Scrittori italiani contemporanei
Mirella Abriani
Ha pubblicato il romanzo

Opera fuori commercio
pubblicata nella collana "Le schegge d'oro, i libri dei premi" quale terzo premio del concorso M. Yourcenar 1995
 
 
 
 
 

«La vita con poche avventure

è sicuramente noiosa.

La vita con molte avventure

è sicuramente breve.»

(Bertrand Russell)


Il comandante pilota ha appena annunciato che stiamo per atterrare.
I miei compagni di viaggio, turisti che realizzano il loro sogno da dépliant, genitori con l'ultimo nato portato in mostra a parenti lontani, rari uomini d'affari, chiacchierano animatamente eccitati dal sole mattutino che penetra a fasci attraverso gli oblò o forse per il timore inconscio dell'ultimo rischio.
Sempre l'atterraggio è un rischio…
Mentre l'aereo volteggia ad altissima quota, scopro ancora una volta il fascino del mondo di quassù fatto di luce e di gioia, di nuvole alla rovescia di un candore luminoso, simili a fantastici piumoni.
Ad un tratto il paesaggio irreale svanisce. Sprofondiamo in un grigio che disorienta, una gragnuola di gocce picchia contro i vetri, l'abitacolo si fa scuro, il cicaleccio si spegne, cala un silenzio inquietante.
Ora siamo sotto le nuvole grigie e laggiù in fondo c'è l'altro mondo, quello reale di una città fangosa e battuta dal vento.
Sempre silenzio di tomba mentre si compiono le ultime manovre. Anche i piccini hanno smesso di pigolare: si sono assopiti, complice l'oscurità.
L'aereo si adagia sulla pista e la tensione si stempera in un battimano un po' in sordina.
 
Metto piede su questa terra che sento mia anche se non ci sono nata, alla quale ritorno come si ritorna a casa. Terra che ti colpisce agli occhi, ti trapassa e finisce col conficcarsi nel cuore.
 
Nel grande aeroporto brigo non poco per ritirare il mio bagaglio a causa di un inceppamento del nastro trasportatore: sembra che abbia la tosse. Tutti ridono.
Poi prenoto un taxi. Mi dicono che è rosso, ne arriva uno blu. Questi contrattempi incominciano ad innervosirmi anche perché temo che non saranno né i primi né gli ultimi. Però sono in vacanza ed è meglio "entrare nell'onda", come dicono qui, e poco importa rosso o blu purché si vada al piccolo aeroporto. Lì dovrebbe attendermi la guida dell'agenzia turistica con la quale ripartire su un piccolo aereo per raggiungere un'isoletta in mezzo a un lago nel cuore della foresta dove trascorrerò qualche giorno in santa pace. Almeno spero…
 
Sul taxi l'autista tenta quattro chiacchiere parlando del tempo. La conversazione cade subito. Il tipo deve avere superato la quarantina: né bello né brutto, né bianco, né mulatto, né indio, o forse tutto questo e qualcos'altro. Indossa un abito dal colore indefinito che non deve aver mai conosciuto la tintoria. La camicia non-stiro invece, senape pallido, dev'essere di bucato. Intravedo il suo sguardo rassegnato, assente, come se nulla lo interessasse: taxi, persone a bordo, il mondo di fuori che fugge via veloce.
L'auto procede spedita nei suburbi intorno all'aeroporto: squallore di prati incolti e rognosi, alcuni casotti dai tetti di lamiera, una baia livida. La strada, ampia, è costellata da enormi cartelloni pubblicitari che informano sul bianco che più bianco non si può. Sono affissi a tavole di legno sorrette di sghimbescio da piedistalli male in arnese.
Frotte di ragazzini camminano, svelti svelti, ai bordi della strada affondando i piedi scalzi nelle pozzanghere. Si muovono in formazione compatta, a tempo, con moto ondulatorio, da sambisti, sulle lunghe gambe magre, brachette sdrucite, camiciole gonfiate dal vento, capelli cortissimi, neri e crespi. Ma dove vanno questi bambini? Perché vanno? Di chi sono?
Mentre l'auto li supera, dritta per la sua strada, vedo il loro sguardo rivolto ovunque e da nessuna parte.
Ecco le prime povere case della periferia. Diseredati appoggiati ai muri, immelanconiti sul binario morto dell'indigenza, sembrano aggrappati alla loro miseria come alla botte dell'acquavite.
Le nuvole incominciano a cedere spazio, qua e là, al cielo azzurro. Ma poi riprendono il sopravvento.
Prego l'autista di costeggiare la baia. Subito accontentata. Mi si para dinnanzi uno spettacolo di suggestiva bellezza esaltata dal verde, reso brillante dalla pioggia, delle colline circostanti dove le teleferiche vanno e vengono come giocattolini. Noto di nuovo lo sguardo apatico dell'autista. Assuefatto al bello?
Ora stiamo percorrendo la grande arteria del centro città. C'è animazione, a dispetto del cattivo tempo. Grandi, piccini, uomini, donne, bianchi, neri, mulatti, indios, biondi, bruni, di tutte le misure: alti, bassi, medi, grassi, magri. E chi li tiene in casa? Non un impermeabile: si riparano con ombrelli o non si riparano affatto fra pareti di grattacieli con vetrate a caduta libera. Tutti insieme allegramente nell'atmosfera molle aspettando che succeda qualcosa di bello.
Il taxi svolta in una via residenziale. Pure qui si ha l'impressione del fatisciente: palazzi scrostati, sudiciume diffuso. Rigoglioso invece il molto verde delle larghe foglie piatte, nei vasi di arenaria sui marciapiedi, debordante dai balconi e dietro le cancellate di ferro battuto dei villini liberty.
Al semaforo la gente attraversa col giallo, rosso, verde, col colore che capita, con incredibile destrezza nell'evitare investimenti. Al segnale rosso le auto giocano a domino. Lo schema è libero e l'intrico è tale che non si potrebbe scendere dalla vettura neanche a volerlo. Dai finestrini aperti escono i ritmi delle cassette, note colorate che si incrociano nell'aria.
Al verde, sorprendentemente, il groviglio si dipana e tutti riprendono l'inebriante corsa.
 
Il taxi si ferma davanti all'ingresso dell'aeroportino, in cima ad una strada in salita, di terra battuta rossa.
Lì non c'è la guida ad attendermi.
 
Scorgo nell'atrio un ufficio ricavato da una rientranza del muro e delimitato da pareti in plexiglass attraverso le quali vedo un giovane seduto a un tavolo con su un telefono. Entro e chiedo se può aiutarmi a cercare la guida. Facile. Il ragazzo sa dove rintracciarlo: al bar… Il tizio arriva dopo un bel po' con l'aria da pentito in tribunale, recitando maldestramente rincrescimento per il ritardo in un italiano imparato a spanne che impreziosisce con parole inglesi… time… o.k.… persino let's go… Né brutto né bello, sui trent'anni, di statura media, mingherlino, è un miscuglio di atavici incroci: capelli crespi polverosi, carnagione olivastra, occhi azzurro vetro un po' incantati. Si chiama Carlos. Accende una sigaretta e dice non si può partire con il piccolo aereo perché dei perché… si partirà domani. Alle 15 e 30 in punto. Perché domani? Perché…
Non ne va dritta una, porca miseria!
Ma gli incidenti di percorso fanno parte del colore locale, si confondono con flora e fauna, si perdono nel tutto.
Mi viene in mente che nel portafoglio ho indirizzo e numero telefonico di una tale, amica della cugina della ragazza di un mio collega, che affitta una camera per una notte, o due, però solo a conoscenti di conoscenti.
Le telefono. La stanza è a mia disposizione per quella notte.
Fermo un taxi e mi faccio condurre nelle vicinanze, voglio prima mangiare un boccone. A dir la verità ho più sete che fame. Il taxi si ferma davanti ad un bar affollatissimo, c'è persino gente per strada che mangia il famoso pane di formaggio caldo, ma soprattutto beve bibite. In bicchieri di plastica, in lattine. Bibite…
Ardua impresa farsi largo.
La piazza offre solo l'ultimo giornale rimasto sul banco dell'edicolante dell'angolo che sta facendo fagotto. Berrò quello che mi danno da bere gli dei.
Sull'altro angolo c'è il cartellone di Oba-Oba visto da tergo.
Faccio ancora un salto in libreria a comperare "Romance Negro" del mio amato Rubem Fonseca1. Il libraio sembra infastidito perché non gli chiedo uno dei tanti brutti libri esposti in vetrina. Quello che voglio io non è a portata di mano e lui non nasconde il suo disappunto per doverlo cercare. Anzi, mi fa capire che se me ne vado gli faccio un piacere. Figuriamoci se me ne vado senza il mio Fonseca. Insisto. Il negoziante, alquanto stizzito, sparisce e ritorna da lì a poco con il libro e un altro tono.
Strada facendo mi fermo in un ristorante chic dove gusto una cucina che è il riassunto di cinquecento anni di avvicendamenti umani.
 
Salgo al ventunesimo piano di una casa alta fra alte case e suono al campanello dell'amica. Una persona apre di botto la porta e me la sbatte in faccia con un barrito. La riapre immediatamente e fra stipite e battuta spunta un lungo collo, neanche glielo avessero tirato, con su una faccia senza trucco che spara una sfilza di suoni e poi la porta si richiude con un gran colpo. Ricompongo pazientemente i suoni come in un puzzle e ricavo parole che tutte insieme vogliono dire che ha l'influenza ed ha paura di attaccarmela. Poi la porta si riapre e posso entrare. Avvisata sono stata avvisata…
Madame deve avere due linee di febbre, ma si comporta lo stesso con grande dignità. Vestaglietta rosa, sigaretta in mano, dà l'impressione che la sua vita non sia un romanzo. Assomiglia a questa giornata d'autunno in cui non fa né caldo né freddo. Si chiama Tesaura. Provo un certo disagio a chiamare per nome una persona appena conosciuta, ma qui i cognomi sono completamente ignorati perché vanno da tre a dieci cadauno.
L'arredo è tutto un riflesso di luoghi comuni. Mi fa vedere la camera: è quella del figlio, sovente assente per lavoro. Pagamento anticipato. Pronto cassa. Finalmente sorride, con un sorriso che le riga le guance. Dopo di che sembra volermi sbolognare, fuori di casa a fare le ore piccole ascoltando musica. Mi consegna le chiavi della stanza e della porta d'entrata e mi dice che:
«devo chiudere a chiave la porta della stanza prima di uscire di casa» (lo dà per scontato che uscirò);
«la porta d'entrata si apre dall'interno girando la chiave da sinistra a destra, e dall'esterno da destra a sinistra quella sopra, e da sinistra a destra quella sotto»;
«la luce funziona fino alle nove, dopo la toglie a tutto l'appartamento»;
«la cucina si può usare solo per la colazione del mattino, non dopo le sette»;
«il gas si accende girando prima la chiavetta di destra, poi quella di sinistra, esattamente in quest'ordine; poi si chiude girando prima la chiavetta di sinistra, poi quella di destra, esattamente in quest'ordine»;
«i fiammiferi sono nella ciotola sopra il credenzino e vanno affogati nell'acqua dopo l'uso»;
«se voglio, prima che vada via la luce, posso guardare la televisione nel living. Solo telenovelas perché ci sarà anche lei». Ma non aveva detto che aveva l'influenza?
Il telefono è nel corridoio chiuso col lucchetto.
"Certe cose se non fossero vere farebbero proprio ridere" aveva detto una volta Mark Twain.
Mi chiudo in camera e:
«la serratura della porta fa cilecca»;
«la luce del lampadario è quella di una vacillante candela»;
«il rubinetto gocciola»;
«il vetro basculante in alto della finestra è bloccato».
Vorrei volare via come i fidanzatini del poster di Chagall appeso alla parete.
Dò un'occhiata al giornale. Riesco a leggere soltanto i titoli: corruzione e criminalità. "Prostituçao Infantil. Retrato Vergonhoso". La pubblicità di un grande albero fa sapere che da loro il tempo libero e il lavoro entrano dalla stessa porta. Ogni tanto una buona notizia fa piacere.
Ho la testa a mezz'aria fra immagini a incastro e norme incastrate che mi rovinano la festa. Credo che Tesaura mi giudichi una scioccona come il corvo della favola, ma lei non è poi così furba come la volpe!
Mi lascio cadere sul letto ancora semivestita. Letto corto e stretto. E duro. Lenzuola ancor più corte e strette. Il lenzuolo di sopra è fatto con cinque pezzi che cercano di combinare la fantasia, non bruttina per quel che riesco a vedere.
Penso che tutto sommato mi ha chiesto poco. Penso al figlio che ha tutta la mia comprensione per aver cercato un lavoro lontano.
Di colpo manca la luce. Capisco che sono le nove. Evito di pensare alla partenza di domani perché ho paura di pensarci. E aspetto di addormentarmi.
Il mattino dopo vado in cucina alle 6 e 20 per la colazione. Tesaura e già là e mi fa segni forsennati di non parlare. Questa non me l'aveva ancora detta. Ma è perché c'è un colibrì che dà bacetti al fiore del davanzale.
 
Alle tre in punto della tarde mi reco all'aeroportino sotto un sole che squaglia me, l'autista, il taxi e anche la vita.
Carlos come mi vede accende una sigaretta e dice non si parte più con l'aeroplanino (che mi aveva fatto sognare Saint-Exupéry). Svengo. Rinvengo quando sento che si parte con un pulmino. Dieci ore di viaggio contro tre. Ma infine se si arriva là in tre ore, che cosa facciamo nelle altre sette?
Il mondo è bello perché è rotondo.
Archiviata la partenza in aereo, attendiamo di poter partire in pulmino.
Carlos non ha niente a posto: carte, orari, partenze, arrivi. Si guarda in giro invece di guardare le carte e trovare soluzioni. Che è un modo di semplificare le cose. Ma qualcosa gli deve sfarfallare per la mente. Non solo svagato, ma anche pensoso, intelligente e sciamannato, originalissimo, alternativo. Gli scoppia l'impegno e si dà un gran daffare a modo suo. È ricco di confusione, di costernazione, di innocenti scrupoli.
Bisogna lasciarlo libero di dribblare. Alla fine sarà uno scatto della fantasia a mettere tutto a posto.
L'autista non arriva ancora.
E il sole è sempre fermo nel bel mezzo del cielo, senza andare né avanti né indietro.
Carlos riempie la mancanza di pulmino e autista con parole, parole, parole…
Telefonate, rinvii, rinvii, telefonate.
Qualcuno in vista: è la vivandiera della locanda dell'isola con una cesta di polli e una di peperoni.
E l'autista continua a farsi beffe dell'orario.
Ho l'impressione di essere trattata più da emigrante che da turista.
In attesa scelgo quello che fa per me. Prendo a sfogliare il mio Fonseca. È un libro di racconti e posso incominciare a leggere da dove voglio. Passando di pagina in pagina, resto colpito dalla frase «solvitur ambulando» che ricorre più volte. Incuriosito, decido di leggere questo racconto, "L'arte di camminare per le vie di Rio de Janeiro" (traduco io). È la storia di un misterioso e singolare personaggio, Augusto-Epifânio, che cammina cammina per le vie della città perché così risolve meglio i problemi. E quando non cammina o non insegna a leggere e scrivere alle puttane, scrive il libro "L'arte di camminare per le vie di Rio de Janeiro".
Un giorno, in compagnia della sua ultima allieva Kelly, va a trovare certi suoi conoscenti che abitano in centro.
Traduco mentre leggo:
«… in casotti di cartone, abita la famiglia Gonçalves» (è una famiglia di negri che vive sotto la tettoia di una banca. Al suo servizio ha Marcelo e Ana Paula che sono bianchi).
«Kelly si ferma sull'angolo, non vuole avvicinarsi (…) sbuca da dietro le casse Benevides, il capo del clan, un negro sempre ubriaco, e subito sbucano i ragazzini Ricardo e Alexandre (…) e anche Tina, la matriarca, con uno degli otto bambini. Prima erano dodici i ragazzini della famiglia, ma quattro hanno preso il largo e nessuno sa dove siano andati, si sa solo che fanno parte di una banda, di una masnada che agisce nella zona sud della città assaltando negozi, scippando gente ben vestita, turisti e, la domenica, gli imbecilli che si abbronzano sulla spiaggia (…).
«Chi è quella schifiltosa?», Benevides indica Kelly (…) (che) sembra una principessa di Monaco a confronto dei Gonçalves».
La famiglia Gonçalves campa raccogliendo carta, commercio che rende bene perché lì ci sono molti uffici. Però la concorrenza è forte.
Alla fine Epifânio saluta tutti e raggiunge Kelly. Fa per prenderla per un braccio, ma lei si divincola: deve fare la doccia prima di toccarla.
E poi il racconto continua con le camminate di Augusto. Cammina cammina cammina. "Solvitur ambulando". Gliene capitano di belle nottetempo. Quando al suo Casio Melody risuona il "Mit dem Paukenschlag" di Haydn, torna al suo sottotetto per dare da mangiare ai topi e a scrivere il suo romanzo. Eccetera, eccetera.
Alzo la testa dal libro quando siamo già nella penombra del crepuscolo. Partiam? No, non partiam.
Carlos dà l'impressione di non avere nessuna fregola di partire. Dentro al plexiglass telefona euforico. All'autista o alla namorada?
«Autista, komm, komm! Schnell!». Questa la mia invocazione in tedesco. In italiano direi «Autista, arriva, arriva non mandare in fumo i miei sognati itinerari, corridoi dell'anima!» Buh!… La prossima la penso in portoghese.
Visto che tanto c'è ancora tempo, decido di ascoltarmi interiormente.
 
L'autista arriva allegramente al volante di un traballante pulmino color caffè, allegramente in ritardo di cinque ore.
Cioè puntuale.
Dev'essere di buon carattere. Non più giovane, tracagnotto, grasso superfluo, capelli corvini lisci e lucidi, occhi obliqui nerissimi, sguardo rivolto al mondo, sorriso ammiccante che cattura la simpatia, nonostante.
Carlos accende una sigaretta e mi fa un cenno. Che sia la volta buona?
 
È già sera quando lasciamo la città. Per l'autista l'orologio dev'essere più un oggetto ornamentale che uno strumento di precisione.
Ci attendono chilometri di strada di terra battuta rossa in direzione del Cile (che in lingua tupì significa "la fine della terra"). Robe da turista fai-da-te.
Però l'idea di affrontare per la prima volta la foresta nelle tenebre, anziché crearmi timori, mi porta ad evadere in fantasie che hanno tutto il sapore delle favole dell'infanzia.
 
Percorriamo una strada a buche dove l'unica luce è quella dei fari del pulmino, immersi in un paesaggio che si ripete ai nostri occhi rapidamente adattatisi all'oscurità: alberi, alberi e ancora alberi, neri contro il velluto blu del cielo, alberi-scultura che dialogano con l'ambiente.
Unica eccezione le ben distanziate baracche, posti di ristoro precisa Carlos, con tettoie di foglie di palma, illuminate alla benemeglio, frequentate da sparuti avventori con un bicchiere in mano.
E ancora alberi, buio, buio, alberi.
Sembra di viaggiare senza un punto di riferimento, fuorché il vago Cile.
Mi assopisco. Ogni tanto uno scossone più violento degli altri sulla strada di terra battuta rossa, a buche, mi strattona sgarbatamente riscuotendomi dal torpore al quale mi abbandono dopo tanto viaggiare.
Improvvisamente la natura si fa ostile. Lampi lancinanti squassano l'atmosfera, rovesci accompagnati da raffiche di vento fanno temere il peggio. La pioggia fa parte del gioco, ma se degenera e la strada si gonfia come un fiume in piena cosa facciamo noi tre in un pulmino, per non parlare della vivandiera? Rari nantes in gurgite vasto… In certi frangenti il latinorum non serve. E neanche scimmiottare Fonseca.
Attraverso i vetri, rigati in obliquo da grossi rivoli che scorrono veloci, gli alberi mi appaiono come una barriera spettrale in balia del vento sul punto di abbattersi al suolo.
Incomincio a capire che qui viaggio e avventura sono ancora sinonimi e che le mie emozioni sono ad un punto critico.
Incomincia a venirmi in mente che è bene riportare a casa la pelle.
Carlos, sigaretta in bocca, tira fuori dalla tasca del giubbotto un piccolo apparecchio che mi sembra un telefonino. Si metterà in comunicazione con qualcuno avvisandolo della nostra emergenza. Invece rovescia il capo sullo schienale applicandosi l'auricolare e dice arriveremo in tempo reale. Che non c'entra un cavolo, però fa bella figura. Poi ascolta beato una cassetta battendo il tempo con il piede.
L'autista deve avere una grande esperienza alle spalle. Continua a guidare pacioso come se niente fosse. Unica variante: ha messo in funzione i tergicristalli che fanno uno scatto nervoso ad ogni cambio di direzione interrompendo per un attimo il cigolio lamentoso, quasi straziante.
La vivandiera sempre in fondo zitta zitta, non dà segni di vita.
Mi sento prigioniera dei portoghesi.
Tanta furia passa in fretta e non rimane traccia né di pioggia, né di vento. Tutto torna normale. Mi assopisco di nuovo.
Mi sveglio quando il pulmino smette di dare scossoni e si ferma. Siamo arrivati? Macché. Attendiamo di poter attraversare un fiume su un ponte mobile. I cavi sono azionati da un bruno guardiano della notte, occhi di carbone ardente che lanciano sinistri bagliori. Ma l'espressione del viso è quella di un amico.
Approdati all'altra sponda, riprendiamo la corsa sulla strada di terra rossa, sempre in direzione del Cile.
Mi sveglio quando il pulmino si ferma per la seconda volta. Siamo arrivati? Macché. Sosta al "bar" della sorella della fidanzata dell'autista che è sposato con un figlio di otto anni. Tutti lo sanno, anche la fidanzata. E la moglie sa della fidanzata. E va tutto bene così.
Un caffè, quattro chiacchiere, risatine, saluti e baci e arrivederci a presto.
Strada rossa, alberi, buio, buio, alberi. Sonnellino. Fermata. Questa volta ci siamo. Nossignori! Siamo sulla riva del lago, al centro del quale c'è l'isola, al centro della quale c'è la locanda. Ci attende una barca a motore. Trasbordo di persone e bagagli.
Ci allontaniamo rapidamente dalla riva lasciandovi il pulmino con i fari accesi. Dimenticanza o tanto fa lo stesso?
L'imbarcazione, pilotata da un nocchiero di formula uno, nella sua corsa forsennata sfiora la superficie del lago popolato di piranha. Il vento sferzante mozza il fiato. Mi rifugio in un canto coprendomi il naso con le mani.
Ad un tratto l'incantesimo: vedo sorgere dalle acque la mitica isola che ormai credevo ci fosse solo sulla cartina.
Ed è qui, dopo l'approdo, che mi accingo a scalare, per mezzo di comodi gradoni, il fianco dell'altura sulla quale si trova l'alloggiamento. Passo dopo passo.
 
Ancora un ultimo passo ed eccomi finalmente sulla spianata erbosa della pousada, albergo rustico-elegante che si ispira snobisticamente alle locande di un tempo destinate a viaggiatori di passaggio.
Quasi non credo di essere davvero arrivata. Nell'aria umori sconosciuti e calma assoluta. Le luci pungenti come spilli di alcuni lampioni consentono di intravedere lo scenario: una placida piscina simile ad un'acqua marina incastonata in bianche piastrelle, candidi lettini da sole per forzati del benessere; viottoli, dal percorso ondulato e lastricati con pietre rossastre, conducono in fondo alla locanda, sagoma cilindrica con l'ingresso rischiarato da una luce rosa-arancio che uscendo dal vano si adagia sull'erba come un vapore luminoso.
Mentre ci avviciniamo, Carlos mi spiega che la forma circolare della costruzione e il luogo in cui sorge, il più alto dell'isola, non sono casuali. Infatti, secondo un'antica leggenda, qui si svolgevano feste religiose, si consumavano riti iniziatrici e si ospitavano i membri delle tribù straniere. Era consuetudine disporsi in cerchio intorno alla radura, ora occupata dalla hall della pousada, al limite della circostante boscaglia di cui oggi, per far posto alle attrezzature turistiche, sopravvive solo una piccola parte, specchietto delle allodole per accomodanti turisti, che contiene esemplari di un po' di tutto, quasi come in un museo.
Cammino lungo i rossi sentieri, sul prato strusciando nel terreno morbido, fresco e umido. Da più vicino noto che la parete della pousada è rivestita di tronchi d'albero tagliati nel senso della lunghezza, rozze lesene che simulano l'originaria corona di alberi. Ma richiamano alla mente l'idea di un fortino.
Entro. La preminenza del legno contribuisce a creare un clima rassicurante: parquet, rivestimenti, scale con tronchi d'albero per mancorrenti, come pure fatta di tronchi d'albero è la balaustra della balconata che corre ad anello lungo tutta la circonferenza dell'interno.
Carlos accende una sigaretta e dice domani faccio riposo. Ancora una volta riesce a sorprendermi. È che sono io che mi faccio trovare sempre impreparata.
La gerente, cranio enorme su un fisico minuto, carnagione scura, grandi occhi danzanti e braccia da scimmia, mi chiede se voglio cenare. Sono le tre di notte. Per loro. Per me che arrivo da un altro fuso orario sono le otto del mattino. Solo un succo di frutta e buona notte. Buona notte?
 
È pomeriggio, per me, quando mi sveglio nell'isola del giorno dopo. Devo ricominciare il tempo daccapo.
Per loro, invece è mattino e mi portano la colazione completa: succhi di frutta, prosciutto, salmone, formaggi, yogurt, burro, miele, gelatina di frutta, marmellata, un cesto di profumata frutta esotica, cioè locale, panini morbidi e tiepidi, fette biscottate, biscotti, torta, pudding, latte, caffè, champagne. Avanzo cibo per tre famiglie tirate di cinghia.
Niente televisione per non sentirmi come mi sento quando guardo la televisione. Leggo.
Mi prende sonno verso mezzanotte. È la mia ora di prendere sonno. Ho riacchiappato il tempo.
 
L'improvvisa animazione di stormi ridestati dal primo chiarore frantuma il grande silenzio dell'alba tropicale. Corro alla finestra: avverto un'atmosfera ferma al principio del mondo. Dal bosco accanto sale un concerto di volatili canterini che si va disperdendo nel cielo tinto di speranze, lontano lontano…
Ed è di nuovo silenzio tra gli alberi, nella spianata erbosa e deserta con la piscina che sembra in attesa di qualcuno.
Oltre il prato lo specchio dell'immenso lago racchiude il cielo nel suo cristallo. Assenza di voci e acqua, tanta acqua, dono di Dio l'acqua. Quanta! Forse è la prima volta che guardo veramente un lago… Una canoa, con a bordo un vegliardo dal viso del giusto segnato da anni di sole, costeggia la riva. I remi, con piccoli e regolari colpi, sfiorano l'acqua in cui si riflette il gesto calmo e solenne del rematore. Rispondo al saluto dell'uomo mentre l'imbarcazione si avvicina ad una spiaggetta fra spuntoni di roccia e vegetazione galleggiante.
Mi va stretta la stanza dell'albergo con tutto ciò che serve per una vacanza che non c'è: telefono, televisore, minibar. L'abbandono per andare dove i pensieri non te li porti dietro. Attraverso l'atrio, cerchio magico delle assemblee di un tempo. Cedo alla fantasia e immagino indios con i bastoncini infilati nelle labbra e il corpo decorato con i colori dei fiori, danze fantasmagoriche in un vortice di piume e archi magistralmente incurvati.
Sfuma il breve sogno mentre esco nel prato evitando le attrezzature turistiche che riflettono i già prepotenti raggi del sole e mi dirigo verso il boschetto.
Mi addentro nel mezzo di alberi troppo alti in cerca di una stanza tutta mia seguendo un tortuoso sentiero di terra rossa, quasi una ferita nel cuore del bosco. Scricchiolii nel sottobosco. Sommessi fruscii nel fitto fogliame. La vegetazione getta addosso strane essenze, alcune gradevolissime, altre violente. Termitai, liane, radici aeree. Fra ombre e luci intravedo una nuvoletta che, sospinta dal vento, cambia continuamente. Come la vita.
Il viottolo disegna uno strano labirinto in questo scampolo di foresta che non finisce di convincere. Compie ampie volute attorno a grossi tronchi e a robuste radici emergenti dal terreno. A volte sembra tornare indietro, ripiegarsi su se stesso, come i miei pensieri, ma poi riprende slancio…
Sbuco sulla pista rossa degli aeroplani da turismo nel sole accecante che tutto sbiadisce. La percorro e inaspettatamente scorgo un villaggio: incomincia con una chiesetta bianca e azzurra in stile coloniale con la facciata rivolta verso il lago, di guardia al borgo che le sta alle spalle, attraversato dalla avenida lungo la quale mi incammino. Ai lati casupole di legno con occhiaie per finestre. Per strada la gente, figuranti di un carnevale senza fine, chiacchiera in crocchi come se fosse domenica. Mi saluta ospitale. Succedeva così anche da noi, una volta, nei paesini di montagna. I giovani fanno lo struscio: corteggiamenti, scaramucce generate da uno sguardo, battute antiche di un copione sempre attuale.
C'è anche il circolo del calcio con il bar, un'ampia piattaforma di legno delimitata da una balaustra che ricorda le piste dell'autoscontro dei lunapark. Noto una bionda, vezzosa scimmietta, magrolina e agitatissima, occhietti apprensivi e interrogativi di chi fatica ad orientarsi, tenuta a freno da una catenella. Improvvisamente irrompono tre sbracati giovanotti, jeans e camiciole al vento, con una tartaruga tenuta per la coda e, imprevedibili, incominciano a farla oscillare sotto il nasino della malcapitata scimmietta. Lo scherzo malandrino sortisce il suo effetto: la poveretta, gli occhietti diventati immediatamente da interrogativi a terrorizzati, schizza fuori dalla veranda, il capo pieno di ghiribizzi, facendo divertire come dei matti i tre sciagurati che poi abbandonano lo sconosciuto sul pavimento e la macachina alle sue ansie. Tira e strappa, ma più in là di tanto non va. Poi, scimmietta e curiosa com'è, ritorna sul parapetto, vi si aggancia ruotando pancino all'aria: osserva di sbieco, gli occhietti strabici, l'oggetto temuto e, si direbbe, persino desiderato. Visto dall'alto sembra un buon diavolo. È combattuta. Altri salti, strilli e testacoda. Alla fine la scimmietta ritrova la trebisonda, incomincia ad orientarsi: l'intruso dev'essere inoffensivo, quindi può avvicinarsi. Indugia sul parapetto, allunga il musetto, schizza via, ritorna sempre meno apprensiva, anzi, temeraria, osa scendere nell'interno. Così va tessendo la sua tela. Tenta un incontro ravvicinato. Bussa sulla groppa dello sconosciuto ma lui, tutto d'un pezzo, non raccoglie. Lento lento. Che testuggine! Tuttavia lei non demorde. Quasi lo sfiora. Schizza via, non si sa mai. Poi torna sempre più temeraria e accattivante. Ormai il pensiero di lui le scorre dentro come un fiume carsico. Allora, per volontaria messa a rischio dell'impresa, decide di affrontarlo di petto. Proprio adesso che sta per stabilire un rapporto e l'idillio si avvia a diventare struggente, un'abbondante tabaccaia glielo porta via per cucinarlo a puntino. Lei lo segue, gli occhietti turbati e smarriti. Sta vivendo qualcosa che non è successo.
Le ci vuole un po' di tempo prima di capire che la vita continua ancorché trattenuta da una catenella. Ruota a 180°, voltando le spalle alla vita che non è riuscita ad infilzare, gli occhietti dritti dritti nei raggi vermigli del tramonto. Desiderio di rivalsa? Sì, prima che si faccia notte!

Tornare alla Home page
 
 
 
 
PER COMUNICARE CON L'AUTORE speditegli una lettera presso «Il Club degli autori, cas.post. 68, 20077 MELEGNANO (Mi)». Allegate Lit. 3.000 in francobolli per contributo spese postali e di segreteria provvederemo a inoltrargliela.
Non chiedeteci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©1996 Il club degli autori Mirella Abriani
Per comunicare con il Club degli autori: info@club.it
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit

Rivista Il Club degli autori

Home page Club dei poeti
|Antologia dei Poeti
Concorsi letterari
Arts club (Pittori)
TUTTI I SITI CLUB
Consigli editoriali per chi vuole pubblicare un libro
Se ti iscrivi al Club avrai un sito tutto tuo!

Inserito 21 agosto 1998