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Inserito il 27 luglio 1997

FABIO VIETRI, "Io, prestigiatore col cilindro bucato", Montedit luglio 1997, pp.48; Lit. 7.500; ISBN 88-86957-17-3


Prefazione

Già il titolo di questa raccolta, "Io, prestigiatore col cilindro bucato", offre all'immaginazione del lettore l'idea di un personaggio un po' triste, di parole venate da dolce malinconia, rigate da lacrime tiepide. Che tenerezza suscita l'idea di questo giovane prestigiatore anzitempo deluso, che dal magico cilindro della vita credeva di poter trarre il segreto della felicità! E che ancora si ostina, nonostante tutto, a cercare nel fondo del cappello qualche scheggia di serenità, di amore! I versi di Fabio Vietri sono così: parolette estratte senza sforzo, con grande semplicità e candore, da un'anima priva di cerebrali complicazioni che non teme di apparire ingenua per il solo osare di chiamare amore l'amore, e dolore il dolore. Questi sono i nomi, abusati finché si vuole, delle molle che da sempre spingono l'uomo a riflettere, a porsi domande. Perché mai dovremmo vergognarci a usarli? Ed ecco allora che l'autore si sofferma su di essi, li accarezza dentro di sé per cercare di dar loro un senso. E così comprende che sono una cosa sola, e che a unirli è una bizzarra cosa chiamata tempo. Gran mistero, il tempo. Capace di trasformare un giorno di gioia in un anniversario malinconico, di accelerare il suo ticchettio inavvertitamente, cogliendo di sorpresa anche chi l'orologio lo guarda sempre. Come quel vecchio che fissa le lancette e nel loro diverso misurare il tempo - ore, minuti e secondi - ravvisa il trascorrere della propria vita, dall'infanzia così lenta e lontana alla vecchiaia, nella quale i secondi ormai franano l'uno sull'altro e non resta altro da fare che aspettarne il definitivo arrestarsi.

Quella di Vietri è una poesia assolutamente priva di referenti esterni. Non ci sono paesaggi né persone, e anche quando lo spunto per la composizione viene offerto da una situazione per così dire concreta - del resto sempre minuta - si tratta in realtà solo di un pretesto per tornare alla propria interiorità. Tutto ciò che serve, tutto quello che occorre dire, scaturisce dall'animo. Sono le emozioni e i pensieri a prendere corpo, e lo fanno sempre attraverso un tono malinconico e dolce che sa di arrendevolezza al proprio destino. Non di sconfitta, o di resa; piuttosto di rassegnazione dolce-amara di fronte a un fato che, si sa, resta pur sempre incomprensibile. È la rassegnazione che si legge in "Dolcissima: ma né il tempo, / né la vita / hanno concesso / questo spazio / che forse il destino / non ci aveva riservato". L'uomo è dunque incapace di determinare la propria vita? È una semplice comparsa di un dramma che altri hanno scritto ed è destinato a brancolare nel fitto di una trama segreta, se pure una trama esiste? Il messaggio, certo, gronda pessimismo. Ma quanto più coraggio occorre per vivere, quando lucidamente ci si mettono di fronte questi limiti. Rimane, d'altro canto, la capacità di sognare, propria solo dell'uomo: "chiedo solo / di poter continuare a sognare". Non è un grido - niente, d'altra parte, è gridato nella poesia di Vietri. È un sospiro, un sussurro. Che però può aprire larghi spazi a un'umanità infelice, consentendole di "vedere il cielo azzurro / inaugurare il giorno / ricco di colori, / ricco di profumi, / ricco di vita". E i sogni più belli sono quelli fatti d'amore. Amore e sogno, menzogna e tenebra sono i due poli lungo i quali si muove il poeta, attratto e respinto dall'uno all'altro, il quale nel suo continuo oscillare simboleggia l'instabilità dell'animo umano e la sua perenne ricerca di un approdo.

Poesia esistenziale che non offre, né vuole farlo, ricette per la felicità. Ciò che interessa Vietri è, più modestamente ma in fondo più nobilmente, la ricerca di sentimenti autentici, anche se sono di quelli che fanno male. In fondo la sofferenza non deve necessariamente spaventare, e l'autore lo dimostra. È una condizione necessaria, dalla quale non si può sfuggire che a tratti. Tanto vale, allora, metterla sul piatto della bilancia della propria vita, e cercare di comunicarla agli altri. E per far ciò occorre usare un linguaggio piano e diretto, immediatamente accessibile, che lasci intendere come tutte le porte sono aperte a chi si è reso conto dell'esistenza di un'unica verità: tutti gli uomini sono fratelli nel dolore, succubi delle medesime incomprensibili leggi. Ma tutti, come il prestigiatore dal cilindro bucato, possono continuare ad attingere dal cappello anche quando sono consapevoli che il fondo è bucato. Potranno forse trovare ancora l'amore.

Bianca Cerulli

 


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