Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Giovanni Tini Brunozzi
Ha pubblicato il libro

I piedi di Dio - Giovanni Tini Brunozzi




 

 

 

 

 

 

Collana I salici (narrativa)

 

14x20,5 - pp. 108 - Euro 7,20

 

ISBN 88-6037-030-2

Prefazione
Incipit


Prefazione
 
Precedute da un autoritratto rivelatore di creatività fertile e polimorfa, queste pagine catturano, da subito, l'attenzione del lettore che risponde con interesse vigile al prorompente bisogno di comunicare dell'Autore. Sono ben evidenti in lui i cromosomi di quella "Mamma Poesia" che gli ha insegnato a soffermarsi sulle bellezze del creato e a distinguere la flora autoctona della Valle del Chiona e delle prime pendici del Monte Subiaso per isolare - "sullo sfondo della pietra rosa che al contatto con il primo sole diviene pulsante come carne viva" - quelle piccole orchidee nostrali che vengono chiamate familiarmente "Concordia" e "Discordia".
 
Le immagini si susseguono stemperandosi nel cromatismo tenue della memoria sedimentata, con un linguaggio teso nella sua semplicità a trasmettere "in presa diretta" esperienze ed emozioni ed assumendo, specialmente nella descrizione dei profumi e dei suoni, un tono elegiaco capace di accattivante seduzione. Gradualmente, con originale effetto di cerchi concentrici, lo scrittore estende la trama narrativa dei 25 racconti che compongono la sua personalissima antologia alle dimensioni del tempo e dello spazio, esplorate - come nella vita anteriore di "globe trotter" del lavoro italiano all'estero - con attenzione e sensibilità a contatto di culture remote e diverse.
 
Queste doti innate gli sono state affinate durante la frequentazione, da allievo esterno, dell'Istituto dei Padri Somaschi sul cui portale austero figurava la scritta ammonitrice, mai più dimenticata, "CONGREGATE VOS IN DOMO DISCIPLINAE"; prevale tuttavia nella specifica rievocazione uno spirito scanzonato per mezzo del quale il bassorilievo dedicato ai suoi professori diviene per Tini Brunozzi pretesto per un felliniano "amarcord" dove la malinconia si fonde con un'affettività sincera, palesemente memore e grata. Costoro aprono una vera e propria "galleria" di personaggi che hanno come elemento centrale un gruppo di vivaci chierichetti impegnati ad apprendere le varie fasi del cerimoniale della Santa Messa e a disputarsi, insieme al premio profano dei confettini alla cannella, il privilegio di innalzare in processione i vari simboli della Passione di Cristo.
 
È questo l'ultimo "quadro" che l'Autore dedica al periodo dell'infanzia e dell'adolescenza, rivisitato con puntigliosa attenzione ai dettagli ed ai particolari di un abbigliamento datato, tanto che sembra quasi di vedere certi fotogrammi dal colore seppiato che giacciono nel fondo dei cassetti di tante famiglie. Poi, quasi all'improvviso, proprio come avviene spesso nella vita di ciascuno, iniziano gli "appunti di viaggio" che occuperanno un arco di tempo ampio (1962 - 1984), pieno di vere e proprie avventure che hanno movimentato la vita del protagonista, coinvolto in situazioni talora drammatiche e - comunque - destinate a rimanere impresse indelebili nella sua memoria.
 
Iniziano in un luogo e in un giorno preciso (Nakorn Sawan - Thailandia - 12 febbraio 1962) e proseguono a toccare tanti altri Paesi (Egitto, Brasile, Colombia, Honduras) riproposti con un sapiente uso della tecnica cinematografica del "flash back" che riesce ad evitare la monotonia delle sequenze documentarie facendo di ogni "tappa" un racconto capace di vita autonoma. Ciò si deve al verismo dei personaggi presentati a tutto tondo che parlano di un mondo profondamente segnato dalla povertà e appena sfiorato da un progresso visto più come occasione di diffidenza che come opportunità di sviluppo.
 
Durante uno di questi spostamenti imposti dalla professionalità nomade di Giovanni Tini Brunozzi, specialista in impianti di elettrodotto, le due figlie bambine vedono con il candore della loro innocenza, in due nuvole affiancate per pochi attimi dal capriccio dei venti, "i piedi di Dio" che divengono il titolo di un racconto delicatissimo di tono elegiaco e, per successiva scelta pienamente condivisibile, individuano l'intera raccolta.
 
Intorno a questo elemento centrale ruotano come in un gigantesco caleidoscopio località dai nomi esotici (Dhaharan, Floriano, Teresina, Oeiras, Picos, Juazeiro do Norte, Agua Caliente, El Arrozal, Bucaramanga, Barrancabermeja) e, del tutto inattesa, "Assis" (la traduzione di Assisi in lingua portoghese) scoperta per caso, e con un pizzico di delusione, lungo un tragitto tra Sao Paulo a Presidente Prudente, cittadina ai confini con lo Stato del Mato Grosso. "Mi allontanai dal centro verso la periferia. Non un segno che potesse farmi dimenticare d'essere in un altro continente. Di comune con Assisi non c'era se non quel senso di mistero, che traspare dalle cose e invade le strade e gli orti quando è scesa l'oscurità".
 
E nelle città incontra tanti uomini e tante donne delle quali descrive la sofferenza, la fatica, il dolore, i rari momenti di gioia e di abbandono laddove soffia il vento caldo, denso di aromi dell'Indonesia o quello tagliente che scende dalla Cordigliera per rendere il cielo limpido e terso, o - infine - quello, mitigato e gradevolissimo, dell'inverno australe. Tra questa folla, molto spesso anonima per la brevità del tutto episodica dell'incontro, si aggirano i servizievoli conduttori di Sam-lò (la tipica carrozzella a trazione umana), i cuochi affaccendatissimi tra fornelli accesi e pentole in ebollizione, gli elefanti impegnati a trasportare i tronchi di teak e di mogano, un baffuto venditore di cocomeri che "sollevando i verdi frutti li batteva con le nocche delle dita per mostrare agli avventori ch'erano maturi", i marinai del barcone a motore che - una volta al mese - solcava le acque del Rio Parnaiba per rifornire i radi villaggi di derrate alimentari, gli indigeni armati di "machete" che reclamano l'indennizzo per un capretto ucciso involontariamente da un autista distratto, i rudi "vaqueros" che si concedono notti brave nelle bettole e nei postriboli.
 
Rimane anonimo anche il connazionale incontrato nella cornice accogliente del "Restaurante San Martìn", ma mentre si abbandona alle esternazioni del suo variegato percorso esistenziale assume contorni sempre più delineati che culminano in una struggente malinconia, condensata nel sacchetto di terra raccolta presso la tomba dei suoi genitori e gelosamente conservata, e nell'offerta - conclusiva delle sue amare confidenze - "di un sorso di grappa all'anice... ... ... ...un toccasana contro la nostalgia". Altre volte i personaggi si conquistano, con il nome, una identità più precisa che deriva dalle vicende di cui, di volta in volta, sono protagonisti. È questo il caso di "Zè Tristeza" al qual finalmente una morte assurda modifica l'abituale smorfia di dolore in un sorriso di liberazione; è questo il caso di Toníco Gaivão, lo spericolato pilota di "Piper" che con le sue acrobazia si diverte a seguire le curve dei cumuli nembi proprio come l'uccello "Gaivão" sfiora le cime frondose degli alberi della foresta "con il volo più elegante, più imprevedibile e più veloce fra tutti i volatili", quasi ad ali ferme, senza sforzi apparenti; è questo il caso di Avalino Rodriguez, archetipo di tutto un mondo segnato dall'indigenza, protagonista del "Velorio" (la veglia funebre dedicata a lui caduto sul lavoro), che con la sua morte fa la fortuna di una improbabile vedova con sette figli; è questo il caso di Luiz Gonzales, di sua moglie Rosario Cruz "di bell'aspetto ma di costumi discutibili" e del loro vicino di casa Leon Robledo che, dopo aver dato vita al classico "triangolo" dell'adulterio, approdano al tragico epilogo sprofondando nel "Crepaccio dell'Adultera, una fenditura nella roccia sulle basse pendici delle Ande; è questo - infine - il caso di Dona Raimunda Coelho frequentatrice dei "Terreiros" (i terrificanti templi della "Macumba") che rimane per sempre imprigionata nel recinto delle sue paure ancestrali.
 
Per incontrarli l'Autore è partito dall'atmosfera un po' stagnante di un rassicurante microcosmo domestico - dove dominano l'ortica, il finocchio selvatico, la mentuccia, i capperi, l'erba muraiola, i narcisi selvatici - e ha raggiunto i deserti africani (che contengono le ossa calcinate dei cammelli non più in grado di tenere il passo con la carovana), le rive del Nilo solcato dalle bianche vele delle "Felucas", le solenni vestigia del Tempio di Komombo circondate da un silenzio secolare, gli acquitrini dell'Indonesia dove le donne - di sera - si lavano nude sugli argini delle risaie, le palme cresciute sulla terra umida e nera dei Caraibi che si protende nel mare cedendo il posto a luminosi litorali di spiaggia bianca finisisma, la lussureggiante ed intricata vegetazione delle foreste brasiliane, le barriere frangivento di eucaliptus e di acacie. Gli è capitato di assaggiare, vincendo una diffidenza istintiva, la zuppa di pinne di pescecane e la poltiglia grigiastra saporitissima dei "nidi di rondine", il purè di fagioli e le tortillas, e di ristorarsi con la polpa succosa dei frutti tropicali. Conserva il profumo dei fiori, mescolandolo alla fragranza misteriosa delle spezie orientali e agli odori pungenti della frutta marcia in fermentazione, registrati passando per qualche degradata periferia. Su tutti prevale, indelebile l'odore forte di carne bruciata di una cremazione descritta con impressionante verismo: "Erano tutti raccolti intorno ad un altare in muratura, realizzato come un grande fornello dentro il quale avevano sistemato la legna da ardere. La salma era stata precedentemente unta con strutto animale e cosparsa di zucchero per aumentarne la combustione. deposto quel corpo nudo sulla pira, hanno appiccato il fuoco che è divampato in lingue rosse nello spazio di pochissimi minuti. Ho visto così la salma rattrappirsi e contorcersi sotto l'effetto del calore e la scena non è stata delle più belle".
 
La prosa fluida di Tini Brunozzi, - ricca di tanti aggettivi, di appropriate similitudini e di pertinenti sfumature descrittive attente alle luci, ai suoni ed ai colori del variegato "melting pot" di culture ed usanze diverse, attraversato per oltre venti anni, - si legge con perdurante curiosità alimentata da un impianto narrativo del quale lo stesso Autore ci propone una convincente motivazione che è anche efficace chiave di lettura. "Cambiando latitudine, si è costretti a nuove conoscenze, nuove storie, nuove emozioni. Ciò che si lascia alle spalle però, spesso riaffiora inatteso e vivo dalle pieghe della nostalgia."
 
Il gusto della citazione, che talora appesantisce inutilmente tanta produzione "on the road", viene esercitato con moderazione per cogliere da ogni situazione il "distillato" di una vita vera, vissuta intensamente alla luce di un antico ammaestramento che proviene dalla filosofia orientale "Mai Pèn Lài" (non te la prendere). Quando l'antologia si interrompe, quasi bruscamente, con la fine dei viaggi transcontinentali, si avverte una sensazione di incompiutezza che deriva dalla convinzione che lo scrittore abbia ancora molto da dire, prima di chiudere il percorso iniziato con la fantasia esercitata, da bambino, assegnando alle macchie di umidità del soffitto sembianze inquietanti e mutevoli o soffermandosi con gli attoniti coetanei a contemplare le illustrazioni dell'Inferno dantesco di Gustavo Dorè.
 
Credo, perciò, che sentiremo ancora - con Lui - lo scalpitio dei cavalli, l'abbaiare dei cani, le familiari cadenze di un martello battuto sull'incudine, il rullio dei tamburi; forse mancherà solamente - ma non è detto - il ruggito possente dei motori d'aereo in fase di decollo e di atterraggio.
 
Pio de Giuli
Accademico del Subasio - Censore del III Comizio
Direttore della rivista «Subasio»
(trimestrale di informazioni culturali)

I piedi di Dio
 
 

 
MAMMA POESIA
 
 
Da qualche anno sono costretto per motivi terapeutici a camminare un'ora al giorno. Lo faccio al mattino molto presto, sia per non respirare l'alito mefitico delle automobili, sia per non compromettere le ore operative della giornata. Le strade che percorro, sono quelle di Prato e della valle del Chiona durante la settimana, quelle più impegnative del monte Subasio, il sabato e la domenica. Viene naturale camminando soli, nel silenzio di quelle ore mattutine, ricercare con la mente e con lo sguardo, qualcosa che ci è appartenuto in altri tempi e spesso le strade, le colline, le case e gli alberi, fanno riaffiorare memorie sopite e presenze sbiadite, che altrimenti, difficilmente sarebbero venute a galla. Durante questi ultimi mesi primaverili, quasi ogni mattina, mi sono rivisto fanciullo nelle escursioni che mamma organizzava sul monte Subasio e colline circostanti. Lo faceva ogni primavera, perché diceva che respirare l'aria pulita del mattino avrebbe contribuito ad eliminare gli ultimi strascichi della bronchitella invernale. Si partiva molto presto, almeno un'ora prima della levata del sole. Coloro che amano dormire al mattino, non hanno certamente vissuto la magia delle ore che separano il buio dalla luce. Non c'è più l'oscurità della notte ed il cielo è di un grigio indefinibile con screzi di madreperla. Solo verso oriente si macchia di un tenue rosa ed i contorni dei monti appaiono nitidi, come disegnati. Quando il nostro itinerario ci portava con le spalle a levante, mamma sceglieva un punto strategico di osservazione, da dove poter ammirare il bagno di luce che invadeva il paese al sorgere del sole. All'inizio erano le punte dei cipressi dell'orto dei frati cappuccini ad accendersi, poi, l'onda luminosa scendeva ricoprendo tetti, muri e campanili, giù giù, fino alla cinta delle mura e agli orti sottostanti. A tratti i vetri delle finestre riflettevano i raggi del sole, rilanciando improvvisi bagliori. Lo spettacolo durava pochi minuti, ma ci lasciava ammaliati con la voglia di rivederlo ancora. Alla fine mamma, quasi tra sé e sé, citava alcuni versi della Pentecoste del Manzoni..." Come la luce rapida, - Piove di cosa in cosa - E i color vari suscita - ovunque si riposa..." e ci spiegava che senza la luce non ci sarebbero stati i colori ed il mondo sarebbe risultato nero, monotono e piatto. Ogni passeggiata, per me e per i miei fratelli tutti poco più che bambini, era una scoperta. Piante, erbe, fiori, uccelli e rettili, tutto rientrava nella sfera delle sue conoscenze. Forse senza la guida di mamma, difficilmente avremmo notato le piccole orchidee nostrali che Lei chiamava Concordia e Discordia, con aspetto di pupazzi in costume tirolese ed inalato il profumo di pasticceria alla vaniglia dei fiori del caprifoglio. Ogni essere animato o inanimato, secondo Lei, aveva un corrispondente nell'universo. Fiori come stelle, topazi e turchesi come i piccoli fiori ai margini della strada. Paragonava le violette a musetti di esseri viventi, i fiori degli ornelli a morbide nuvole cadute sulla terra e smarritesi nel verde dei boschi. I fiori dei cardi, pennelli con i quali Dio aveva colorato il mondo e le farfalle e gl'insetti che vi ronzavano intorno, gocce di quel colore sospeso nell'aria. Quando in qualche vallata la fioritura era imponente, ci faceva fermare per ammirare quelle "bellezze del creato" e con la facilità che le era congenita, declamava i versi di un sonetto di Aleardo Aleardi che diceva aver imparato dalla madre e che trascrivo così come la ricordo appresa dalla sua voce. "Quando all'april la valle il monte il prato, / i margini del rio, / ogni campo dai fiori è festeggiato, / guardo e dimando, dite bei colori, / ditemi cos'è Dio, / Bellezza mi rispondono quei fiori!" Cercava così di trasmetterci il suo pensiero per cui Dio è Ordine, Bellezza, Amore. C'è un fiore molto comune di cui non ricordo il nome, che è formato da un lungo stelo all'estremità del quale se ne irraggiano, stretti da un nodo, per lo meno altri venti che terminano con una stellina bianca. Con gli steli di questo fiore, manipolati in un certo modo, si ottiene un cestino perfetto simile ai fustelli per la ricotta. Da qui la storia di Ricottina, la giovane paesanella, che avendo ricevuto in dono un fustello di ricotta, sulla strada del ritorno, era riuscita a crearci sopra un suo sogno e renderlo grande e meraviglioso. Tanto meraviglioso, da farle dimenticare di avere la ricotta in testa e farla cadere a terra, quando, sulla porta del suo immaginario castello, s'inchinava per salutare la folla che veniva a riverirla. La morale che mamma ne traeva era che la vita senza sogni è un po' come il mondo senza luce, piatta e scolorita. Ma, dopo una meditata pausa aggiungeva: - Senza esagerare però! - Poi siamo cresciuti. Il riscaldamento in casa ha quasi eliminato la bronchitella invernale. Mamma è andata avanti negli anni e le escursioni primaverili sono rimaste solo un ricordo. I richiami poetici però, ha continuato ad usarli sempre, tant'è vero, che spesso la chiamavo MAMMA POESIA. Ella mostrava di non gradire tale appellativo, ma io son sicuro che in fondo Le facesse piacere.

VIA BORGO DEGLI ORIZZONTI
 
 
Spesso mi viene in mente Via Borgo degli Orizzonti com'era negli anni quaranta. Era diversa da come la vediamo oggi. La piazzetta non esisteva. C'era solo un piccolo slargo che correva lungo il retroprospetto del Palazzo degli Spettacoli fino a fermarsi contro lo sperone del muro di sostegno di un orto. Il fondo non era pavimentato e sui bordi ci nasceva l'ortica, il finocchio selvatico e la mentuccia. Le facciate delle case mostravano i segni di un affaticamento centenario e le porte avevano ancora la gattaiola.
Le porte di giorno erano sempre aperte, tanto che ognuno di noi conosceva perfettamente l'interno di quel primo ambiente che per solito era cucina, soggiorno e stanza di lavoro.
Via Borgo degli Orizzonti non era un vicolo come tanti altri contorti e scivolosi, tutti gradini e cunette di pietra levigata. Era anche allora una strada piana e larga che ci permetteva realizzare giochi altrimenti impossibili. Era inoltre discreta e riservata. Non si esponeva alla vista del passante come i vicoli civettuoli che spiano i movimenti della via principale facendo capolino da dietro una curva o la spalla di un arco. Ci si accorgeva della sua esistenza solo dopo aver sceso pochi gradini di Via Fonte della Penombra e passato l'arco che fa da contrafforte fra due muri prospicienti.
All'inizio la strada si presentava un po' angusta, stretta com'era tra due case sufficientemente alte da non permettere al sole di toccar terra.
Dopo qualche metro però, si spalancava come una balconata sugli orti, sui tetti, sui meravigliosi prati sottostanti, sullo sfondo di morbide colline e sui profili sfumati di montagne lontane.
Sul lato sinistro, dopo il Palazzo degli Spettacoli, c'erano i muri di sostegno dei terrapieni degli orti da cui pendevano ciocche di capperi e di erba muraiola. A destra per un bel tratto, il parapetto di pietra permetteva ancora alla vista di spaziare fino all'ultimo orizzonte prima di entrare nell'ombra umida delle pietre. Se ne andava poi fra muri alti e case basse, dove ogni tanto si apriva una nera via di fuga verso misteriosi anfratti, per finire in uno slargo dove la luce arrivava filtrata dalle foglie di un vecchio gelso dando alle pietre il colore dell'ambra. Qui, incontrando lo spigolo del muro di cinta di un orto che la tagliava, Via Borgo degli Orizzonti concludeva il suo cammino sdoppiandosi in due tronconi: quello di sinistra saliva ansimando fino a ricongiungersi con Via dell'Arco Luminoso, mentre quello di destra scivolava con la grazia di un serpe verso fantastici scenari.
I colori di Via Borgo degli Orizzonti non erano sempre gli stessi. Cambiava pelle con il cambiare delle stagioni dell'anno e delle ore del giorno. Nelle mattine di primavera, al contatto del primo sole, la pietra rosa del Subasio diveniva pulsante come carne viva. Con la pioggia assumeva un aspetto terreo, funesto ed il contorno di prati e colline scompariva dentro una cortina lattiginosa ed impenetrabile.
In certi giorni dell'anno la tramontana vi si insediava rimanendo l'unica presenza. Di notte la sentivamo gemere, poi urlare e lanciare assalti rabbiosi contro gl'infissi che scricchiolavano oppressi da una spinta insopportabile, finché esausta, s'addormentava sui mucchi di carta e foglie secche che aveva radunato negli angoli della strada facendoli appena palpitare con il respiro della sua lenta agonia.
Dopo una nevicata, le case e gli orti si trasfiguravano in candide composizioni di silenzi, dove le voci dei rari passanti vi si univano con la delicatezza irreale di un'eco lontana.
Forse Via Borgo degli Orizzonti non era così. Credo che avesse anche un altro nome. Ma è così che l'ho vista con gli occhi di allora ed è così che la ricordo.

 
I FONDI DEL COMUNE
 
 
Tante volte avevamo tentato di carpire i segreti di quei vani oscuri aggrappandoci all'inferriata dell'unica finestrina che vi guardava dentro, senza mai riuscirci. Spesso, per quegli strani effetti che un raggio di luce può generare passando attraverso la fessura di una vecchia porta, avevamo avuto strane visioni di orripilanti mostri, adagiati in un sepolcrale letargo.
Bastava allora che uno di noi, per burla, lanciasse una sassata contro il portone di quercia, perché il terrore che quei mostri si svegliassero ed invadessero la strada, ci faceva fuggire e rincorrere le nostre grida giù per i vicoli fino a perderci come un esercito in rotta.
- Chi ci abita là dentro? -
- Nessuno - ci disse un'anziana Signora che passava spesso per la nostra strada.
- Sono i fondi del Comune. Tanti anni fa c'era l'officina di un fabbro. Da quando il fabbro è morto i fondi sono rimasti chiusi. -
Ma un pomeriggio di marzo, quando gli orti si colorano di un verde tenero come d'acqua stagnante, trovammo il portone aperto e sulla soglia una civetta assicurata alla gruccia da una fine catenella di ottone. Rimanemmo a guardare da una certa distanza pieni di curiosità e precauzione. Dal fondo usciva un fumo acre e puzzolente che intasava le vie respiratorie e a tratti, lo squillare di un martello battuto sull'incudine. La civetta osservava noi con l'intensità di chi vuol capire le mosse dell'avversario roteando la testa e bilanciandosi ora a destra ora a sinistra. Quando arrivammo davanti alla porta per guardare dentro, fummo accolti da un lancio di attrezzi e di urlacci che c'inseguirono per un buon tratto di strada. Scappammo a salti come caprioli e solo quando avemmo raggiunto la distanza di sicurezza ci fermammo a guardare indietro. Il vecchio che ci aveva così aggrediti, stava raccogliendo i suoi martelli ed ogni tanto sollevava il braccio in segno di minaccia. Con quel suo atteggiamento, aveva messo bene in chiaro che da quel momento, dovevamo sloggiare da quel tratto di strada. La sua reazione ci sembrò esagerata, in fondo non avevamo fatto niente di male. Uno di noi avanzò l'idea che fosse un matto scappato dal manicomio e tutti ridemmo di cuore dimenticando quello che era successo. Il Messo Comunale che stava passando con la cartella dei documenti sotto braccio e che aveva osservato la scena, ci raccomandò di non metterci tutti insieme davanti alla porta.
- Il poveretto che sta lavorando là dentro è vecchio e quasi cieco ed è inoltre molto geloso della sua civetta. Se proprio volete guardare, fatelo, ma uno alla volta, in modo che lui non se ne accorga. - Il Messo Comunale era una nostra vecchia conoscenza. Quando passava da quelle parti, si fermava a parlare con noi ed aveva sempre dei buoni consigli da dispensare. Una volta ci aveva separati da una rissa, ordinandoci, con l'autorità che gli derivava dall'età e dalla divisa, di fare la pace, prendere un libro e guardare tutti insieme le figure. La casa più vicina era la mia, per cui toccò a me cercare il libro della concordia. Mi presentai con una vecchia edizione della Divina Commedia illustrata da Gustavo Dorè. L'impatto fu notevole ed in seguito, dovetti riprendere quel librone a richiesta di tutti, incantati dalle drammatiche scene dell'Inferno Dantesco. Il Messo se ne andò via solo quando si rese conto che la sua iniziativa aveva avuto pieno successo. Facemmo come lui ci disse. Uno alla volta, appiattiti contro il muro, spiammo il lavoro del vecchio all'interno di quell'antro. Piccolo di statura, con un paio di occhiali dalle spesse lenti, il labbro inferiore sormontato da quello superiore, calvo, ad eccezione di una coroncina di riccioli canuti appena sotto la nuca, si muoveva con difficoltà tra pentole e brocche di rame. La scala larga quanto l'apertura della porta scendeva per una decina di gradini verso un pavimento di terra battuta. La volta e le pareti in pietra erano nere dalla fuliggine. C'erano montati su piedistalli in muratura, un trapano con un enorme volano, un maglio ed una trancia ridotti ormai all'immobilità dalla ruggine e dal tempo. In mezzo all'antro, una forgia accesa liberava una fiammata di vividi colori che si frantumava in una miriade di scintille man mano che saliva verso il soffitto. Sull'ultimo gradino in basso, dove il vecchio aveva disposto tutta la serie dei suoi attrezzi, un paiolo vomitava una schiuma pestifera e su un foglio di cartone, allineate e luccicanti, una serie di posate appena rivestite da uno strato di stagno. Quando qualcuno si sporgeva tanto da farsi notare, ricominciava il lancio di martelli, tenaglie ed invettive che mettevano in agitazione noi e la civetta. All'inizio di quell'autunno però, quando l'alito dei comignoli ancora profumava d'ulivo e gli orti si tingevano di rosso per i tanti pergolati che c'erano, il portone di quercia si richiuse. Il vecchio era passato a miglior vita. Recuperammo col tempo quel tratto di strada che in un certo senso ci era stato espropriato, ma ci rimase addosso una certa malinconia per ciò che avevamo perso. Fu come se all'improvviso ci fosse mancato un compagno di giochi, un antagonista...
 

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Ins. 30-01-2006