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- Desiderata
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- Mi manca nulla,
senz'altro sarei felice se ogni notte non la sognassi,
quella manina che si tende, che m'invoca, dalla buca
profonda, e tutto intorno è fango, e io vorrei
aiutare chi la protende, ma sono paralizzata, vorrei
muovermi, ma non mi muovo, non posso muovermi: ed ecco
che vedo solo più le ditina, e poi niente,
è sparita, precipitata nel baratro, e anche a
me allora pare di precipitare da un'altezza infinita,
e mi manca il fiato come per un tonfo, come se
precipitassi davvero, e mi desto sudata, angosciata, e
urlo, e mio marito, come sempre, mi deve consolare, ma
rassegnato, non domanda più nulla, mi stringe
solamente a sé, e ripete le parole ormai
logore:
- "Non piangere,
stella mia, è solo un sogno ... ci sono io,
vicino a te, e ti amo..."
- Confortata dalla
sua voce, mi sveglio alla realtà e a poco a
poco mi calmo, ma l'angoscia è sempre in me, ed
è così quasi ogni notte, non vorrei
venisse mai, la notte.
- E allora penso:
"Dio mio, perché devo soffrire, che cosa ho
fatto, perché mi castighi
così..."
- Ma purtroppo lo so
il perché, lo so ...
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- Nacqui di
primavera, non sotto il solito cavolo ma, come una
regina, in un'aiuola di rose, e non mi punsi
nemmeno.
- Quando mi
raccolsero i miei genitori impazzirono di
gioia.
- Raccontano che
fossi talmente bella da apparire irreale.
- Sulla testolina la
lanuggine dorata era chiara da sembrare argento, e gli
occhi splendevano come stelle azzurre.
- Mio padre che mi
aveva attesa tanto (ero la prima figlia ed aveva
quarant'anni) volle chiamarmi Desiderata.
-
- Appena nata,
già si diceva ch'ero stata baciata dalla
fortuna.
- La casa bianca
sulle pendici della collina era un tripudio di fiori e
di sole.
- La culla di legno,
vecchia di generazioni, venne dipinta di rosa e
rivestita con tendine di organza ricamate con nodi
d'amore.
-
- Mio padre attendeva
tutto il giorno il momento di rientrare a
casa.
- Avevo circa un
anno.
- La mamma aveva
cucito dei legacci ad un grosso cuscino
- Lui lo legava sotto
il sedere, poi si accovacciava in terra, mi prendeva
in braccio e ci trascinavamo sul pavimento imitando il
verso del treno.
- Io lanciavo piccoli
strilli di gioia.
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- Adoravo mio padre,
tanto quanto lui adorava me.
- Potevo avere due
anni, e già ero esperta nell'arte di mandarlo
in visibilio.
- "Sei il papà
più bello del mondo" tubavo,
accarezzandolo.
- E guai se qualcuno
osava sostenere il contrario!
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- Questo è
quanto mi narrava la mamma quando, ancora bambina,
seduta sul suo grembo, le domandavo: "Mamma, ti prego,
raccontami di quand'ero piccina
piccina..."
- E tanto adoravo
sentirla favoleggiare sulla minuscola Desiderata
raccolta in un'aiuola di rose profumate, che mi facevo
ripetere spesso la storia così che, alla fine,
a forza di sentirla e di immedesimarmi in essa, mi
pareva che tutto fosse frutto di una mia reminiscenza,
i primi vagiti tra i fiori, le manine festose protese
oltre il bordo di organza della culla rosa, i giochi
con papà, quasi che, prodigiosamente, la
memoria potesse arrivare fino al momento in cui avevo
visto la luce, e neppure mi sfiorava il pensiero che
le scene che mi apparivano nitide altro non fossero
che il risultato del racconto ripetuto e della mia
immaginazione.
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- Avevo forse quattro
anni, ed ecco i primi ricordi reali, sfocati e
confusi, perché sorretti soltanto dalla labile
memoria infantile, rispetto ai precedenti,
perfettamente generati dalla fantasia.
- Nella bella
stagione il babbo, quand'era libero, mi portava spesso
in giro in bicicletta. Mi sedeva su di un seggiolino
imbottito che fissava di fronte al
manubrio.
- Quelle gite erano
una festa. Si girovagava per i sentieri di campagna,
io raccoglievo un mazzolino di fiori da portare alla
mamma, poi andavamo a mangiare il gelato in una
baracca allegra con le imposte rosse e verniciata di
verde smeraldo.
- Ma un giorno, non
mi sovviene per quale motivo, cademmo dalla bici, e
rimasi con una gambina impigliata tra i
raggi.
- Papà
impiegò parecchio per liberarla, ed era tutta
insanguinata.
- Eravamo in aperta
campagna e non c'era nessuno a
soccorrerci.
- Poi mi prese in
braccio e camminò a lungo.
- Rammento il viso
spaventato della mamma quando ci vide e finalmente mi
distesero nel lettone (il letto dei miei genitori:
immenso, caldo, dolce, profumato di loro) e
arrivò il dottore a tranquillizzarli: non c'era
nulla di rotto.
- Fu l'ultima gita in
bicicletta.
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- Un'altra
reminiscenza di quel periodo: un'enorme luna arancio
in un cielo d'inchiostro.
- Eravamo su di un
treno merci che arrancava sferragliando
asmatico.
- Trattenuta per le
mani dai miei genitori, mi protendevo attraverso un
portellone spalancato sulla notte guardando incantata
la tondeggiante luminosità sospesa nel
cielo.
- Non avevo mai visto
una luna così grande!
- E pareva avere
occhi, naso e bocca!
- Tornavamo da una
gita avventurosa in Valle d'Aosta.
- L'auto aveva fatto
i capricci ed avevamo dovuto abbandonarla.
- Sembra che il mezzo
più veloce che avessimo trovato per ritornare a
casa fosse quel treno.
- Ma non rammento
altro.
- Ricordo solo una
luna immensa che invadeva il cielo.
-
- Un episodio che
s'inserisce a forza, senza che voglia
rimembrarlo.
- Dovevo avere cinque
anni.
- Ero seduta su di un
muretto a fianco del cancello d'ingresso di casa e
pettinavo la bambola.
- M'immagino con i
lunghi capelli biondi arricciati a "cannelloni" e
raccolti da un grosso nastro di seta (le foto di quel
periodo mi ritraggono così), il viso chinato
teneramente sulla bambola.
- Un uomo doveva
osservarmi, perché poi lo sentii apostrofarmi:
"Vuoi una caramella?".
- Lo
guardai.
- Nessuno mi aveva
insegnato a diffidare degli sconosciuti.
- "Sì,
grazie."
- "Ma non ce l'ho,
qui. Devi venire un momento con me."
- "Dove?"
- "Abito vicino. Due
minuti."
- Lo seguii con la
mia bambola.
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- Scendevo le scale
buie di uno scantinato dietro di lui che ora mi teneva
per mano.
- "Ma dove
andiamo?"
- "Sta tranquilla.
Siamo arrivati."
- Mi diede la
caramella.
- Poi mi prese in
braccio e mi adagiò su qualcosa di
morbido
- (forse un vecchio
divano o un materasso).
- Era
buio.
- Incominciai ad
avere paura.
- Piagnucolavo e
invocavo la mamma.
- Lui mi accarezzava
con delicatezza, senza farmi male.
- Intuivo che
ciò che mi faceva era una brutta cosa, ma non
osavo muovermi.
- Poi egli
rinsavì (forse ebbe pena delle mie lacrime) e
mi lasciò andare.
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- Tornai a casa con
la bambola.
- Il vestito era
stazzonato, gli occhi rossi di pianto.
- "Dove sei
stata?".
- La mamma era sulla
soglia, spaventata.
- "Mi sono persa, non
trovavo la strada".
- Corsi nella mia
cameretta.
- Provavo vergogna
per quello che era successo, quasi fosse stata una mia
colpa.
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- Non avrei
rammentato le fattezze di quell'uomo, né se era
giovane o vecchio, ma lo avevo visto? Era come se
fosse stato invisibile.
- Non ricordavo
nemmeno il luogo del misfatto.
- Era un episodio da
cancellare.
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- Scivolarono via
alcuni anni sereni, senza avvenimenti
particolari.
- La vita in campagna
era tranquilla e lieta, papà doveva spesso
assentarsi per lavoro ma, quando tornava, era carico
di baci e doni.
- Le stagioni si
rincorrevano, e ognuna offriva odori, colori,
sensazioni nuove, che riscoprivo ogni volta con
stupore,
- Avevo più o
meno otto anni quando ci trasferimmo a
Torino.
- Durante i fine
settimana, ritornavamo però spesso nella casa
bianca in cima alla collina.
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- Ho circa dieci
anni.
- A scuola hanno riso
quando ho detto d'essere nata in un'aiuola di
rose.
- A casa finalmente
la mamma mi ha spiegato come nascono i bambini e che,
quella dell'aiuola, era soltanto una
favola.
- Credeva lo avessi
capito.
- Ma io sono rimasta
sconvolta.
- È tanto
tempo che le chiedo di "comprarmi" una
sorellina.
- Ora ho cambiato
idea: "Non la voglio, non voglio che tu soffra, mai
più!"
- E mentre la
supplico, sto quasi piangendo.
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- "Ed ebbe inizio la
stagione dell'amore..."
- Potrei definire
così il periodo in cui mi innamoravo
facilmente? Ma è mai terminato? Da allora
credo, bene o male, di essere stata sempre
innamorata.
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- Allora credevo di
odiarlo, ma ora penso che fu lui, quel ragazzino dai
capelli nerissimi e ricciuti e il viso da scugnizzo,
il primo maschio ad interessarmi.
- Tempo permettendo,
scorribandavo con la mia bici rossa lungo i viottoli
dei giardini vicini a dove abitavo.
- Lui doveva avere la
stessa passione, perché lo incontravo
sempre.
- Interrompeva la mia
corsa mettendo di traverso la sua bici, e poi mi
faceva ogni sorta di dispetti tanto che ogni volta
finiva che ci pestavamo di santa ragione!
- Lo odiavo, ma se ci
incontravamo senza essere sul sellino, lui era timido,
gentile e compunto e io arrossivo fino alla radice dei
capelli.
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- Ho undici anni e
sono al mare per le vacanze estive.
- Giro, in gruppo,
con un ragazzino che ha un anno più di me.
Stiamo bene insieme, ma non c'è mai stato nulla
tra di noi, nemmeno un bacio.
- Poi, un giorno che
giochiamo a "guardia e ladri" e siamo nascosti in
costume nel buio di un androne, le nostre spalle si
sfiorano.
- E provo, per la
prima volta, un desiderio indefinibile, che mi lascia
turbata.
- Lo stesso che si
replica nel luccicore dei suoi occhi.
- Eppure non osiamo
toccarci.
- Ci amiamo
guardandoci.
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- È nello
stesso periodo che la sensualità latente mi
guida la mano.
- Mi piace disegnare
figure, e invento interminabili storie a fumetti dove
c'è amore, passione e, soprattutto,
sesso.
- Scrivendo e
disegnando amplessi spesso, immedesimandomi, provo la
stessa emozione di quel giorno
nell'androne.
- Poi le nascondo
perché non le scopra la mamma.
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- Il mio terzo amore
platonico è il "Lungo", un ragazzo alto quasi
due metri.
- Per questo, quando
penso a lui, o ne fantastico con le amiche, lo chiamo
così, non conoscendone il nome.
- Forse del "Lungo"
mi affascina appunto l'altezza (difatti non
ricorderò tratti particolari del suo
viso).
- Finché dura
la cotta girovago come una cretina per incontrarlo
(abita a due isolati di distanza dalla mia
casa)
- Non mi vede
nemmeno.
- Ha già una
ragazza lunga quasi quanto lui!
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- A dodici anni ero
accanita lettrice di quei libri per adolescenti,
rilegati in tela rossa (con un quadrifoglio d'oro
impresso nell'angolo in basso a destra della prima di
copertina, se ben ricordo) ove le vicende, narrate in
modo divertente, si svolgevano spesso in
collegio.
- Furono forse queste
letture edulcorate, e un indefinito desiderio di
novità, a insinuarmi il miraggio di una vita in
comune con ragazze della mia età.
- Quando finalmente,
al termine della prima media, osai esternare il mio
pensiero con un perentorio: "voglio studiare in
collegio", ero pronta a lottare per ottenere
ciò che desideravo. Invece papà e mamma
non mi contrastarono.
- Intelligentemente
compresero il bisogno di evadere da una casa ov'ero
l'unica ragazzina e il pericolo, per il mio carattere,
che mi chiudessi in me stessa, come già facevo,
passando le giornate a fantasticare.
- A fine giugno fui
così iscritta come interna presso un collegio
femminile, gestito dalle suore, distante circa trenta
chilometri dalla mia città. Convitto antico e
rinomato, medie e liceo erano stati appena trasferiti
in un edificio moderno, appena ultimato, con un grande
parco a metà collina, affacciato su una
graziosa cittadina. Nella vecchia sede, un monastero
medioevale arroccato in cima al colle, erano rimaste
soltanto le elementari.
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- Così, un
giorno soleggiato sul finire di settembre, approdo in
collegio.
- Sono un po'
emozionata, non mi sono mai allontanata da
casa.
- Mentre i miei
genitori parlano con le suore guardo da una
porta-finestra giù, nel giardino.
- Alcune ragazze
giocano a pallavolo.
- Papà e mamma
mi baciano, poi le solite raccomandazioni, e se ne
vanno.
- Un attimo di
tristezza.
- Una suora mi prende
per un braccio: "Vieni, che ti presento alle tue
compagne!"
- Scendiamo in
cortile.
- Il gruppetto mi
guarda.
- Il gioco si
ferma.
- Mi sono attorno con
simpatia.
- "Sei delle
commerciali?" mi chiede una ragazza.
- "No. Seconda
media".
- Delusione: "Non sei
con noi. Peccato! Hai una faccia simpatica. Mi
dispiace che vai a finire con quelle..."
- "Perché?"
domando.
- Ha capelli color
carota. Mi guarda dietro le spessi lenti da
miope.
- "Vedrai
perché... Perché sono
stronze!"
- È il primo
approccio col collegio.
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