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Giampiero Mirabassi

6° classificato nel concorso Marguerite Yourcenar 1997
sez. narrativa con questo racconto:
 
 
Le labbra di Velia
 
Mi piaceva il fiume, in settembre. Schiarito dopo i rovesci di fine agosto, che lo avevano riscosso dal languore estivo, scorreva verde opalino, carico di riflessi e di simboli.
Lanciavo la lenza in acqua e aspettavo. In realtà quella della pesca era una scusa. Mi piaceva star lì, seduto, in silenzio e nient'altro; se qualche pesciotto abboccava, bene, e se no, meglio.
Un sabato mattina me ne andavo tranquillo lungo il fiume, quando vidi che la minuscola proda erbosa tra due salici, che era il mio solito cantuccio solitario, era occupata. Mi arrestai deluso e feci per tornare sui miei passi, quando l'intruso, che si era accorto della mia presenza, mi chiamò:
«Venga, venga, c'è posto sufficiente per due; non ci daremo alcun fastidio; io mi tirerò un po' più in là!».
Mi avvicinai perplesso e sistemai le mie quattro scarabattole sotto uno dei salici; poi mi sedetti sull'erba, guardando pescare il mio occasionale compagno. Per quello che volevo fare, cioé nulla, in fondo bastava che pescasse lui.
Era un uomo giovane, sui trent'anni, bruno e piuttosto male in arnese, per non dire proprio straccione, ma con un'aria dignitosa ed assorta. Non mi ci volle molto per capire che anche la sua cannaccia di bambù con legato in cima un improbabile, spropositato, filo di nylon, avrebbe deluso ogni attesa.
«Che tipo di pesca sta facendo?». Gli chiesi.
«Fondo &endash; rispose, senza voltarsi; poi, dopo una pausa &endash; e lei non si mette a pescare?».
«Forse più tardi &endash; risposi &endash; per ora mi basta stare a guardare».
«Contemplativo, eh? &endash; fece lui &endash; La capisco. Anche per me è così: "Titire tu recubans sub tegmine fagii"; qui non ci sono faggi, ma i pioppi sono belli ugualmente e freschi da starci all'ombra».
Rimasi sorpreso: un verso di Virgilio sulla bocca di quel tizio era proprio l'ultima cosa che mi sarei aspettato.
Poi mi venne in mente di storie che avevo sentito da bambino su un certo vagabondo che viveva sul fiume e parlava strampalato; che si diceva fosse un po' matto e vivesse di niente e che solo pochi lo avessero incontrato, tanto che i più non credevano neppure che esistesse veramente. Mi ricordai anche il nome: "Ettorino del Ponte", ecco, così lo chiamavano. Mia nonna, anzi, mi minacciava spesso: «Stai buono, se no Ettorino del Ponte ti porta via e ti affoga nel fiume!». Dunque azzardai:
«Lei si chiama Ettorino, per caso?».
«Ettore, sì! Come l'eroe: "E tu onore di pianti Ettore avraiÉ"».
«Ma, mi scusi la curiosità, io da bambino ho sentito raccontare storie su di un Ettorino del Ponte; era suo padre? Si chiamava Ettore anche lui?».
L'uomo stette un poco in silenzio, poi mi rispose:
«E va bene! Tanto una volta o l'altra l'avrei dovuta raccontare. È successo proprio qui, nell'estate del 1931. Io ero un ragazzotto. Mio padre era morto nella Grande Guerra (almeno così la chiamavano allora) e mi avevano messo in seminario. Durante le vacanze ero venuto ospite di una vecchia zia e mi piaceva pescare. Un pomeriggio ero da solo, vidi riflettersi sull'acqua, in prossimità dell'altra sponda, qualche cosa di bianco. Semi accecato dalla gibigianna del sole sull'acqua, alzando gli occhi all'argine, vidi una ragazza, sola, che mi guardava. Non ne distinguevo bene i lineamenti, ma mi parve subito bellissima. Non faceva niente; stava lì, in piedi e basta. Le indirizzai con la mano un gesto di saluto e lei rispose con un ugual gesto. Poi si mise a canticchiare e, voltatasi, si inoltrò tra gli alberi. La seguii con lo sguardo, fino a che non la vidi più.
Tutti i giorni seguenti ritornai a pescare qui, sperando di rivederla, ma niente. Le vacanze finirono e ritornai in seminario.
L'estate successiva tornai, ospite della solita zia. Non avevo ancora sfatto la valigia, che già ero in riva al fiume, con la canna in mano.
Ed eccola là, dopo un poco, che sale sull'argine, spuntando dagli alberi. «Buonasera!», le gridai e lei «Buonasera» mi rispose ridendo.
E per quella estate fu tutto.
Per farla breve, ogni estate la vedevo, di là dal fiume, solo una volta; ma l'immagine di lei, seppure lontana e sfocata, mi rimaneva nel cuore fino all'anno successivo.
Non diventai prete; ero perennemente inquieto, non era vita per me. Mi tirava il fiume. Del resto, non avevo nessuno cui rendere conto; anche la vecchia zia era morta. Vivevo di lavori saltuari. In fondo, cercavo sempre lei, senza cercarla veramente; ecco, vivevo nella speranza di rivederla.
E ogni anno la rivedevo, d'estate, di là dal fiume e la salutavo. Lei rideva, mi salutava e si allontanava.
Tutto qui, fino all'estate del 1944. Una mattina di quell'anno lì, era giugno inoltrato, ricordo, stavo con la lenza in acqua, ogni tanto scrutando l'altra riva, quando mi sentii solleticare la nuca. Mi girai; lei era là, accoccolata, pressappoco dove è lei ora, e allungava un ramoscello di salice verso di me, ridendo.
Era la prima volta.
Era la prima volta, finalmente, che la vedevo così, a tu per tu.
Era infinitamente più bella di come di lontano mi era sempre apparsa. Aveva occhi scuri, lucenti, profondi; capelli d'ebano raccolti sulla nuca con una crocchia e due lunghe ciocche ondulate che le scendevano davanti alle orecchie, piccole e ben fatte. E poi la bocca; una linea perfetta, con il labbro inferiore appena sporgente che le conferiva un'aria di sbarazzina appena imbronciata.
Era deliziosa.
Lasciato cadere il ramoscello, si sedette con le braccia intorno alle ginocchia a guardarmi di sotto in su, sorridendo.
Io ero rimasto dov'ero, con il cuore in tumulto.
«Finalmente!» le dissi soltanto; «Già, finalmente!» ripeté lei. «Io mi chiamo Ettore e tu?». «Velia». «Velia soltanto?». «Sì, solo Velia». «E di dove sei, che in paese nessuno ti conosce, dove abiti?» le chiesi. «Che importa? &endash; rispose &endash; Aspettami qui, domani». E prima che potessi trattenerla fuggì via ridendo, tra i giunchi. Non mi passò neppure per un attimo l'idea di inseguirla. Attesi spasmodicamente l'indomani. Vedevo i suoi occhi dappertutto: sugli alberi, nel fiume, dappertutto: anche se chiudevo i miei, vedevo i suoi occhi: tramontavano e sorgevano, sbocciavano e cantavano. L'indomani, quando uscì dai salici, non dissi nulla e neanche lei. Dopo un lunghissimo guardarci in silenzio «Ti amo» le sussurrai, banalmente, in fretta. «No! &endash; esclamò lei &endash; non dirlo! Non dirmi questo, mai. Tutto lo dicono e noi non siamo come gli altri. Se vogliamo dare un nome a questo, che sia un nome solo nostro, chiamiamoloÉ chiamiamoloÉ». Si interruppe, guardandosi intorno. C'erano piantine di cicoria selvatica in fiore, con i loro semplici capolini celesti. Ne colse uno:«Cicoria! &endash; esclamò &endash; Chiamiamolo cicoria!». E rise allegra e dolce. Io mi precipitai a cercare qua e là per coglierne un mazzetto che legai con uno stelo di festuca e glielo porsi; anch'io ridendo, felice. «Quando ti rivedrò?». «Domani» rispose. Velia ha un modo curioso di pronunciare le parole; delizioso, per me, ma curioso. La "vu" e la "effe" si confondono e spesso la "ti" è dolce, pronunciata con una punta di lingua tra i denti. Parla senza alcun accento, eppure sembra straniera. Glielo chiesi: «Sei straniera?». «No! &endash; poi accarezzando l'erba intorno a sé con le mani aperte &endash; Questa è la mia terra!» esclamò, come accorata. Poi si avvicinò a me e, senza che me l'aspettassi, mi porse le labbra. La baciai semplicemente appoggiandovi sopra le mie. Come erano morbide, e turgide e fresche! Poi lei si staccò da me, tenendomi a distanza con le braccia tese e mi ripeté «Domani».
Da allora l'aspetto sempre e non mi allontano mai dal fiume e sempre la saluto con un bacio e lei si stacca e mi sospira «Domani!».
«Ma &endash; gli chiesi stupito, quando ebbe finito il suo racconto &endash; ma lei, Ettore, avrà sì o no trent'anni! E mi parla dell'estate del '31 e di quella del '44É».
«Sì, lo so &endash; mi interruppe quasi seccato &endash; lo vedo che ogni tanto il sole va giù, poi riappare; lo sento che ogni tanto fa freddo, poi caldo; il fiume cresce, si abbassa, si intorbidisce, si rischiara, ma tutto accade tra un oggi e un domani. Non so perché; per gli altri il tempo lo dettano il giorno e la notte e lo contano gli orologi: per me un giorno è soltanto l'intervallo tra un bacio e un altro sulle labbra di Velia.
Lo so che per la gente, per l'anagrafe, io dovrei avere novanta anni! Ma da quel primo bacio di Velia sono passati solo cinquantadue domani. E sono rimasto così, immutato, com'è immutata lei, che domani, quando sarà caldo e il sole allungherà specchi d'oro sul fiume, mi bacerà ancora e sarà passato solo un altro giorno!».
Guardavo in silenzio un po' l'acqua, un po' Ettorino, non sapendo che pensare. Ero stupefatto e incredulo, certo, ma mi tornava in mente un'altra storia che sentivo raccontare da bambino. Che nel giugno del 1944, quando gli americani bombardarono il ponte, una bomba, caduta poco lontano dall'argine, aveva aperto una gran buca e in fondo erano apparse le rovine di una scala di pietra, che scendevano ad una porta, pure di pietra. Alcuni operai del paese erano stati assoldati dalla sovraintendenza e sotto la vigilanza del maresciallo dei carabinieri e di un paio di professoroni dell'Università, avevano scostato la pietra, che sigillava una tomba etrusca intatta. Una delle rare tombe etrusche ancora intatte. E gli operai avevano raccontato in paese che su una nicchia di tufo non c'erano ossa sparse, come sulle altre, bensì che tra vasetti attici di unguenti, avevano trovato un mazzetto di fiori freschi, legati da un filo d'erba.
Un mazzetto di fiori di cicoria.
 

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Aggiornato 30 Ottobre 1997 (r1)