-
-
- Io
sono
-
- Sono
ciò che mi dicono
- di essere,
senza appelli.
-
- Sono parole
di ghiaccio
- che si
sciolgono al sole.
-
- Credevo
nell'idea e nell'opinione
- di chi
è giudice del bene
- e del male
della gente.
-
- Parole e
pensieri
- che sfuggono
alla mente.
-
- Rifiuto quei
modelli che
- sono imposti
come
- guerrieri che
conquistano
- una nazione
stanca.
-
- Ma resistere
a quest'invasione
- è da
veri eroi.
-
-
-
- La mia
libertà
-
- Sento solo
parole
- senza
significato
- che
giudicano, non insegnano
-
- ed impongono
a tutti
- verità
da mercato:
- vestiti usati
e troppo stretti.
-
- Sono nuovi
guerrieri
- e con spade
affilate
- ci
conquistano e distruggono.
-
- Ogni mia
convinzione,
- figlia di
un'illusione,
- inesorabile,
cede e crolla.
-
- Tante
maschere e facce,
- volti ben
modellati;
- ipocrisia
priva di anima.
-
- Non accetto
il destino,
- questo mio
destino,
- che da
vigliacco colpisce ancora.
-
- Forse non
c'è speranza
- di mutare le
cose,
- ma resistere
è da eroi.
-
-
- L'orso
- Era buio, ed io
steso sul mio letto pensavo a quella strana
sensazione di freddo che penetrava nelle mie ossa.
Forse avevo la febbre.
- Provai a
misurarne la temperatura, magari nei giorni scorsi
avevo esagerato con il cibo, ma nulla neanche una
linea che avrebbe potuto giustificare il mio stato.
La sentivo dentro di me che agiva sui muscoli e sui
tendini, paralizzandoli, quasi fossero veramente
congelati.
- Pensai alla
reazione del dottore, ieri, che di fronte al mio
problema rimase esterefatto (in fondo potevo
comprenderlo, la mia infermità evidentemente
gli suonava come uno scherzo). A fatica mi alzai,
mi diressi verso la finestra del mio monolocale di
città ed aprii le imposte.
- Il sole caldo mi
inondò il volto con le sue dolci carezze,
purtroppo questo non bastò. Decisi allora
che era giunto il momento, ormai, di uscire e
rompere la solitudine e la monotonia della mia
vita. Convinto di questo mi diressi verso la porta
di casa, quando venni bloccato dall'acuto squillo
del telefono. Rimasi allibito: qualcuno si
ricordava ancora di me? Era da tempo che non
accadeva, da quando se ben ricordo avevo
abbandonato gli amici per motivi di salute. Odiavo
la loro compassione e la loro pietà
così piena di ipocrisia.
- Lo feci
squillare per un po', temendo forse (era già
successo) nell'errore di qualcuno che per la troppa
fretta avesse composto male il numero, ed accortosi
di ciò, il tizio in questione mi liquidasse
con una di quelle odiose frasi che interrompono
bruscamente ogni forma di comunicazione; del genere
- Scusi, ma ho sbagliato -.
- Alla fine mi
decisi, non potevo farlo suonare senza rispondere,
e se fosse stata una chiamata
importante?
- Alzai la
cornetta e con la voce rotta per l'emozione dissi -
Pronto, chi parla? -. Era il meccanico che chiamava
per l'ennesima ed ultima volta affinché io
andassi, anche nel tardo pomeriggio, a ritirare la
mia auto. Mi dimenticai di quel pezzo da museo,
dovevo farle regolare qualcosina e poi non ci
pensai più. Avevo altro per la testa. Quanto
tempo era trascorso? Forse due o tre mesi circa.
Pazienza, ciò che contava, adesso, è
che mi sentivo un po' meglio.
- Non so il
perché, non so come, ma quelle parole
abbastanza gentili, anche se decise, riuscirono a
scaldarmi l'anima e ad attenuare la morsa del
male.
- Rinfrancato
uscii, dirigendomi in strada. Centinaia di persone
andavano e venivano sul marciapiede, attraversavano
la strada, urlavano, parlavano, fumavano. Avevano
tutti una grande fretta di arrivare da qualche
parte quasi fossero in perenne ritardo, ed io non
capivo questa loro misteriosa destinazione;
probabilmente essi neanche la
conoscevano.
- Avevano tutti le
stesse facce, lo stesso sguardo spento, la stessa
frenetica andatura composta.
- Rimasi
là, fermo, indeciso se unirmi a loro o
proseguire per la mia strada. Ero davanti il
portone di casa, eppure non mi sentivo protetto. Li
fissai ancora per qualche attimo,
incuriosito.
- Non un sorriso,
un cenno cordiale o semplicemente un saluto. Nulla
di tutto questo. Sembravano dei robot, degli automi
di un filmaccio di fantascienza del quale io ne ero
l'inconsapevole protagonista.
- Mi sentii
veramente male, mi mancarono le forze. Non riuscivo
a respirare, né a rimanere in piedi; in
quelle condizioni l'unica soluzione che mi
balenò in testa, fu quella di sedermi sul
marciapiede.
- Cominciai a
sudare freddo, tremavo e provai una sensazione di
disagio in quel luogo che ricordavo familiare e
che, invece, era così diverso nella
realtà.
- Le persone
divennero irriconoscibili, non so se fosse per
causa della malattia o di altro. Non riuscivo
più a distinguere uomini, donne e bambini.
Divennero delle ombre, tutte uguali, tutte grigie
come i loro cuori.
- - Non è
il giorno giusto! - pensai - Sarà meglio per
me che ritorni a casa -. In quel momento volevo
soltanto sdraiarmi sul letto e riposare. Faticai
parecchio ma infine raggiunsi la porta, presi la
chiave dalla tasca ed aprii.
- Mi infilai
nuovamente sotto le lenzuola, aspettando che
"l'inverno" finisse e che al mio risveglio, le cose
fossero ritornate come le ricordavo tempo addietro.
Andrò in letargo fino a primavera - pensai e
mi addormentai, fiducioso.
-
Racconto
tratto da "La Venere di Saluzzo" di Dario Italo Di
Nunno (Prospettiva Editrice 2001)
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