Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Marisa Baratti
Ha pubblicato il libro
Marisa Baratti - Era una volta il... Ricordi d'Eritrea dal 1919 al 1989

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi) 14x20,5 - pp. 172 - Euro 13,60 - ISBN 88-8356-415-4

 

 

 

Questo libro è stato stampato con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l'autrice è segnalata nel concorso letterario «Angela Starace» 2000 sezione narrativa

Prefazione
Postfazione
Incipit 

Prefazione
I ricordi di Marisa Baratti ci fanno da "cicerone" introducendoci ed accompagnandoci lungo la galleria alle pareti della quale sono appesi i quadri che segnano momenti di una vita trascorsa in un Paese che ha lasciato una traccia profonda ed indelebile nel cuore e nella mente dell'Autrice.
Sono quadri dipinti ad acquerello, scevri da colori violenti e da tinte accese: le dolci tonalità riflettono i delicati sentimenti di Marisa che racconta i giorni della sua vita in Eritrea con una sorta di pudica riservatezza perché non vuole "imporre" i suoi ricordi ma farli accettare, quasi condividerli con il lettore il quale, piano piano, si accorge di essere entrato in un mondo diverso, un mondo in cui l'amore per la famiglia, per la natura e per le quotidiane e semplici cose permea ogni quadro.
Lo stile colloquiale ed il lessico familiare sono voluti dall'autrice perché i suoi ricordi, che spesso combaciano con i nostri e ci riportano alla memoria amori, amicizie, gioie e dolori, giorni e notti della nostra vita, non hanno bisogno di enfasi e di retorica: le cose che contano non vogliono ricche aggettivazioni, parole ricercate, costruzioni complesse per risaltare in tutta la loro intima profondità.
Dovremmo essere grati a Marisa perché, regalandoci scorci della sua vita eritrea, ci ha permesso di rivivere anche momenti della nostra vita e ha riportato alla nostra memoria, impigrita dal tempo, gli anni più belli di una gioventù trascorsa in un'Africa che non esiste più.
I quadri dell'autrice sono così densi di sentimenti sinceri e di amore per la vita che affascinano e trascinano anche chi l'Eritrea non l'ha mai vista, anche chi non si è mai inebriato delle "povere" e coinvolgenti bellezze di questo Paese e il lettore finisce per sentirlo anche un po' suo.
 

Angelo Granara


Postfazione
A questo caro diario è stata affidata la storia di una vita, scritta in punta di matita, con la volontà precisa di riportare alla luce i ricordi d'Eritrea dal 1919 al 1989. Marisa Baratti infatti è nata ad Asmara quando l'Eritrea era una colonia italiana. Proprio quel nome definitivo di Eritrea era stato oggetto di lunghe e complicate discussioni in sede legislativa prima dell'adozione definitiva ricorrendo perfino all'autorità di antichi geografi. La domanda che ci si poneva era: quale nome dare ad una regione che, secondo Strabone e Tolomeo, era stata abitata dagli Ittiofagi, dai Trogloditi e dai Macrobi? Secondo Tolomeo la regione trogloditica cominciava dalla costa dell'Egitto e fu osservato che non poteva quindi corrispondere ai possessi italiani in Africa. Si ricorse all'autorità indiscussa d'un atlante geografico del Cinquecento che registrava sulla costa del Mar Rosso l'antica Adulis e si propose il raffinato nome di Colonia adulitica argomentando che era un nome che si poteva far rivivere perché derivava dal Rinascimento. Per i consulenti l'impresa diventava difficile e si scomodavano addirittura ideali umanistici per il nostro colonialismo ma alla fine Francesco Crispi scelse il nome di Eritrea: fu una scelta letteraria ma anche politica per rassicurare Menelik che eravamo soddisfatti dei nostri possedimenti sul Mar Rosso e non avevamo nessuna intenzione di inoltrarci nell'impero etiopico. Si manifestava così in modo palese l'origine retorica del nostro colonialismo e in che modo fossero visti a Roma gli avvenimenti d'Africa. Da allora sono cambiate molte cose ed il tempo ha come cancellato o quantomeno archiviato quelle vicende storiche. Questa raccolta di articoli che inizia nell'anno 1919 scritta in forma di diario è appunto dedicata a tutti coloro che hanno vissuto quel periodo storico. Una messe di ricordi che fanno parte della vita di Marisa Baratti e sono la fotografia, umana e suggestiva, di un periodo della sua vita trascorso in quelle terre e che ha segnato indelebilmente il cuore e l'anima stessa dell'Autrice.
I suoi occhi hanno sempre davanti una realtà densa di sentimenti ed è sempre presente una sorta di riserbo cosciente nel raccontare la sua vita in Eritrea quasi volesse incuriosire il lettore fino a condurlo dentro i ricordi, dal periodo della guerra alle storie di vita familiare, all'infanzia trascorsa in luoghi affascinanti, alle amicizie profonde, alle atmosfere dei momenti trascorsi in un paese così diverso, al suo paesaggio impregnato di profumi e di colori.
Quell'aria che profuma di acacie che sembrano sculture irripetibili; quell'odore di terra e quel cielo immenso e trasparente come un cristallo; immagini di vita quotidiana con il divanetto di vimini, i cuscini dappertutto, gli arazzi alle pareti, il tavolino intarsiato in madreperla; la casa di nonno Leopoldo dove ci si riuniva ogni domenica e zio Vittorio che girava la manovella del grammofono; la scuola in una baracca costruita con tavole di legno inchiodate una all'altra; la squadra femminile di pallacanestro nel campionato del 1951; il mercato delle granaglie con il vociare che stordiva e le bancarelle piene zeppe di bottiglie d'aceto, incenso, quadri di santi, pani di tamarindo, caffé crudo, collane e perline di vetro.
Non mancano certo i ricordi dolorosi che riportano alla mente periodi di sofferenza e tristezza come il grande piazzale di un vecchio campo di concentramento nelle cui baracche lei era stata alloggiata per il ritorno provvisorio in Italia a causa di una malattia del padre e poi le feste natalizie trascorse in un periodo di guerra: quanta ragione aveva il suo amico Angra quando diceva che vestiti di giovinezza sarebbero stati felici ovunque. Quante idee per la testa, come si era interessati a tutto ciò che stava intorno, come era bello correre e sognare: il passato sembra sempre più bello e si ricorda più facilmente l'Africa dal sole abbagliante, dalla terra rossa, dal paesaggio fantastico.
È lo sguardo che Marisa Baratti pone su quel mondo che mi affascina e mi addolcisce. Ha una energia che arricchisce ed alimenta ogni pagina del suo libro. Ama la vita e il suo racconto abbraccia tutti gli uomini in un'unica visione e passione per la vita tra terra e cielo, tra amore e vita. Mi ha toccato profondamente con le sue parole e i suoi ricordi che riempiono la mente con una leggerezza staordinaria.
Ha acceso dentro di me un gusto nel leggerla, nell'ascoltare la musica lieve e misteriosa che emana dalle sue parole che sembrano emanare profumo d'incenso e spezie.
Una luce folgorante nascosta nelle pieghe dei gesti quotidiani dove l'Autrice sembra a volte giocare come una fanciulla nello stupore della bellezza della vita che riesce sempre a cogliere nella sua essenza.
Potranno mai le mie parole rendere giustizia alla profonda umanità di Marisa Baratti? Sono solo fango che si deposita nella storia, innocui richiami e riferimenti storici.
Forse non è la bravura da scrittrice a dover essere dimostrata ma la capacità di compiere un gesto audace e miracolosamente scampato al dominio della banalità.
Autentica nella sensibilità dell'animo, fascinosa nella sua umanità e valorosa nella sua spontaneità, cristallizza le atmosfere d'Africa traboccanti di emozioni, memorie e smarrimenti: voci stemperate di una assenza/presenza da/in quel tempo oltre la limitante fisicità dell'essere umano.
 
Massimo Barile
 
 
 
Incipit
Era una volta il...
 

marzo-aprile 1996

 
1943: 5 luglio, Sembèl, sera
 
È buio già da un bel po', ma credo che, in questa confusione, in questa preoccupazione mista a euforia - si alternano per fortuna le due emozioni - nessuno sia in grado di sapere che ora è. Tanto non servirebbe: non abbiamo un appuntamento, dobbiamo solo eseguire ordini, qualunque essi siano a qualsiasi ora.
Il grande piazzale del campo di concentramento, nelle baracche del quale ormai da giorni e giorni siamo costretti a vivere aspettando il via per l'imbarco verso l'Italia, è un mare di camion parcheggiati fianco a fianco, camion militari, inglesi naturalmente. Siamo migliaia di persone che hanno scelto di rimpatriare (la maggior parte per sempre, noi provvisoriamente, per necessità in quanto papà ha bisogno di medicine indispensabili e inesistenti in Eritrea per via della guerra) e che sono state obbligate a concentrarsi in questo baraccamento, in attesa che le navi bianche, la Giulio Cesare e la Duilio, attracchino a Massaua. Ecco, hanno gettato l'ancora in rada e ci stanno aspettando. Disciplinatamente come abbiamo fatto in tutti questi giorni di permanenza al campo - gli inglesi, soprattutto le donne in questa occasione, frustino alla mano, fanno "filare" tutti - saliamo sui camion che ci portano alla stazione di Asmara. Eseguendo gli ordini strillati dentro un megafono, arrampicandoci alla meglio, aiutati uno dall'altro, saliamo sui carri bestiame del treno in attesa. C'è anche della paglia in terra, dove ci sediamo fitti uno accanto all'altro lungo le pareti e poi ancora due file in mezzo, schiena a schiena.
C'è nebbia nell'aria e forma dei coni opachi che partono dai lampioni abbaglianti e si allargano al suolo: la voce che grida al megafono dando ordini in italiano dall'accento inglese, a volte incomprensibile, pare arrivi dal nulla, dal cielo o da sottoterra, dal buio, dall'infinito, o dall'inferno che pare così funesta, spaventosa. Mi stringo al braccio di papà e spingo la faccia sulla sua giacca per sentirmi ancora più vicina. Passano minuti (o ore?) pieni di rumori, di passi affrettati, affannati, migliaia di passi, di piedi in movimento, di voci. Poi, con un fracasso di ferri e di catenacci le porte del vagone scorrono orizzontali fino a congiungersi. Nessuno parla, neppure sommessamente; ascoltiamo gli ordini che seguitano a uscire dal megafono finché con uno strattone improvviso le ruote non si mettono a stridere sulle rotaie. La voce che grida comandi si fa sempre più lontana e finalmente tace. Siamo completamente al buio, sappiamo, per contatto di esserci tutti e ci stringiamo sempre più. È uno sferragliare interminabile e, dopo le prime voci che finalmente libere dalla disciplina ferrea si sono incrociate costringendoci anche a urlare per farci sentire, è silenzio completo. È il rumore del treno che pare anch'egli al megafono dentro queste pareti di ferro, che ci stordisce, che ci annulla. Poi con uno strattone tremendo, sbuffando, si ferma.
I catenacci esterni cigolano di nuovo e la porta scorrevole si apre facendo entrare finalmente la luce dei lampioni abbaglianti. È ancora notte dunque: la nebbia s'è fatta più fitta e i coni lattiginosi che partono dall'alto paiono ancora più impenetrabili. È di nuovo una voce al megafono che dice che può scendere chi ha bisogno di andare al gabinetto. Aprono tre vagoni alla volta, giù con un salto, fuori, e nel buio, più buio al di fuori di questi riflettori di nebbia che allargano cerchi perfetti a terra come un palcoscenico, decine di inglesi armati di frustino, dirigono la mandria umana verso una staccionata di canne dietro la quale - uomini e donne separati - dei secchi sono stati infossati nel terreno. Aperta campagna, ma siamo alla stazione di Ghinda. C'è molta umidità con tanta nebbia, vapore esce anche dalla locomotiva e rimane basso: in questa notte senza vento pare di sentire già il caldo del luglio massauino.
È ormai domani, 6 luglio, quando saltiamo giù dal carro bestiame accecati dal sole bollente di Massaua: siamo sulla banchina del porto dove è entrato direttamente il treno. Il profumo del mare immobile, viola in quest'ora poco più dell'alba, luccicante come coperto di lustrini contro il sole ancora basso ma già caldissimo, ci fa respirare con forza dopo l'eterna notte senza aria e senza luce. Al di là dell'imboccatura del porto, in rada, le due gigantesche navi bianche mostrano sulla fiancata altrettanto gigantesche croci rosse. I vaporetti che ci porteranno a bordo sono sotto il molo, la voce del megafono è sempre quella, ordina di salire sui vaporetti; e ancora decide di inglesi, frustino in mano, gesticolano per farci obbedire. Papà inciampa nell'ultimo scalino e quasi cade, il frustino dell'inglese vicino lo colpisce violentemente su un braccio. È come mi esplodesse qualcosa dentro, mi si lacerasse tutto e diventasse poltiglia, un dolore insopportabile. Come un flash mi torna un'altra scena alla quale ho assistito un anno fa: viale Mussolini, un meschìn di circa la mia età, arrotolato a terra, perché le sue gambe e un braccio sono morti e si mischiano confusamente, abbandonato sul marciapiede, la mano viva davanti alla faccia a ripararsi dal frustino di un inglese, divisa kaki, che vedo di schiena. Non vedo la sua faccia perché sono sulla canna della bicicletta di papà e andiamo svelti. Sento la sua voce sgradevole come una scia. Un dolore simile a questo di oggi mi aveva dilaniata. Ora mi blocco e alzo gli occhi a guardarlo, voglio vederlo in faccia un uomo che...: è kaki come la divisa che porta e anche la faccia arrossata dal sole, i baffi, i capelli, i denti che mostra aprendo la bocca per strillare parolacce in inglese, kaki la lingua che esce tra i denti nella furia di espellere rabbia. È kaki, non è un uomo. È un fantoccio automatico che non aspetta altro per poter dimostrare il suo potere a frustate. Dolcemente la mano di papà mi spinge a proseguire, come nulla fosse accaduto. Può fare solo questo, apparentemente, per alleggerire quanto ha capito mi ha sconvolta, lui non può fare altro. Non parleremo più di questo momento, per tutta la vita.
E per me gli inglesi saranno un iroso fantoccio kaki armato di frustino fin quando, nel 1975, non incontrerò, madre d'una compagna d'asilo di mia figlia, una dolcissima signora moglie di un asmarino, mai conosciuto, imbarcato anche lui, piccolissimo, sullo stesso treno, quella notte piena di megafoni, di nebbia, di kaki e di frustini.
 
 

settembre-ottobre 1981

 
1959: Gaggirèt, tardo pomeriggio
 
È la grande piazza che mi si apre davanti: nel fondo la chiesa di Gaggirèt, il nuovissimo campanile appena un po' indietro, il tettino rosso, le pietre più chiare di quelle che formano la chiesa dicono che è "nuovo", che è appena nato e che neppure è completo, manca ancora la famosa ultima pennellata questa volta rappresentata dall'assenza delle lancette del grande orologio.
Tra qualche giorno ci saranno anche quelle, verrà inaugurato e allora sarà una festa di campane e i gaggirettini godranno di questo nuovo concerto per il quale tutti hanno fatto un'offerta. O qualcuno avrà nostalgia per il malinconico, umile, solitario cappuccinesco bronzo dei conventi francescani?
La grande croce bianchissima che sovrasta il tettino spicca netta contro il cielo che si è fatto giallo. Ed è un silenzio impossibile... ma no, non è silenzio, sono le fronde degli eucaliptus che bisbigliano a questo venticello tiepido che mi passa sulla faccia, mi muove piano i capelli come una carezza dolcissima. Eppure gli eucalipti sono distanti, ai limiti della grande piazza che pare immensa, ancora più grande in questo momento di solitudine, come fossi io sola, unica abitante di questa città. Ma esiste sulla terra una piazza così grande entro la quale non si muove un'anima? Sì, miracolo di questa nostra tranquilla, meravigliosa città.
Sono io che mi muovo, piano, quasi timorosa di rompere l'incantesimo: mi avvicino alla statua di S. Francesco, alzo il viso: le sue grandi mani in segno bendicente sono nere contro il cielo che è improvvisamente esploso in mille sfumature di rosso, di viola, una spruzzata di cobalto. La statua è altissima, non mi guarda, non mi vede, non mi ascolterebbe. S. Francesco, il grande precursore dei tempi moderni, è fermo, né ondeggia il suo saio al venticello che s'è fatto più fresco, più pesante. È diventato, con il cielo, in un attimo, grigio anche lui. È così, sono così i nostri tramonti, un incendio e poi, d'un tratto, è sera.
Sobbalzo, è arrivato dal nulla, è al mio fianco, mi arriva al gomito, non ha età, "loro" non hanno età ma è un bambino: ha il ciuffetto riccio in mezzo alla fronte, il resto è un cranio lucido, ben rasato di fresco, unico ordine nella sua persona che è sporco, strappato, il naso moccoloso. Ma ride, i denti splendidi, gli occhi lucidi e grandissimi frastagliati di lunghe ciglia incurvate riflettono il sorriso e l'ultimo bagliore rosa rimasto nel cielo.
«Ciao», mi dice come fossimo vecchi amici e come avessimo un appuntamento.
«Ciao» rispondo pensando di non essere la sola abitante di questa città. E ritorno con i miei pensieri: ero venuta fin qui per scrivere di questo nuovo "personaggio": il campanile di Gaggirèt, come mi sono distratta? Dove ho parcheggiato la macchina? Mi giro e m'avvio per il ritorno. E lui al mio fianco sempre con quel sorriso che mi fa dubitare addirittura che si burli di me: forse mi spiava ed ha visto il mio momento di estasi? Lo sbircio con la coda dell'occhio: mi fissa in viso e mi domanda in tigrino che ore sono: è una frase che conosco bene in questa lingua perché, forse per loro è un gioco, me la domandano spesso per strada i bambini, i ragazzi eritrei; così, per attaccare discorso. Faccio appena spuntare l'orologio dal polso della camicetta e gli dico: «Sono le sei e quaranta!».
Ride sempre, non gliene importa nulla, per lui tutte le ore sono uguali, una vale l'altra, però è contento che io gli abbia risposto. E sempre standomi al passo che ora s'è fatto svelto, allunga una mano, tiene una scatoletta di cartone, a metà sono allineati dei pacchetti di gomma americana:
«Mastica, ginnastica del dente», mi dice. E incontro ancora i suoi occhi furbi e maliziosi. E ridono assieme ai denti.
«Non la voglio grazie» e sono distratta, ma lui sempre dietro.
«Costa meno» mi dice.
Meno di che? Ho la testa vuota e non lo seguo ma poi anche io ho un sorriso, già, logico come tutte le loro semplicità: "meno" vuol dire meno di quanto non la vendano gli altri, i suoi colleghi, tanti in tutta Asmara.
Sono arrivata alla macchina, apro la portiera, entro, lui si affaccia al vetro:
«Ciao allora!». E ride sempre e tira su col naso, unico sistema per tamponare l'evidente raffreddore. E mi saluta con la mano mentre imbocco la strada dirimpetto alla chiesa. È fermo, con gli stracci del suo vestito una volta bianco, con la sua merce in mano, con i bianchissimi denti in mostra. «Ciao» gli dico mentalmente e subito me ne dimentico. Ma è solo per un momento; metto gli occhi nello specchietto retrovisore e lo inquadro: non gliene importa nulla se non ha venduto un pacchetto di mastiche, è contento di avermi parlato, che io gli abbia risposto.
È rimasto fermo lì, e mi segue con gli occhi, immobile, poi alza la mano e ancora mi saluta, come vedesse, nel buio che s'è fatto, il mio sguardo su di lui. E rimane ancora fermo, sempre più lontano, sempre più piccolo e sparisce dietro la curva.
 
 

luglio-agosto 1991

 
1938: casa di nonno, domenica
 
Dik, il bellissimo cane da caccia di nonno, marrone e bianco, di misura extra, lucido come fosse finto, l'unico dei quattro bracchi che ha il permesso di girare per casa - gli altri sono di sotto, in cortile - mi ha seguita come sempre quando la tavolata della domenica s'è sciolta allorché nonno si è alzato, e pare cammini in punta di unghie per non farsi sentire.
Seduto sulla soglia dell'uscio (limite invalicabile per lui durante il pranzo, pena la discesa in cortile) alle spalle di nonno a capotavola e molto lontano da me ché il mio posto è quasi all'altro capo del lunghissimo desco, ha seguitato a fissare i suoi occhi dorati nei miei, così da lontano, muovendo le orecchie come un radar a ogni mio cenno di parola con la bocca ma senza voce. Ora, cercando di farsi piccolo e leggero (è alto abbastanza da guardarci direttamente in faccia) fila alle mie spalle per il lunghissimo corridoio semibuio che conduce, quasi alla fine, al salotto dei cuscini.
Gli invitati adulti, meno nonno che è andato a recuperare le ore di sonno rubate all'alba per la domenicale caccia (da quando è sbarcato a Massaua, nell'ormai lontano 1896, militare al seguito delle truppe italiane inviate a presidiare le prime conquiste della colonia primogenita, l'Eritrea, la sua passione è stata questa: cos'è l'Africa senza la caccia?), sono passati in salotto ad ascoltare Beniamino Gigli, Caruso o Vittorio De Sica che cantano dal trombone di ottone del grammofono caricato a manovella, e per aspettare il caffè; i piccoli sono tutti in terrazza a giocare.
Io li raggiungerò prestissimo, prima che si accorgano della mia assenza e soprattutto di quella di Dik che gioca anche lui a nascondino con noi.
La porta è chiusa a chiave perché l'ingresso è proibito a tutti, ma io so dove trovarla, l'ho scoperta un giorno per caso, andando a ficcanasare tra i libri di un piccolo scaffale appoggiato al muro del corridoio, proprio a un passo da quella porta sempre chiusa che tanto interesse aveva suscitato alla mia curiosità, facendomi così di soppiatto scoprire la stanza misteriosa: il salotto dei cuscini, appunto. Ora ci provo ogni domenica ma è difficile che la via sia libera. Invece oggi è una giornata sì.
È subito odore di antico, di umido, di muffa, di mistero precisamente. E di pipì di gatti. Questo non si capisce proprio in quanto la stanza è sempre chiusa ma... forse i gatti si fermano davanti a un "proibito"?
Entriamo sveltissimi e richiudo la porta; mentre io resto ferma per addomesticare gli occhi a quel buio che diventerà penombra perché dagli sportelloni serrati sui vetri filtra appena un po' di sole, Dik si butta sul tappeto in mezzo ai cuscini con un sospiro che pare un autobus al capolinea, mezzo acciambellato, il muso sulle zampe tese: pare stia arrivando da in capo al mondo e voglia alleggerire la fatica. Anche io faccio un sospiro simile ma solo per lo scampato pericolo, per scaricare la tensione di quell'attraversamento rischioso.
Teclè, l'ex ascaro promosso sciumbasci per meriti di coraggio e di un paio di ferite, che la domenica sale in casa per dare una mano in cucina a Ghidei e a Mariam e per godere anche lui del pranzo festivo lasciando il suo regno al piano di sotto dove ogni giorno controlla il laboratorio di selleria, è sempre quello che mi scopre, (è una deformazione professionale la sua, un "vizio" quello di vigilare su tutto ciò che succede, da più di trent'anni infatti, dopo aver fatto la guerra insieme nel 1896, rischiando per il ritardo di pochi chilometri - i muletti andavano a rilento su quelle piste sassose - la terribile battaglia di Adua, persi di vista e ritrovati, vive in casa di nonno), è sempre lui che nota il mio cambio di direzione sulla strada per la terrazza. Oggi è andata bene e il sospiro ci vuole.
Sono nel salotto dei cuscini, io lo chiamo così perché tanti e tanti cuscini sono sparsi dappertutto, sul divanetto di vimini a due posti, sulle tre poltroncine, in terra sui tappeti cinesi. Cuscini di raso, di seta, con frange, ricami, pizzi, con volanti, di tutti i colori. Al muro arazzi ricamati, di maxi dimensioni: palme, cammelli, uccelli... un tavolino cinese intarsiato di madreperla, sta nel mezzo, semicoperto da una tovaglia color oro lavorata a rose all'uncinetto, sopra, un grande elefante e un piccolo budda di avorio. Due altissimi tavolini a tre gambe, di noce bruna, simili a sgabelli, quasi appoggiati al muro negli angoli più scuri, reggono due vasi di ottone splendente dal quale scendono cascate di foglioline verdissime e lucide. Per questo è misterioso: come possono vivere ed essere così rigogliose delle piante al buio e come così brillanti questi vasi in mezzo a tanta polvere? Sì, perché in giro c'è anche tanta polvere.
Ma la cosa più misteriosa di tutte è la presenza di tre meravigliose bambole di porcellana, il viso rosa e lucido è grande come quello di un neonato, il corpo vestito di trine e di raso: rosso, viola, verde... gli stivaletti di vernice nera, i capelli castani, di seta, un po' arruffati: da quanti anni non le pettinano più? Da quando la mia mamma e le mie zie erano bambine certo... Da anni sono qui al buio, immote, senza giocare, tristi. Due sono sedute in terra, in mezzo ai cuscini, una sul divano, forse perché è ferita, è malridotta... le mancano una gamba e un braccio, il vestito color ciliegia è scolorito, è macchiato, le trine ecrù al colletto e all'orlo sono sdrucite, penzoloni. Fa proprio una gran pena. Non la tocco mai lei, m'inginocchio invece sul tappeto per prendere in braccio le altre due; il viso, le gambe di porcellana sono gelide e mi danno un brivido ma subito passa e le stringo, con le mani cerco di rassettare i capelli, i vestiti, sgualciti ma intatti.
A chi appartenevano, a mia mamma o a quale zia? E quella rotta? E come ci giocavano, come le chiamavano? E se una era di mamma perché non è mia? Io ho la mia bambola ma non è di porcellana e non è così grande ed elegante e, soprattutto, non ha questo fascino misterioso di tanta vita trascorsa... Sono tre e la mia mamma ha due sorelle... chi ha trattato male la sua da romperla? Cerco di pensarle bambina ognuna con la sua in grembo... e dove giocavano? Questo salottino era sempre proibito? E, certamente nate in Italia, queste bambole come erano arrivate fin qui? In un baule o in un imballaggio assieme all'altra merce per l'emporio di nonno? Ma soprattutto quale era quella di mamma?
Non lo chiederò mai a nessuno, perché nessuno deve sapere che io le ho scoperte e che ogni domenica cerco di arrivare a coccolarle. È un mio segreto che divido unicamente con Dik perché lui mi ha colta sul fatto una volta ed è diventato mio complice. Ma lui saprà mantenerlo.
I miei pensieri sono un vortice, si accavallano e si mischiano, pieni di domande senza risposte, sono una specie di angoscia che mi trascina in quei giorni tanto lontani, i primi anni del secolo, (ora siamo alla fine degli anni Trenta), giorni oramai tanto lontani che io non abitavo ma che mi sembra di toccare, abbracciando queste bambole impenetrabili, vestite di un'altra moda, quella delle fotografie di mamma bambina, delle mie zie, delle mie nonne... E io, quale posto occupavo? No, non lo domanderò mai a nessuno perché anche se un po' mi fa soffrire, questo mistero mi affascina, mi fa sentire importante, come se proprio io avessi la facoltà di spiare nei tempi in cui non esistevo.
È Dik che con un filo di voce simile a un fischio mi fa tornare alla realtà per dirmi che il tempo è scaduto e che ci staranno cercando e, forse, che si è anche stufato.
Svelta le rimetto al loro posto, precise come stavano perché nessuno si accorga del mio passaggio. Dik ha capito che è finita la visita e si alza in tutta la sua statura, lo abbraccio al collo e gli schiocco un bacio sul testone liscio, lui socchiude gli occhi e aumenta il movimento della coda.
Ora è difficile pure uscire senza essere visti; appoggio l'orecchio all'uscio e anche Dik cerca di tirare su le sue che si incurvano appena alla radice, quelle morbide, calde orecchie penzoloni che rimangono indietro quando corre velocissimo appresso alla selvaggina. Silenzio. Apro poco la porta, il necessario per sbirciare con un occhio attraverso la fessura, il muso di Dik si appoggia alla mia spalla e certo anche lui riesce a sbirciare. Nessuno. «Andiamo» ordino sottovoce, «Fila!» e lo lascio passare per primo per richiudere la porta. Veloce facendo un fracasso di unghie sul pavimento lucido corre per il corridoio e lo vedo sdrucciolare girando verso la terrazza.
Subito mi arriva un coro di voci delle mie sorelle e dei miei cugini che fanno il suo nome. Lo aspettavano, lo stavano cercando. «Dove ti eri cacciato?» «Ti abbiamo cercato dappertutto!» «Da dove vieni?». Lo cercavano, lo interrogano ma lui terrà acqua in bocca.
Io me la prendo comoda e quando a mia volta mi affaccio sulla terrazza cercando di fare l'indifferente e pronta a rispondere che ero in bagno, nessun si accorge del mio arrivo, nessuno mi domanda niente. Sono tutti intorno a lui, a Dik, il quale distribuisce leccate e scodinzolate come non si vedessero da una vita. Poi improvvisamente si ferma e guarda me, un momento incontro quei dolcissimi occhi color ambra che paiono ammiccare: «Hai visto?» mi pare di leggere in quello sguardo «Anche oggi è andata!».
Guardo di sottecchi i miei compagni di gioco, nessuno si è accorto di niente: il mio segreto è sempre più segreto.
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