Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
- Grazia Fassio Surace - Desiderata
- Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi) 15x21 - pp. 220 - Euro 14,70 - ISBN 88-8356-692-0
- Pubblicazione realizzata con il contributo de
- IL CLUB degli autori in quanto l'autore è finalista nel concorso letterario "J. Prévert" 2003
Prefazione - Desiderata è bella, sensibile, intelligente, corteggiatissima.
- Nel suo peregrinare alla ricerca dell'amore, colleziona però solo storie deludenti. O forse è lei sbagliata? Se lo domanda, Desiderata, attraversando la sua giovane esistenza con rari spunti consolatori, spietata soprattutto verso sé stessa.
- L'Autrice possiede la non comune capacità di coinvolgere il lettore: succede un po' di tutto alla protagonista, e allora si ride, si piange, e si parteggia per Desiderata.
- La storia si snoda tra gli anni sessanta, e va quindi collocata nella mentalità di quel tempo.
- Altro non sveliamo: perché sia il lettore a costruirsi, leggendo, il suo finale.
Nota dell'autrice - Contrariamente a quanto può sembrare, la vicenda narrata non è autobiografica: solo alcuni episodi d'infanzia e adolescenza s'avvicinano a mie reminiscenze. Difatti la mia storia non assomiglia affatto a quella di Desiderata: ho un amore da sempre, due figli meravigliosi, due sorelle rompiscatole come me, e i miei genitori non mi hanno mai deluso. A tutti loro - la mia vita - dedico questo libro.
- L'uso della prima persona è stata una scelta per immedesimarmi totalmente nella protagonista. Però in qualcosa Desiderata mi è simile: nell'insicurezza, nella sofferenza interiore, nel mettersi continuamente in discussione.
- Per questa simbiosi, la amo.
Desiderata
- Mi manca nulla, senz'altro sarei felice se ogni notte non la sognassi, quella manina che si tende, che m'invoca, dalla buca profonda, e tutto intorno è fango, e io vorrei aiutare chi la protende, ma sono paralizzata, vorrei muovermi, ma non mi muovo, non posso muovermi: ed ecco che vedo solo più le ditina, e poi niente, è sparita, precipitata nel baratro, e anche a me allora pare di precipitare da un'altezza infinita, e mi manca il fiato come per un tonfo, come se precipitassi davvero, e mi desto sudata, angosciata, e urlo, e mio marito, come sempre, mi deve consolare, ma rassegnato, non domanda più nulla, mi stringe solamente a sé, e ripete le parole ormai logore:
- "Non piangere, stella mia, è solo un sogno ... ci sono io, vicino a te, e ti amo..."
- Confortata dalla sua voce, mi sveglio alla realtà e a poco a poco mi calmo, ma l'angoscia è sempre in me, ed è così quasi ogni notte, non vorrei venisse mai, la notte.
- E allora penso: "Dio mio, perché devo soffrire, che cosa ho fatto, perché mi castighi così..."
- Ma purtroppo lo so il perché, lo so ...
- Nacqui di primavera, non sotto il solito cavolo ma, come una regina, in un'aiuola di rose, e non mi punsi nemmeno.
- Quando mi raccolsero i miei genitori impazzirono di gioia.
- Raccontano che fossi talmente bella da apparire irreale.
- Sulla testolina la lanuggine dorata era chiara da sembrare argento, e gli occhi splendevano come stelle azzurre.
- Mio padre che mi aveva attesa tanto (ero la prima figlia ed aveva quarant'anni) volle chiamarmi Desiderata.
- Appena nata, già si diceva ch'ero stata baciata dalla fortuna.
- La casa bianca sulle pendici della collina era un tripudio di fiori e di sole.
- La culla di legno, vecchia di generazioni, venne dipinta di rosa e rivestita con tendine di organza ricamate con nodi d'amore.
- Mio padre attendeva tutto il giorno il momento di rientrare a casa.
- Avevo circa un anno.
- La mamma aveva cucito dei legacci ad un grosso cuscino
- Lui lo legava sotto il sedere, poi si accovacciava in terra, mi prendeva in braccio e ci trascinavamo sul pavimento imitando il verso del treno.
- Io lanciavo piccoli strilli di gioia.
- Adoravo mio padre, tanto quanto lui adorava me.
- Potevo avere due anni, e già ero esperta nell'arte di mandarlo in visibilio.
- "Sei il papà più bello del mondo" tubavo, accarezzandolo.
- E guai se qualcuno osava sostenere il contrario!
- Questo è quanto mi narrava la mamma quando, ancora bambina, seduta sul suo grembo, le domandavo: "Mamma, ti prego, raccontami di quand'ero piccina piccina..."
- E tanto adoravo sentirla favoleggiare sulla minuscola Desiderata raccolta in un'aiuola di rose profumate, che mi facevo ripetere spesso la storia così che, alla fine, a forza di sentirla e di immedesimarmi in essa, mi pareva che tutto fosse frutto di una mia reminiscenza, i primi vagiti tra i fiori, le manine festose protese oltre il bordo di organza della culla rosa, i giochi con papà, quasi che, prodigiosamente, la memoria potesse arrivare fino al momento in cui avevo visto la luce, e neppure mi sfiorava il pensiero che le scene che mi apparivano nitide altro non fossero che il risultato del racconto ripetuto e della mia immaginazione.
- Avevo forse quattro anni, ed ecco i primi ricordi reali, sfocati e confusi, perché sorretti soltanto dalla labile memoria infantile, rispetto ai precedenti, perfettamente generati dalla fantasia.
- Nella bella stagione il babbo, quand'era libero, mi portava spesso in giro in bicicletta. Mi sedeva su di un seggiolino imbottito che fissava di fronte al manubrio.
- Quelle gite erano una festa. Si girovagava per i sentieri di campagna, io raccoglievo un mazzolino di fiori da portare alla mamma, poi andavamo a mangiare il gelato in una baracca allegra con le imposte rosse e verniciata di verde smeraldo.
- Ma un giorno, non mi sovviene per quale motivo, cademmo dalla bici, e rimasi con una gambina impigliata tra i raggi.
- Papà impiegò parecchio per liberarla, ed era tutta insanguinata.
- Eravamo in aperta campagna e non c'era nessuno a soccorrerci.
- Poi mi prese in braccio e camminò a lungo.
- Rammento il viso spaventato della mamma quando ci vide e finalmente mi distesero nel lettone (il letto dei miei genitori: immenso, caldo, dolce, profumato di loro) e arrivò il dottore a tranquillizzarli: non c'era nulla di rotto.
- Fu l'ultima gita in bicicletta.
- Un'altra reminiscenza di quel periodo: un'enorme luna arancio in un cielo d'inchiostro.
- Eravamo su di un treno merci che arrancava sferragliando asmatico.
- Trattenuta per le mani dai miei genitori, mi protendevo attraverso un portellone spalancato sulla notte guardando incantata la tondeggiante luminosità sospesa nel cielo.
- Non avevo mai visto una luna così grande!
- E pareva avere occhi, naso e bocca!
- Tornavamo da una gita avventurosa in Valle d'Aosta.
- L'auto aveva fatto i capricci ed avevamo dovuto abbandonarla.
- Sembra che il mezzo più veloce che avessimo trovato per ritornare a casa fosse quel treno.
- Ma non rammento altro.
- Ricordo solo una luna immensa che invadeva il cielo.
- Un episodio che s'inserisce a forza, senza che voglia rimembrarlo.
- Dovevo avere cinque anni.
- Ero seduta su di un muretto a fianco del cancello d'ingresso di casa e pettinavo la bambola.
- M'immagino con i lunghi capelli biondi arricciati a "cannelloni" e raccolti da un grosso nastro di seta (le foto di quel periodo mi ritraggono così), il viso chinato teneramente sulla bambola.
- Un uomo doveva osservarmi, perché poi lo sentii apostrofarmi: "Vuoi una caramella?".
- Lo guardai.
- Nessuno mi aveva insegnato a diffidare degli sconosciuti.
- "Sì, grazie."
- "Ma non ce l'ho, qui. Devi venire un momento con me."
- "Dove?"
- "Abito vicino. Due minuti."
- Lo seguii con la mia bambola.
- Scendevo le scale buie di uno scantinato dietro di lui che ora mi teneva per mano.
- "Ma dove andiamo?"
- "Sta tranquilla. Siamo arrivati."
- Mi diede la caramella.
- Poi mi prese in braccio e mi adagiò su qualcosa di morbido
- (forse un vecchio divano o un materasso).
- Era buio.
- Incominciai ad avere paura.
- Piagnucolavo e invocavo la mamma.
- Lui mi accarezzava con delicatezza, senza farmi male.
- Intuivo che ciò che mi faceva era una brutta cosa, ma non osavo muovermi.
- Poi egli rinsavì (forse ebbe pena delle mie lacrime) e mi lasciò andare.
- Tornai a casa con la bambola.
- Il vestito era stazzonato, gli occhi rossi di pianto.
- "Dove sei stata?".
- La mamma era sulla soglia, spaventata.
- "Mi sono persa, non trovavo la strada".
- Corsi nella mia cameretta.
- Provavo vergogna per quello che era successo, quasi fosse stata una mia colpa.
- Non avrei rammentato le fattezze di quell'uomo, né se era giovane o vecchio, ma lo avevo visto? Era come se fosse stato invisibile.
- Non ricordavo nemmeno il luogo del misfatto.
- Era un episodio da cancellare.
- Scivolarono via alcuni anni sereni, senza avvenimenti particolari.
- La vita in campagna era tranquilla e lieta, papà doveva spesso assentarsi per lavoro ma, quando tornava, era carico di baci e doni.
- Le stagioni si rincorrevano, e ognuna offriva odori, colori, sensazioni nuove, che riscoprivo ogni volta con stupore,
- Avevo più o meno otto anni quando ci trasferimmo a Torino.
- Durante i fine settimana, ritornavamo però spesso nella casa bianca in cima alla collina.
- Ho circa dieci anni.
- A scuola hanno riso quando ho detto d'essere nata in un'aiuola di rose.
- A casa finalmente la mamma mi ha spiegato come nascono i bambini e che, quella dell'aiuola, era soltanto una favola.
- Credeva lo avessi capito.
- Ma io sono rimasta sconvolta.
- È tanto tempo che le chiedo di "comprarmi" una sorellina.
- Ora ho cambiato idea: "Non la voglio, non voglio che tu soffra, mai più!"
- E mentre la supplico, sto quasi piangendo.
- "Ed ebbe inizio la stagione dell'amore..."
- Potrei definire così il periodo in cui mi innamoravo facilmente? Ma è mai terminato? Da allora credo, bene o male, di essere stata sempre innamorata.
- Allora credevo di odiarlo, ma ora penso che fu lui, quel ragazzino dai capelli nerissimi e ricciuti e il viso da scugnizzo, il primo maschio ad interessarmi.
- Tempo permettendo, scorribandavo con la mia bici rossa lungo i viottoli dei giardini vicini a dove abitavo.
- Lui doveva avere la stessa passione, perché lo incontravo sempre.
- Interrompeva la mia corsa mettendo di traverso la sua bici, e poi mi faceva ogni sorta di dispetti tanto che ogni volta finiva che ci pestavamo di santa ragione!
- Lo odiavo, ma se ci incontravamo senza essere sul sellino, lui era timido, gentile e compunto e io arrossivo fino alla radice dei capelli.
- Ho undici anni e sono al mare per le vacanze estive.
- Giro, in gruppo, con un ragazzino che ha un anno più di me. Stiamo bene insieme, ma non c'è mai stato nulla tra di noi, nemmeno un bacio.
- Poi, un giorno che giochiamo a "guardia e ladri" e siamo nascosti in costume nel buio di un androne, le nostre spalle si sfiorano.
- E provo, per la prima volta, un desiderio indefinibile, che mi lascia turbata.
- Lo stesso che si replica nel luccicore dei suoi occhi.
- Eppure non osiamo toccarci.
- Ci amiamo guardandoci.
- È nello stesso periodo che la sensualità latente mi guida la mano.
- Mi piace disegnare figure, e invento interminabili storie a fumetti dove c'è amore, passione e, soprattutto, sesso.
- Scrivendo e disegnando amplessi spesso, immedesimandomi, provo la stessa emozione di quel giorno nell'androne.
- Poi le nascondo perché non le scopra la mamma.
- Il mio terzo amore platonico è il "Lungo", un ragazzo alto quasi due metri.
- Per questo, quando penso a lui, o ne fantastico con le amiche, lo chiamo così, non conoscendone il nome.
- Forse del "Lungo" mi affascina appunto l'altezza (difatti non ricorderò tratti particolari del suo viso).
- Finché dura la cotta girovago come una cretina per incontrarlo (abita a due isolati di distanza dalla mia casa)
- Non mi vede nemmeno.
- Ha già una ragazza lunga quasi quanto lui!
- A dodici anni ero accanita lettrice di quei libri per adolescenti, rilegati in tela rossa (con un quadrifoglio d'oro impresso nell'angolo in basso a destra della prima di copertina, se ben ricordo) ove le vicende, narrate in modo divertente, si svolgevano spesso in collegio.
- Furono forse queste letture edulcorate, e un indefinito desiderio di novità, a insinuarmi il miraggio di una vita in comune con ragazze della mia età.
- Quando finalmente, al termine della prima media, osai esternare il mio pensiero con un perentorio: "voglio studiare in collegio", ero pronta a lottare per ottenere ciò che desideravo. Invece papà e mamma non mi contrastarono.
- Intelligentemente compresero il bisogno di evadere da una casa ov'ero l'unica ragazzina e il pericolo, per il mio carattere, che mi chiudessi in me stessa, come già facevo, passando le giornate a fantasticare.
- A fine giugno fui così iscritta come interna presso un collegio femminile, gestito dalle suore, distante circa trenta chilometri dalla mia città. Convitto antico e rinomato, medie e liceo erano stati appena trasferiti in un edificio moderno, appena ultimato, con un grande parco a metà collina, affacciato su una graziosa cittadina. Nella vecchia sede, un monastero medioevale arroccato in cima al colle, erano rimaste soltanto le elementari.
- Così, un giorno soleggiato sul finire di settembre, approdo in collegio.
- Sono un po' emozionata, non mi sono mai allontanata da casa.
- Mentre i miei genitori parlano con le suore guardo da una porta-finestra giù, nel giardino.
- Alcune ragazze giocano a pallavolo.
- Papà e mamma mi baciano, poi le solite raccomandazioni, e se ne vanno.
- Un attimo di tristezza.
- Una suora mi prende per un braccio: "Vieni, che ti presento alle tue compagne!"
- Scendiamo in cortile.
- Il gruppetto mi guarda.
- Il gioco si ferma.
- Mi sono attorno con simpatia.
- "Sei delle commerciali?" mi chiede una ragazza.
- "No. Seconda media".
- Delusione: "Non sei con noi. Peccato! Hai una faccia simpatica. Mi dispiace che vai a finire con quelle..."
- "Perché?" domando.
- Ha capelli color carota. Mi guarda dietro le spessi lenti da miope.
- "Vedrai perché... Perché sono stronze!"
- È il primo approccio col collegio.
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