- Prefazione
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- Tra le pieghe della
vita rimangono i palpiti del cuore, le calde carezze,
gli entusiasmi, le delusioni, e Rino Passigato si
sente "invischiato nella pece del malumore", si
ritrova ad aspettare i colori dell'aurora per spegnere
la tristezza e, tra sommessi ricordi e acute
riflessioni, molla gli ormeggi, si racconta
pacatamente, con discrezione, con quella
sincerità che lo contraddistingue nella sua
lunga esperienza letteraria.
- Ecco allora che il
"frascare delle betulle, il profumo di timo, i rossi
campi di papaveri, la voce sommessa dei boschi" fanno
dimenticare l'egoismo e la falsità, e quel
passeggiare solitario in un consolatorio album
d'immagini, non è altro che l'ultimo disperato
tentativo di ritrovare la speranza dopo la
disperazione, la melodia "dell'ultima danza d'autunno"
d'un uomo che vede svanire il tempo: le sue parole in
libertà ne sono l'esempio più lampante
come il commovente ricordo degli appuntamenti mancati
con la bella fanciulla bruna, "restìa ai baci"
o quel rimembrare la "bisbetica solitudine" in cui si
chiudeva nella sua stanza e infine l'eco dei
rimpianti, dei sussurri e sorrisi, a scoperchiare le
"parole nascoste nel cuore", a sottrarre alla memoria
gli spiragli delle immagini e delle sensazioni di quei
giorni passati.
- Ora il soffio della
brezza stacca le foglie dagli alberi come fossero
giorni e nel diario esistenziale rimane un "volo
sottile" verso "ingenui splendori" e pare di avere
davanti Rino Passigato mentre ormai sorride
dell'"incerto arrancare sugli ardui/enigmi della
vita", intento a cogliere i "sussurri nel vento": e le
sue parole sembrano fatte di sole, di vento, di luna e
di maree, scivolano sui muri della memoria, avvolgono
le fronde e immancabilmente cadono al suolo, l'arido
terreno del presente.
- Le voci amiche sono
rare, il silenzio alimenta l'amarezza, la vita pare un
continuo muoversi tra "chiaroscuri", e lui, davanti ad
un tramonto anemico, con gli occhi coperti dalle
nuvole seppur legato a questo mondo con un filo di
fiato, con un riflesso di voce, con un lontano profumo
e con i colori della memoria, coraggiosamente porta il
suo cuore oltre l'ostacolo: "in attesa del divenire",
mai dimenticando quel "sapore di libertà",
quella coscienza di sé, quel mondo poetico che
sgorga da un cuore che offre come dono il palpito
intimo, il lirismo essenziale, un senso di pace
inconsueto.
-
Massimiliano
del Duca
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- Poesie
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- I COLORI
DELL'AURORA
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- Non so quante
volte ho atteso
- l'aurora
colorare le pieghe del
- cielo, quante
volte ho cercato
- una farfalla
flirtare con un fiore.
- Non so, bimba
mia,
- quante volte
ho atteso che cessasse
- il tuo
pianto. Ora che sei cresciuta
- vieni a
spegnere la mia tristezza.
- Aspettiamo
ancora i colori dell'aurora
- che
affreschino gli occhi del cielo;
- ma non
sarà come quando al loro
apparire,
- saltavi
giù dalle braccia e ti
mettevi
- a danzare.
Non ci sono più fate e maghi
- che vengano a
darci ad intendere
- che le stelle
sono lucciole, che
- le fragole
del bosco ci strizzano l'occhio,
- quando
passiamo. Ora c'è la Bora,
- che fischia e
ulula e porta
- grossi
ghiaccioli sulla fontane,
- sulle
finestre, ricopre le piante
- di brina.
Urla e fugge, portandosi
- con sé
i nostri segreti
- e le fragole
del bosco.
-
- GRAZIE
-
-
- Non ti posso
regalare il raggio
- obliquo, che
entra dalla finestra,
- né i
capricci della brezza,
- che
s'arrotano nei tuoi capelli,
- la fetta di
luna, che civettuola
- si mostrava
nel cielo
- di ieri sera,
posso solo farti
- ascoltare i
bizzarri scalpiti
- di questo
cuore, rinfocolarti
- con calde
carezze, quando il vento
- della fortuna
è gelato,
- dirti grazie
per aver vestito
- il mio
cammino con gioie
- di primule e
giacinti.
- Grazie per i
vagiti
- di nuova
vita, che vanno crescendo
- nel tuo
grembo...
-
- DIMENTICA
-
-
- Sono
invischiato nella pece del malumore.
- Le fresche
delusioni?
- Le indigeste
calunnie?
- Dietro alla
montagna troverai
- altri colli
ebbri d'aria resinosa,
- il prato
lilla delle eriche,
- il ghiotto
profumo dei finferli.
- Ascolta...
- la voce
sommessa dei boschi,
- i delicati
bisbigli del Creato.
- Dimentica...
- la pesante
superbia del vicino,
- l'affollata
siepe di egoismo
- che ti
circonda,
- la fatica di
regalare il ben accetto
- alle false
amicizie. La sera sosta
- sul fascio
immacolato
- dei raggi di
luna,
- il mattino
sulle stelle di rugiada,
- sul lieto
sfrascare delle betulle,
- sui sospiri
dei prati,
- sui rossi
entusiasmi dei campi di papaveri.
-
- LA
FORSIZIA
-
-
- Vado a
strapparti un fiore. Ti ricordo
- ancora serena
e, quando passo
- per queste
vecchie strade, penso
- al tuo andare
incerto e,
- gli ultimi
tempi... traballante.
- Una garbata
imprecazione
- e continuavi,
aggrappata a me.
- Mi parlavi di
cose d'infanzia
- innocenti.
Ora passeggio da solo;
- ti vedo
venirmi incontro, un ramo
- di forsizia
tra le mani.
- Sfogo con te
i miei ultimi dolori.
- Mi consoli,
ti allungo una mano;
- ma la pietra
del cavalcavia è fredda.
- Mi siedo su
un gradino e attendo
- che ritorni;
intanto fingerò
- di narrarti
la mia tristezza.
-
- NOSTALGIE
-
-
- Non so se
sulle acacie torneranno
- le leggere
voci delle cicale.
- Non so se
torneranno le piroette
- delle rondini
in quest'aria inficiata
- da rutti di
ciminiere. E dobbiamo
- accettare i
dispetti dei refoli
- contagiati da
bubboni alfa e gamma.
- Non so se i
rami del vecchio platano
- gemmeranno
ancora copiosi. Sono
- affollati da
nuvoli di corvi,
- che
dispettosi attendono il tramonto
- per riempire
l'atmosfera del loro
- verso.
Speriamo che l'aria profumi
- di fresco
pulito, dopo gli irruenti
- temporali e
abbia il gradito sapore
- del glicine a
primavera. Da quando
- è
esplosa Chernobyl sono scomparse
- farfalle e
libellule ed i fiori hanno
- l'aspetto di
chi ha avuto la pellagra.
- Qualche agile
passero girovaga
- per l'aria
sozza per le radiazioni
- di
Chernobyl...
-
- LA
MELA
-
-
- E fummo creta
senz'anima, creta
- da plasmare e
divenimmo uomini,
- fatti di
voci, d'aria e profumo
- di bosco. Ci
portarono cibi
- d'oro, stelle
lucenti, sacchi
- di frutta.
Tutto rifiutammo;
- preferimmo la
mela rosseggiante,
- regalataci
dalla sinuosa serpe.
- Lei ne
inghiottì
- un boccone.
Fissai curioso
- le sue
vergogne, che a mala pena
- copriva con
le mani. Lui ci fece
- vestire con
foglie di fico. E
- divenimmo
esseri mortali,
- vapori
d'anima e soli splendenti
- accanto a
Lui; molti presero forma
- di serpe, di
urla, di pianti
- e ci fu il
fuoco, che ci mostrò
- Caronte. I
parenti morti divenivano
- nulla e si
accesero fuochi, perché
- ci guidassero
nella notte.
- E divenimmo
nomadi, vestiti
- di stracci e
scarpe di spago.
LA BALBUZIE DEL VENTO
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-
- Dimmi
perché Ti nascondi nel tuono
- che spaventa
le stelle,
- nel vento che
fugge abbattendo
- le messi; mi
accarezzi
- con i colori
di una margherita,
- mi osservi
dalle crepe di una zolla?
- Mi dai
speranza, dove prima
- la
disperazione si accapigliava
- con l'odio.
Mi fai aprire gli occhi
- al mattino e
lodare
- le note
melodiose
- d'un
usignolo, coccolare
- i teneri
colori dell'aurora,
- rabbrividendo
al rantolo del buio,
- che se ne sta
andando: forse attendi;
- che cessino
l'odio, il sangue, le guerre
- per far
crescere l'uomo
- in un nido
d'amore?
- Ti supplico.
Vieni. Bussa alla porta,
- siediti al
mio tavolo,
- dimmi come
sono roventi
- le carezze
del sole,
- il farmaco
per correggere
- le balbuzie
del vento, quanto è immenso
- il campo dove
riposano
- secoli
passati.
-
- DONA LE MIE
PAROLE
-
-
- Ascolta le
mie parole dicono
- di pace, di
libertà.
- Nel tremila
vengano suonate
- dai flauti e
dai cembali delle galassie
- e giungano
alla gioia del Creatore.
-
- Dona le mie
parole al violino
- che le suoni
dietro le nubi e i cirri
- e desti i
piccoli folletti,
- che vi sono
nascosti ed inizino le danze.
- Porta le mie
parole, colorate
- di biondi
pigmenti e del rosso
- dei papaveri
a ballare nell'azzurro del cielo
- assieme alle
musiche degli astri.
-
- Lascia le mie
brevi parole
- alla storia
di uno strumento
- spaziale del
tremila,
- che le
diffonda di là della terra,
- di là
della luna ed illumini
- di dolci
melodie la solitudine degli astri.
-
- IDILLIO
CAMPESTRE
-
-
- Il fuoco d'un
raggio di sole brucia
- una goccia di
rugiada; la foglia asciutta
- brilla di
verde e si distende all'aria.
-
- Brevi insetti
mattutini inseguono
- i vapori di
rugiada, che stanno
- coprendo le
grosse piante di foschia.
-
- Da una stalla
ritorna allegro il suono
- d'un cembalo,
che fa danzare
- i prati ed i
folti boschi vicini.
-
- Attendo il
sole del mezzodì,
perché
- si riscaldi
il tremante agnellino,
- nato da pochi
giorni.
- Lento
s'incammina il gregge al pascolo
- tra le prime
piante del bosco scopre
- succose
fragole e dolci mirtilli.
-
- Giunto dal
chiasso della città;
- mi rallegro
di questi brevi suoni.
- Il rombo
profondo e maleducato
- del tuono mi
sconvolge e mi stizzisce,
- salto da un
sasso a una ruvida roccia,
- da una buca a
una breve rampa e gioisco
- ad odorare i
profumi di timo...
-
- L'ULTIMA
DANZA
-
-
- Anche tu,
piccola foglia d'acero,
- oggi indossi
l'abito giallo rosso,
- per l'ultima
danza d'autunno. Un soffio
- leggero,
tosto inizi a dondolare,
- a girare sul
ramo. Un lieve refolo
- ti titilla,
ti diverte, ti sei
- scordata
ch'è l'ultima danza.
- Il vento
aumenta la sua forza,
- la povera
forza volteggia, s'arrota,
- si gira,
trema. Un colpo fatale
- la stacca e
cade. Al suo posto
- sorride tosto
una gemma.
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