del treno e intravide la struttura
della stazione centrale da lontano, quelle grandi
volte di acciaio erano così imponenti che
solo una grande metropoli poteva
averle.
- Il
treno, sibilando rumorosamente, si fermò.
Ernesto scese, un portabagagli gli si
avvicinò, gli fece vedere il piccolo zaino
con le povere cose che si era portato. In effetti
guardando bene vide che oltre ai libri aveva solo
qualche maglietta di quelle con le scritte come
piacevano a lui.
- Era
iniziata la sua grande avventura. In quella
città così grande sperava di farsi
una nuova vita, di conoscere persone nuove, poi
avrebbe telefonato ai suoi. Comprò un anche
settimanale di annunci economici.
- Incominciò
a sfogliarlo, vide che c'erano un'infinità
di occasioni di lavoro, da operaio a centralinista,
da fattorino a dirigente, cercò quindi
quella che faceva al suo caso, ne trovò una
che diceva: "cercasi persona anche senza esperienza
lavorativa, per attività intellettuale e di
concetto, astenersi perditempo". Pensò
subito che quella era la sua grande occasione, non
si riteneva infatti così in basso da fare il
fattorino e nemmeno in grado di fare l'operaio in
una catena di montaggio o in un'officina. Scorse
quindi di nuovo l'inserzione, vi era solo il numero
di telefono. Andò quindi alla cabina
telefonica e chiamò.
- "Pronto,
chi parla?" una voce femminile non più
giovane rispose dall'altro capo del
telefono.
- "Chiamo
per quell'annuncio sul giornale - ribatté
Ernesto - volevo sapere di cosa si
tratta".
- "Guardi,
- rispose la donna - non posso dirle altro per
telefono. Se il lavoro le interessa, venga a
trovarmi visto che è stato il primo a
chiamare, l'indirizzo è via delle
Buganvillee, 15 e suoni al campanello in basso,
quello senza nome".
- Tutto
si faceva misterioso ed interessante, via della
Buganvillee doveva essere un posto di gente molto
ricca ed eccentrica, pensò sperando di
trovare il lavoro giusto.
- La
stazione degli autobus era poco distante, la
raggiunse in fretta, incontrò subito un
autista e chiese: "Scusi, via delle
Buganvillee?"
- "Ci
arriva l'autobus numero trenta - rispose - deve
scendere al capolinea, anche se poi deve fare un
pezzo a piedi".
- "Non
si preoccupi, sono abituato a camminare"
ribatté.
- Salì
sulla linea trenta, l'autobus era quasi vuoto,
anche perché cominciava a imbrunire: il
primo a chiamare, pensò, in tutta la
giornata. Solo lui poteva rispondere ad un annuncio
così sibillino e misterioso.
- L'autobus
partì, dopo circa un quarto d'ora
arrivò al capolinea, l'autista spense il
motori ed aprì tutte le porte.
- Ernesto
chiese di nuovo: "Scusi, via delle
Buganvillee?"
- "È
lì, vede, dove c'è quel castello
diroccato..." rispose l'autista.
- In
lontananza, infatti, si vedeva uno strano castello
fatiscente, si fermò, c'erano delle
indicazioni: "Fortezza dei Marchesi di
Acquapendente" e sotto: via delle
Buganvillee.
- Le
sue supposizioni si erano rivelate concrete,
quell'avventura incominciava ad affascinarlo, gli
sembrava quasi di sognare ed invece era tutto
vero.
- La
strada era poco illuminata anche se si vedeva
abbastanza bene. Ogni tanto passava qualche
automobile sempre di grossa cilindrata, camminava
lungo il bordo della strada e le auto gli
sfrecciavano accanto, sfiorandolo, poi ad un certo
punto arrivò ad un bivio, era buio, ma si
leggeva chiaramente: via delle Buganvillee,
indicava una mentre Fortezza dei Marchesi indicava
l'altra. Sono arrivato finalmente, pensò, e
si avviò verso il numero 15. Era un
condominio, molto grande, e tra i tanti campanelli
illuminati vide subito quello senza nome che
cercava.
- Suonò,
il portone si aprì, si affacciò una
signora non più giovane ma ancora avvenente
e con una sua particolare bellezza. Era molto alta
e fu quello il particolare che lo colpì
subito, le gambe un po' più lunghe del corpo
erano la cosa che si notava per prima.
- Chiese:
"È quel giovane che mi ha telefonato poco
fa?"
- "Sì"
rispose.
- "Prego,
si accomodi".
- Entrò.
- "Cercavo
proprio una persona di fiducia - riprese la donna -
e lei penso proprio faccia al caso mio. Sa, si
tratta di un lavoro non molto impegnativo ma che
richiede molta intelligenza, e lei mi pare proprio
un tipo intelligente".
- Aveva
un aspetto da nobile decaduta, ed anche la casa era
arredata con mobili antichi ormai consunti dal
tempo.
- "Si
accomodi - riprese - e mi dica, quanti anni
ha?"
- "Venti"
rispose Ernesto.
- "Mah,
forse è un po' troppo giovane per questo
lavoro".
- "Di
cosa si tratta?"
- La
signora non rispose ma si alzò di scatto e
si allontanò verso la cucina. Dopo qualche
minuto ritornò con due bicchieri in mano:
"Beva - disse - dobbiamo festeggiare perché
lei è stato assunto".
- Ernesto
prese il bicchiere, il suo sguardo si fissò
sui riflessi luminosi che il bicchiere gli
rimandava, pensò alla sua ragazza ed un
grande sentimento di nostalgia lo avvolse: non era
quello ciò che avrebbe voluto, non era
quello ciò che aveva sempre pensato. Eppure
ora, le sue idee diventavano concrete. Avrebbe
voluto tornare indietro, a casa, dai suoi
familiari, ma, soprattutto dalla sua ragazza che,
forse, adesso lo cercava
disperatamente.
- Nonostante
tutti questi pensieri che gli affollavano la mente,
bevve ugualmente, riposò il bicchiere sul
tavolo e chiese garbatamente alla signora:
"Scusate, ma io non vi conosco, né voi
potete conoscere me in così poco
tempo".
- Lo
sguardo gli cadde nuovamente sul bicchiere appena
posato, fu di nuovo ammaliato dai riflessi che
questi gli rimandava.
- "Sono
di cristalli - disse subito lei, - vedo che li
osservate con intensità".
- "Sì
signora, ero un forte bevitore una volta - disse
Ernesto, per apparire all'altezza della situazione.
- Sono irlandese di origine, lo sa? Anche se
è molto tempo che abito qui in Italia. E
lei?" chiese Ernesto.
- "Io
sono svizzera - rispose - e precisamente di
Ginevra".
- "Ora
capisco perché tutti questi orologi alle
pareti e, beh, diciamolo, tutti questi
soldi!".
- "Non
esageri, sono benestante ma non ricca. Molto tempo
fa ero veramente ricca, prima che morisse mio
marito e rimanessi vedova".
- "E,
scusi se sono impertinente, di cosa è morto
suo marito?"
- "D'infarto
- rispose subito lei. - Era un industriale della
cioccolata".
- "In
Svizzera era d'obbligo".
- "Non
faccia lo spiritoso - ribatté subito lei -
Ci amavamo molto ed abbiamo avuto due figli: un
maschio e una femmina".
- "Classico"
riprese Ernesto.
- "Il
primo si è laureato in ingegneria ed
è sposato, vive e lavora in India, mentre
l'altra figlia è più fannullona e
spero che presto trovi qualcuno che la sposi". Nel
mentre concludeva quel discorso, i suoi occhi
caddero su Ernesto.
- Forse
oltre al lavoro aveva trovato anche moglie, pensava
lui, visto che quell'occhiata poteva significare
ciò.
- "Bene,
per oggi è tutto - riprese lei - ci vediamo
domattina alle otto in punto". Gli strinse la mano
e chiuse la porta.
- Ernesto
decise che era ancora presto per andare a dormire,
e poi dove sarebbe andato a dormire coi pochi soldi
che aveva in tasca? Decise quindi di prendere la
metropolitana, fortuna che aveva portato con
sé la sua chitarra che aveva sempre usato
nelle feste coi suoi amici di scuola, adesso ormai
così lontani.
- Scese
alla prima fermata, prese la sua chitarra e
cominciò a suonare, le arcate della galleria
amplificavano il suono e parecchi passanti
lasciavano pochi spiccioli di
elemosina.
-
- "Hei,
tu, cosa fai qua? Lo sai che non si può
suonare con la chitarra?"
- "Ma,
signora guardia, stavo solo strimpellando quattro
note!"
- "Seguimi
in questura ti daremo il foglio di via per
vagabondaggio".
- E
così, volente o nolente, Ernesto
ritornò a casa.
-
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