LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
Francesco Sassetto
Ha pubblicato il libro
Francesco Sassetto - Da solo e in silenzio
poesie in lingua e in dialetto veneziano


 
 
 
 
 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi) 14x20,5 - pp. 36 - Euro 5,50 - ISBN 88-8356-762-5


Pubblicazione realizzata con il contributo de

IL CLUB degli autori in quanto l'autore è 2° classificato nel concorso letterario "Angela Starace" 2003


 
Prefazione
Poesie
 

Prefazione
"È tempo di scrivere poesie", così Francesco Sassetto sembra giustificarsi della grave colpa di vivere e poetare in una civiltà senza padre ("se accanto avessi mio Padre..." dice ad un altro punto), ma poi soggiunge "sbiadisce presto il sole". E infatti.
Al giorno d'oggi torniamo (vizio ricorrente) a domandarci se abbia un senso scrivere versi. E, se lo ha, perché ce l'ha, un qualche senso. Come se fosse d'obbligo che non lo avesse. Come se fosse nella natura della poesia presentarsi nella veste di un "facile giuoco" enigmistico.
In verità la poesia si mostra anche agli scettici più incalliti come un elemento insopprimibile dell'animo umano, solo che "rempaira" sempre "a cor gentil". E ci sono dei tempi in cui la poesia non ha luoghi dove ripararsi. O ne ha pochissimi.
Questi versi di Francesco Sassetto sembrano però l'esempio di un luogo in cui la poesia potrebbe ripararsi, in altre parole di "come si deve poetare", ovvero "si dovrebbe", soprattutto in un'epoca in cui l'impoeticità regna sovrana perché si è perso il canone, o meglio si è perso il gusto della poesia ("la poesia di sempre che ronza intorno/e torna a farci compagnia") e con esso lo scopo della poesia, ma "è difficile dare un senso, un senso qualunque,/alla strada" (dice Sassetto echeggiando Lee Masters).
Ma quella di Sassetto è una poesia che ha radici, cioè ha un tempo e un luogo di nascita nell'Italia del Novecento. Una poesia come questa è impensabile altrove: si inserisce nella nobile tradizione di un perenne petrarchismo, che nasce un secolo prima di Petrarca col "dolce stil novo", e che dà i suoi esiti recenti nella poesia del Novecento, che rispetto al precedente main stream si presenta da Betocchi a Turoldo a Raboni a Ruffilli, con caratteri molto simili, ma anche con alcune differenze specifiche, in particolare con una carica di significazioni più intensa e quindi con movenze concettuali più esplicite.
E questi aspetti che caratterizzano la poesia di Sassetto, si concretano nella particolare finezza con cui egli organizza la materia fonica, che finisce per assumere una funzione connotativa. Si veda per esempio un verso come "È la mia solitudine nelle mie mani", dove l'alternarsi delle vocali è dominato al centro del verso dalla insistente sequenza delle "e", che anticipano le due "e" dominanti nella clausola del verso successivo "che non tengono niente". Qui al significato specifico delle parole si aggiunge l'atmosfera suggerita da quell'inseguirsi di "e": queste di per sé non avrebbero il senso struggente e disperato che qui invece assumono, e lo assumono proprio perché c'è una inter-azione tra l'aspetto denotativo e quello significativo del verso. È un esempio questo verso, che non ho scelto del tutto a caso, perché in effetti la sua significazione si estende lungo tutta la raccolta e ne costituisce in qualche modo il perno. L'affermazione può sembrare privata, personale, ma per altri versi costituisce il dramma del secolo: non solo per la "solitudine" ("saremo soli/come soli/siamo sempre stati" dice in un altro testo), che si supporta nell'incomunicabilità ("Mai nulla svelò al mio cuore ansioso/il tuo infinito"), ma più ancora per quel "niente", per quell'atteggiamento che rappresenta la delusione per un possesso inesistente.
"E così ci siamo lasciati, ognuno/con i suoi pensieri e con le mani in tasca". E ancora "Dov'è fuggita la bella stagione", e ancora, in dialetto questa volta, "La vita xe 'sto flusso d'acqua scura/che sbate su i pagioi e li destaca". Sono, questi sì presi a caso e se ne potrebbero aggiungere molti altri, i ritmi insistenti di una rassegnata "emozione del distacco" che accomuna la poesia di Sassetto a tanta parte della cultura europea del secolo appena trascorso, e che fonda il suo pregnante negativismo. È un negativismo ontologico ("trascorre il tempo e con lui tutto vanisce"), ed è un negativismo gnoseologico, forse più amaro: "Altro non so./Altro io non credo", dove il monosillabo "io" del secondo verso, che spezza l'anafora, enfatizza il senso di solitudine e, nel momento in cui l'indifferenza si maschera da tolleranza, ritaglia l'unico spazio riservato all'io nell'età dell'individualismo di massa: "Questa notte sono solo/insieme a te", e non importa che quel "te" poi si sveli essere la tristezza: la chiave del discorso è la contraddizione: "solo insieme": lo spazio riservato all'io è quello della "nebbia d'atti", della inconsapevolezza, l'inconscio freudiano esercitato nel vissuto. Dello sgomento del "discorso interrotto" resta allora lo stato d'animo, il pensiero poetante si è stemperato in una emozione intellettuale ed emerge solo la stanchezza dell'illusione.
 

Bruno Rosada


 

Da solo e in silenzio
poesie in lingua e in dialetto veneziano
 
"Ed un giorno sarà ancora l'invito
di voci d'oro, di lusinghe audaci,
anima mia non più divisa. Pensa:
cangiare in inno l'elegia..."
 

E. Montale


A mia madre
carissima sempre
queste mie parole

 


 Sono per me soltanto
 
 
Sono per me soltanto gli incontri della strada,
i passi cadenzati o le svolte del cammino,
le pagine dei libri a lungo interrogati.
Sono per me i sorrisi che congiungono esistenze
lontane e divergenti, nei giochi del destino,
la memoria che assidua compone persistenze.
 
 
Ma la strada piano si svuota, si fa
deserta, la pagina ingiallisce, la memoria
scolora la luce viva dell'accadimento.
Trascorre il tempo e con lui tutto vanisce,
ogni volto sfuma, la traccia
segnata si fa incerta.
Resta questa nebbia d'atti
poveri di senso,
resta quel sorriso lontano
che già più non vedo.
 
 
Altro non so.
Altro io non credo.

 
A notte fonda
 
 
Si scolora il nostro viso
nell'ora che anche l'acqua
dorme nei canali,
si cancella al sorriso
dei gatti nella notte
ogni disegno.
Felice chi ancora
dei suoi passi scorge
il segno,
chi distingue al poco lume
della luna,
i cipressi di San Michele,
alti e muti
sulla laguna.

 
Notturno
 
 
Vorrei che un passante solitario
in una sera abbandonata e scura,
quando ritornando, la testa frastornata
di risa e di parole più non penso,
recasse con sè, dono tanto atteso,
la notizia della mia ventura,
mi svelasse che non sei tu,
mia ombra, il mio solo senso.
 
E non fosse cifra oscura,
formula o teorema quel messaggio,
ma si leggesse chiara
come fede da seguire la certezza
che essere soli non è nostra condanna,
che non siamo fantasmi di passaggio.
 
 
La luna s'offusca tra le nubi
nell'aria che s'annera, mentre sciaborda
ancora sulle rive monotono il frangente,
unica voce, questa,
alla mia muta preghiera, cantilena
antica ai viaggiatori della terra
soliti andare,
ponte dopo ponte,
senza sperare, senza sapere niente.

 
L'uomo che cerca
 
 
L'uomo che cerca non è un uomo tranquillo
e se cerca qualcosa o qualcuno nelle strade
di questi canali è facile trovi ombre soltanto
di vecchi fanali e, a pensare i ricordi,
l'ombra di se stesso tra quelle dei gatti randagi.
 
Quell'uomo, se cerca una strada, può pure trovarla
ma il suo passo è vuoto e silenzio
se nessuno cammina al suo fianco
e lo attende la notte soltanto, finita la strada.
 
E' difficile dare un senso, un senso qualunque,
alla strada, ma camminare da soli, la notte,
per la solita strada è pazzia da ubriachi
che girano soli la strada incontro alla solita notte.
 
Se tu almeno ci fossi avrebbe un senso
la strada e gli incontri che si possono fare
e si potrebbe andare con passo tranquillo e sicuro,
ma non c'è voce alcuna che dica la strada
e il cielo è un deserto di stelle
che si fa sempre più scuro.

 
Gennaio 2004
 
 
E così ci siamo lasciati, ognuno
con i suoi pensieri e con le mani in tasca.
Ci siamo incontrati e non ci siamo trovati,
è bastato poi un rapido saluto.
 
Perché capirsi sarebbe come capire
quest'acqua di laguna, i suoi flussi segreti
che sciacquano le velme,
la sua calma apparente.
 
Non smetteremo per questo le sigarette,
riandremo al lavoro con un pensiero in più
(o in meno, non farà poi gran differenza),
vedremo ancora treni partire, treni tornare,
ragazzi giurarsi l'amore a vita, altri slacciarsi
le mani senza voglia di stringerne altre.
Continueremo a consumarci nell'assenza,
sarà un'abitudine domani
anche la nostra solitudine.

 
Pensando a mio padre
 
 
Se accanto avessi mio Padre
quando cala la nebbia
sulla Piazza deserta, e s'offusca
ogni luce tra gelide gocce,
avrei forse la sua scarna saggezza,
la sua semplice voce
a dirmi la strada da fare.
 
 
Ma mio Padre nell'isola verde
riposa il suo giovane corpo
di stancato operaio, nel mito
che quanti ne conobbero gli occhi
mi dissero dei suoi pochi anni.
 
 
E a me solo rimane il dolore
di non saperne che il nome,
una memoria che ignoro e nessun
ricordo su cui crescere un fiore.

 
Di un amore perduto
 
 
Tengo ancora
di te non più mia
con cura insensata
i biglietti ingialliti
le vecchie foto
dei nostri sorrisi,
tracce sbiadite
di una storia
passata,
spuma che l'onda
abbandona
quando lenta
va via.
 
 
E dell'amore che allora
ci ha stretto
oggi a me solo
rimane
un discorso interrotto,
e di tante parole
delle lacrime e i baci
donati
una lunga inutile
scia
di frammenti
sfocati.

 
Vecchi versi per Laura
 
 
Questa notte sono solo
insieme a te
che altro viaggio attendi,
altre cure che non distoglie
la carezza lieve della mia mano.
Le parole s'affiocano in un sussurro
di dolcezza, mentre non svelano
segreti disegni del destino
i fondi del caffè che ora beviamo;
seduta accanto a me vai oltre il vetro
e mi dici a lungo di quell'anello,
pietra di luna,
che t'hanno dato in dono altri amici,
talismano di nuova fortuna.
 
Questa notte andrò solo
insieme a te,
tristezza, compagna silenziosa
dal volto misterioso di ragazza:
più volte l'ho fuggita nei tuoi occhi,
negli amici della sera,
ma tu vai e lei ritorna
quando s'appressa a me l'ora più vera,
l'ora profonda e inquieta
che mi racconta voi
creature della stessa razza.

 
A me stesso nei miei quarant'anni
 
 
Non fare l'inventario
degli amici andati, delle ragazze
che ti hanno salutato volate
ad altro destino: non sta scritto
nel calendario il racconto del tuo passato.
Non indagare a forza il senso delle tracce
del cammino ch'è vano il cesello
del ricordo e la memoria è bene
che non vuol'essere troppo interrogato.
Sei anche tu come l'acqua che passa
nel canale, la stessa sempre
e pure mai uguale.
 
Non domandare amore eterno
né amore per sempre garantire:
anche le dolci parole sussurrate,
le carezze scivolate dal cuore
non fuggono la legge del vanire.
Sai che senza posa è il giro di stagione
e il sorriso della nuova primavera
si spegne alle rapide folate dell'inverno.
 
 
 
 
Ma cerca ugualmente quanto puoi
di abbracciare l'attimo che stringe
al ventre, cercalo negli occhi uguali
ai tuoi, nei baci così veri da togliere
il respiro, da bere fino in fondo
come vino che sa ubriacare,
il solo buono a dirti che sei vivo.
 
Finchè alla fine, spenta l'ultima
sigaretta, andrai via con gli altri
compagni del viaggio, vagabondi
della terra stanchi d'illusioni
e di coraggio, lasciati
anche i ricordi nella nebbia
dei giorni ormai usati.
 
 
 
Saremo soli
come soli
siamo sempre stati.

 
Da solo e in silenzio
 
 
È la mia solitudine nelle mie mani
che non tengono niente
se non questa vecchia cartella di cuoio
che lenta va verso scuola al mattino
e traversa una desolata campagna
spazzata da ondate di nebbia
e torna poi stanca ai suoi vecchi canali
nell'ora che inverno già il cielo rabbuia
e si fa d'uno scuro di fango
il suo dolce colore.
 
 
Forse è questo soltanto l'amore,
forse nient'altro che questo casuale
incontrarsi, abbracciarsi un momento
e lasciarsi con poche usate parole,
cangiando il breve canto di gioia
in sordo brusìo di zanzare.
Ed è tanto più amara la noia e vuota
e fredda la notte che devo
da solo e in silenzio
di nuovo scontare.

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Ins. 27-09-2004