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- E Cesare seduto nella pioggia sta
aspettando da sei ore il suo amore ballerina...:
sono versi di una vecchia, ormai vecchia,
canzone che De Gregori intonava con la sua voce
pensosa nei mitici, ormai mitici, anni Settanta;
lo scroscio della pioggia faceva eco alle sue
parole e sembrava di vederlo, Cesare, le spalle
strette nel soprabito da adolescente, tremare e
battere i denti mentre l'orologio segnava le sei
del pomeriggio, e poi le sette, e poi
mezzanotte. E solo allora Cesare si alzava,
zuppo fin nel midollo e annichilito, e tornava a
casa percorrendo le vie di una Torino grigia e
fredda, lasciandosi alle spalle il sogno d'amore
che per qualche tempo aveva rivestito i panni di
Pucci, cantante di caffè concerto
fidanzata all'uomo che l'aspettava, quella
stessa sera, all'uscita opposta a quella dove
Cesare stava consumando le sue speranze e la sua
salute di liceale.
- Fu così che Cesare Pavese, nella
primavera del 1925, si ammalò di pleurite
e dovette assentarsi tre mesi dalla seconda
classe del liceo Massimo D'Azeglio, dove come
professore d'italiano e latino aveva
l'antifascista gobettiano Augusto Monti; un
insegnante di cui, a leggerne ora il ritratto
lasciato da un altro illustre studente, Massimo
Mila, non si può far altro che
rimpiangere di non averne avuti di simili,
compiangendo nello stesso tempo tanti suoi
colleghi dei tempi moderni: "quella scoperta dei
classici che in genere si fa per conto proprio
dieci, venti, trent'anni dopo la scuola, quando
d'essere un arnese di scuola i classici,
appunto, hanno cessato, Monti te la faceva far
lì, seduta stante, con un insegnamento
che ripristinava la vita in tutte quelle cose
che la scuola tende a imbalsamare".
- Ma Pavese non fu bocciato, nonostante la
lunga assenza, quell'anno 1925, e con l'arrivo
dell'estate fu di nuovo libero di andare con i
compagni sul Po, a fare lunghe nuotate che
scacciassero, almeno per un po', il tedio del
corpo e il dolore dell'anima. Aveva diciassette
anni; da poco aveva abbandonato la lettura del
"D'Annunzio delle dattilografe" Guido da Verona,
che forse aveva acceso e turbato le sue prime
fantasie sull'altro sesso, per passare al
D'Annunzio vero, e poi all'Alfieri, nel quale
scopre l'orgoglio di essere piemontese e la
tenacia della volontà, e poi a Tagore, di
cui copia diligentemente in una lettera alcuni
versi: "Non vi è forse gioia nel profondo
del tuo cuore? Forse che ad ogni tuo passo la
strada non echeggerà armoniosamente come
un'arpa resa dolce dal dolore?". Pensava
già alla poesia: "La poesia è
dappertutto. Un qualunque sentimento è
poesia. E questo dono divino è l'unica
cosa veramente nostra, poiché la scienza
è, sotto un certo aspetto, una
realtà fuori di noi, è di tutti e
di nessuno". Scriveva già in poesia:
"Senza una donna da serrarmi al cuore / mai
l'ebbi, mai l'avrò. Solo, stremato / da
desideri immensi di passione / e pensieri
incessanti, senza meta...".
- La poesia e la donna. Già da
allora strette, avvinte, fuse in un unico grido
che percorrerà tutta la vita di Cesare
Pavese: una vita iniziata a Santo Stefano Belbo,
in provincia di Cuneo, nel 1908 e terminata a
Torino, in una stanza dell'albergo Roma, una
calda notte di fine agosto del 1950. Esattamente
cinquant'anni fa. In quella stanza, dopo,
trovarono, scritte di pugno da Pavese, parole
riprese da Majakovskij: "Non fate troppi
pettegolezzi". Pavese era diventato davvero un
"fucile sparato". Nei quarantadue anni che
separano la cascina di Santo Stefano - la
campagna piemontese, i sentieri tra le vigne, le
colline, la gente aspra silenziosa e forte - e
l'albergo Roma - Torino, la città dove le
vie non finiscono mai, dove si poteva godere
della "faccia sempre diversa della gente sui
cantoni più familiari" - Cesare Pavese ha
messo in gioco tutto se stesso con il vigore e
la fermezza coi quali riconosceva, pochi giorni
prima di morire, di avere "dato poesia agli
uomini"; ha "fatto" cultura nel senso proprio,
più creativo, del termine, imprimendole
una serie di spinte e accelerazioni dagli
effetti di lunga portata; è stato,
insomma, un protagonista della vita
intellettuale, al centro di una rete di
relazioni e amicizie che compongono sotto gli
occhi di chi le osserva la geografia di quel che
di meglio è stato scritto e detto in
Italia tra le due guerre e anche dopo: oltre ai
già citati Monti e Mila, incontriamo
Norberto Bobbio, Mario Sturani, Leone Ginzburg,
Giulio Einaudi, Giaime Pintor, Fernanda Pivano,
Davide Lajolo (autore di una biografia pavesiana
che si legge come un romanzo e si medita come un
saggio), Vittorio Foà. Pavese, con gli
occhiali allentati sul naso e il passo delle
Langhe, ha camminato per vent'anni sulla strada
maestra della letteratura, scambiando e
divulgando esperienze narrative, proprie e
altrui, di grandissimo spessore: come scriveva a
Monti sulla foto ricordo dell'ultimo anno di
liceo, "senza citazioni e senza frasi,
ché lei ci ha insegnato a porre l'ultima
cosa nella vita i letterati. Le mostreremo la
nostra riconoscenza con le nostre
opere".
- Le sue opere: quelle di narrativa sono
tante, e gli valsero la notorietà e un
premio Strega; quelle di poesia solo due:
Lavorare stanca, la cui prima edizione è
del 1936, e Verrà la morte e avrà
i tuoi occhi, dedicata a Costance Dowling,
l'ultima donna della sua vita, uscita postuma.
Trovarono l'originale nel suo ufficio alla
Einaudi, già dattiloscritto e ordinato,
insieme a quello de Il mestiere di vivere, il
diario che Pavese incominciò a scrivere
quando era al confino a Brancaleone Calabro, nel
1935. Si tratta di un diario singolare, dove
l'esperienza letteraria e quella umana si
compenetrano e si fondono, a riprova del fatto
che esse furono ugualmente importanti per il
poeta e la sua opera. Vi si trovano pagine
illuminanti sulla poetica di Pavese,
dichiarazioni sulle proprie capacità di
innovatore di stile e letture critiche di opere
altrui; accanto a queste, e sempre più
spesso col passare degli anni, compaiono sfoghi
brucianti sulla propria vita e sulle proprie
delusioni amorose e riflessioni sul "vizio
assurdo", la morte, che per Pavese fa tutt'uno
con l'idea di suicidio. Nel 1926 Elio Baraldi,
amico e compagno di scuola, si spara. Pavese
è sconvolto, non riesce a pensare ad
altro: quell'annientamento di sé che
racchiude coraggio estremo, ecco, è sotto
i suoi occhi proprio per mano di un amico che
aveva sempre considerato più sicuro di
sé e fortunato con le donne; per il
poeta, che già a diciotto anni sentiva
salire la febbre del vizio assurdo, e scriveva
"Pavese è morto", è un fatto che
non sarà più dimenticato. A
diciotto anni Pavese era impietoso con se
stesso: "incapace, timido, pigro, malcerto,
debole, mezzo matto, mai, mai potrò
fermarmi in una posizione stabile, in ciò
che si chiama la riuscita della vita. Mai, mai".
Più avanti lui stesso scriverà che
questa era la sua sifilide, il buio labirinto da
cui non è possibile uscire se non a
tratti, guidato dalla poesia - "qualcosa che
duri eterno" - o dalla donna.
- La prima donna della vita di Pavese, sua
madre, lasciò un imprinting molto forte.
Rimasta vedova con due figli, la prima di dodici
e il secondo, Cesare, di sei, indossa da quel
momento, come si dice, i pantaloni di casa. Poca
tenerezza e molta autorevolezza sono le
coordinate entro le quali gestisce la casa di
Torino, la cascina di Santo Stefano Belbo -
venduta nel 1916 perché troppo
impegnativa da condurre - e successivamente la
villetta di Reaglie, sulla collina torinese, e
l'educazione dei figli. A tavola silenzio, e si
mangia quello che c'è, piaccia o no. Il
bimbo Cesare sopporta l'austerità della
madre e la perdita del padre chiudendosi in un
suo mondo fatto di poche parole e molti
vagabondaggi, quando è a Santo Stefano,
per i boschi. Quando è a Torino, almeno i
primi anni, conta i giorni che lo separano dalle
vacanze estive in quel paese dove tutto è
diverso, persino il rumore del vento che porta
gli echi lontani del mare laggiù, oltre
Canelli, oltre la strada che porta a Genova.
Nasce qui, ora, il desiderio della fuga dalla
gente, l'anelito della lontananza che lo
porterà, più tardi, a viaggiare
sulle onde delle pagine di tanti scrittori
americani che tradurrà e farà
conoscere nella strapaesana Italia. È
ancora a Santo Stefano che conosce Pinolo
Scaglione, il più piccolo di una famiglia
di falegnami: questo ragazzino autodidatta e
molto sensato, diventato poi uomo buono e
solido, custode delle memorie delle Langhe,
sarà il suo amico di sempre. A lui Pavese
si rivolgerà per l'ultima volta negli
ultimi due anni di vita, per raccogliere le
vicende delle Langhe, le tradizioni, le parole
della gente, i loro drammi; tutto quello che
confluirà poi ne La luna e i falò,
il romanzo che, come ha scritto Layolo, "riapre
e conclude per sempre l'eterno dialogo che
Pavese ha aperto con se stesso, con la natura e
con il mondo fin dagli anni della fanciullezza.
Dialogo tra il mondo reale e il mondo simbolico,
il primo con i suoi tragici fatti concatenati,
il secondo nel ritmo incantato dei suoi simboli
e delle sue immagini".
- Realtà e simbolo: sono i due poli
attorno ai quali ruota tutta la poetica di
Pavese. Lui stesso ne era consapevole. In una
delle due appendici a Lavorare stanca, quella in
cui dichiarava conclusa la sua prima stagione di
poesia, scriveva: "È certo che anche
stavolta il problema dell'immagine terrà
il campo. Ma non sarà questione di
raccontare immagini, formula vuota,
perché nulla può distinguere le
parole che evocano un'immagine da quelle che
evocano un oggetto. Sarà questione di
descrivere - non importa se direttamente o
immaginosamente - una realtà non
naturalistica ma simbolica. In queste poesie i
fatti avverranno - se avverranno - non
perché così vuole la
realtà, ma perché così
decide l'intelligenza". Sforzo supremo di
creazione razionale che attinge all'humus
più profondo, alle radici stesse
dell'esistere. Saranno le ultime poesie:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
- / questa morte che ci accompagna / dal mattino
alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio
rimorso o un vizio assurdo. Partito dalla
realtà oggettivata nella poesia-racconto
di Lavorare stanca, Pavese approda così a
un acceso simbolismo che è, allo stesso
tempo, rivelazione di un destino e di una vita
intera.
- Pavese incontra il suo destino nel 1929,
al penultimo anno di università. Gli si
presenta in vesti femminili, colei che egli ha
chiamato "la donna dalla voce rauca". Si chiama
Tina, è un'insegnante di matematica
iscritta al partito comunista clandestino, il
suo precedente fidanzato è Altiero
Spinelli. Ha un carattere duro e deciso,
è forte e volitiva. Pavese se ne
innamora: la sua presenza e il suo ricordo
segneranno tutta la sua vita perché in
lei il poeta coagula tutto il mondo di simboli e
speranze e separazioni che già sentiva
delinearsi nella sua mente. A lei dedica poesie
di struggente, epica bellezza: L'ho creata dal
fondo di tutte le cose / che mi sono più
care, e non riesco a comprenderla. Non la
comprenderà mai, come anche gli
sfuggiranno tutte le altre donne amate e perdute
nel ricordo di questa: la prima,
l'unica.
- Nel 1930 Cesare Pavese si laurea in
lettere con una tesi su Walt Whitman. Svanita la
possibilità di andare alla Columbia
University, il giovane non smette di occuparsi
di America; nei primi anni Trenta pubblica saggi
e articoli su scrittori e poeti come Sinclair
Lewis, Anderson e Lee Masters. Non è cosa
che renda ricchi, anzi, il problema di come
mantenersi, anche se vive a casa della sorella
Maria, che nel frattempo si è sposata,
comincia a porsi con una certa urgenza. Ed ecco
allora Cesare Pavese, poco più che
ventenne, alle prese con classi di liceali.
C'è una foto che lo ritrae, circondato da
fanciulle, in occasione di una visita del
Principe Umberto: lo si intravede alle spalle
del principe, gli occhiali sul naso e l'aria di
chi si mette in punta di piedi per non sparire.
Ma questi, in realtà, sono anni di
intenso lavoro e probabilmente, almeno in parte,
di serenità: "studierò e
lavorerò per fare della mia vita la cosa
migliore e più bella di cui sarò
capace" scriveva. E in effetti studia, dà
lezioni private, a un certo punto, su insistenza
della sorella, si iscrive anche al partito
fascista per avere la possibilità di
insegnare nelle scuole pubbliche (ed è
una cosa che, anni dopo, ancora rimproverava a
Maria: "a seguire i vostri consigli, e
l'avvenire e la carriera e la pace ecc., ho
fatto una prima cosa contro la mia coscienza");
traduce moltissimo dall'inglese, e questa sua
attività ha un'importanza, non solo sulla
sua formazione umana e artistica ma per tutta la
cultura italiana, ancora oggi fondamentale.
Grazie a lui - e a Vittorini e Cecchi, il cui
ruolo fu analogo - lavori di Melville, Dos
Passos, Joyce, e più avanti di G. Stein,
di Faulkner e di Steinbeck - cominciarono a
circolare in un'Italia dove imperava il clima
oppressivo e conformistico imposto dal regime
fascista, da un lato, e dall'altro - Aventino
della letteratura - la prosa d'arte
raffinatissima e totalmente avulsa dalla
realtà. Pavese trova negli americani
qualcosa che lo spinge a continuare per una
strada che nel 1930, quando cioè scrive I
mari del Sud e Ciau Masino, ha già
imboccato con una certa sicurezza: quella della
"scoperta" del dialetto e della provincia come
serbatoio di realtà a cui attingere per
dare corpo e spessore a una pagina scritta che
non sia puro esercizio letterario ma presa
diretta della vita, o ancor più la vita
stessa. Ed è già tanto consapevole
della portata innovativa del suo
sperimentalismo, e della sua autonomia, da
scrivere "non è letteratura dialettale la
mia - tanto lottai d'istinto e di ragione contro
il dialettismo -; non vuole essere bozzettistica
- e pagai d'esperienza; cerca di nutrirsi di
tutto il migliore succo nazionale e
tradizionale; tenta di tenere gli occhi aperti
su tutto il mondo ed è stata
particolarmente sensibile ai tentativi e ai
risultati nordamericani, dove mi parve di
scoprire un analogo travaglio di
formazione".
- In quei primi anni Trenta, Giulio Einaudi
fonda la sua casa editrice, cosa della quale gli
siamo ancora tutti debitori; vi lavorano,
insieme al fondatore, Ginzburg, Sergio Solmi e
naturalmente Pavese. Nel frattempo Pavese si
prepara al concorso ordinario a cattedre per
italiano e latino; ma proprio allora, il 13
maggio 1935, la polizia irrompe in casa sua e
trova lettere che Altiero Spinelli, ancora in
carcere, aveva scritto a Tina; per farle un
piacere Cesare aveva accettato di riceverle a
proprio nome passandole poi alla donna senza
aprirle. Tanto basta alla polizia fascista per
incarcerarlo a Regina Coeli e poi mandarlo al
confino a Brancaleone Calabro con una condanna a
tre anni (ne sconta poi meno di uno). Da quel
paese, lontano anni luce da Torino, dalla
sorella, dagli amici e dalla donna dalla voce
rauca, Pavese scrive lettere dove racconta la
sua piccola vita quotidiana, chiede libri, e
alterna momenti d'insofferenza per un destino
incrociato per sbaglio - lui, in realtà,
non aveva mai fatto realmente attività
politica, né desiderato farne - a momenti
in cui la sua altissima concezione della
dignità personale, quella che è
stata definita il suo "dover essere", gli
impedisce di metter mano alla domanda di grazia
che da più parti gli viene sollecitata. E
non è solo questo a impedirglielo. Scrive
a una signora, amica di famiglia, che gli
raccomandava di chiederla, quella benedetta
grazia: "La domanda che lei mi consiglia la
farei senz'altro, perché non me ne
importa un fico, ma se un uomo fa di queste cose
la donna si vergogna di lui".
- La donna dalla voce rauca, durante il
confino, gli scrive qualche cartolina. Lui
risponde: "Ti ringrazio di tutti i pensieri che
hai avuto per me. Io per te ne ho uno solo e non
cessa mai". E intanto esce Lavorare stanca per
le edizioni Solaria. Pavese riceve il pacco alla
metà di gennaio del 1936 e scrive a
Carocci, allora direttore della rivista:
"Lacrime, tripudio, auspici, bicchierata: tutto
da solo". Reazioni della critica: zero; del
pubblico, manco a parlarne. La raccolta
verrà ripubblicata nel 1943 da Einaudi,
in una redazione aumentata e modificata che
ospita poesie posteriori al '36 e che rivela
quanto l'idea di poesia, nel frattempo, fosse
cambiata. Era successo che il discorso ampio,
largo, oggettivo della poesia-racconto (quella
dei Mari del Sud, degli Antenati), le cui
suggestioni epiche facevano nascere un verso che
andava ben oltre il tradizionale endecasillabo,
aveva trovato la sua collocazione naturale nella
prosa - ricordiamo che tra il '36 e il '43
Pavese scrive buona parte dei suoi romanzi e dei
suoi racconti - mentre la poesia, già al
tempo del confino, aveva cominciato a recuperare
un'accezione lirica che rivelava quanto
l'espressione in versi fosse, per Pavese, legata
alle sue più dolenti ragioni personali:
la concezione della donna e dell'amore come mete
irraggiungibili. La tragedia amorosa si era
appena compiuta: ottenuta all'improvviso la
grazia, nel marzo del 1936 Pavese prende il
treno, arriva a Torino dove trova alla stazione
l'amico Sturani. Gli chiede subito della donna
dalla voce rauca, di cui non aveva notizie da
più di un mese. "Non ci pensare
più - è la risposta - si è
sposata ieri". Un tonfo. La valigia cade a
terra, Pavese con essa. Per lui, in quel
momento, è come se si fosse rivelata la
cifra di un destino di solitudine, di
impossibilità. Mai una donna, mai una
famiglia, mai un focolare. Desideri semplici,
caldi, buoni, che gli saranno sempre negati.
Dopo quel tradimento le donne, tutte, saranno
rappresentate da Pavese come un frutto di carne
da godere per un momento dopo averlo strappato
dall'albero, o come l'indifferenza e
l'infedeltà personificate: "È
bella come una capra - scrive ne Il carcere,
parlando di Elena - qualcosa tra la statua e la
capra. Veniva dalla montagna ed era proprio una
capra, pronta a tutti i caproni".
- Era già iniziata la scoperta del
mito. I miti che Pavese metterà nei suoi
libri, con la disperata e ferma convinzione che
solo lì risiede la chiave per leggere il
mondo, per viverlo: "il mito - scriveva -
è un fatto avvenuto una volta per tutte
che perciò si riempie di significati e
sempre se ne andrà riempiendo in grazia
appunto della sua fissità, non più
realistica. Esso avviene sempre alle origini,
come nell'infanzia; è fuori dal tempo".
Tutto è nell'infanzia, anche l'esperienza
della separazione e, di conseguenza, della
solitudine, a cui si oppone il desiderio eterno
del ritorno, del ricongiungimento al tempo e al
luogo della preistoria di noi stessi. Ed ecco
che i suoi libri si affollano di personaggi che
tornano, che si spostano dalla campagna alla
città, che vivono le medesime esperienze
di solitudine e sradicamento condensate nella
figura di Anguilla, il trovatello delle Langhe
partito per l'America e tornato, dopo tanti
anni, per non più ritrovare ciò
che aveva lasciato, salvo l'amico Nuto, che
però è cambiato anche lui. Ora
racconta con ritrosia quel che è
accaduto: c'è stata la guerra, la
resistenza, i morti; c'è ancora la
miseria più nera.
- La guerra e la resistenza Pavese le visse
a Torino, lavorando ormai in pianta stabile per
Einaudi. Le visse da assente, chiuso in un suo
"fare" privatissimo, in un'attività
letteraria che è l'unico elemento
rivelatore di un'opposizione al regime che non
si tradusse mai nella partecipazione politica
attiva e diretta alla guerra partigiana; proprio
durante gli anni della guerra Norberto Bobbio
gli presenta Fernanda Pivano, giovanissima, che
ricorda al poeta di essere stata sua allieva.
Una donna, ancora, mascolina, forte e volitiva.
Fanno lunghe passeggiate in bicicletta, lunghe
chiacchierate, finché Pavese le chiede di
sposarlo per due volte; e per due volte riceve
un rifiuto. Le date sono riportate nella funebre
epigrafe che apre Feria d'agosto: "In memoria -
una croce - 26 luglio 1940-10 luglio 1945". Per
lei scrive tre poesie che inserirà nella
redazione definitiva di Lavorare stanca:
Mattino, Estate, Notturno. Sono le poesie in cui
si consuma definitivamente l'esperienza della
poesia-racconto, della quale resta solo l'ampio
verso, e si rivela la dolorosa consapevolezza di
una solitudine senza sbocchi: la donna è
evanescente e impalpabile, una nube dolcissima,
bianca / impigliata una notte tra rami antichi;
è la conclusione, di una dolcezza
straziante, di Notturno. Il linguaggio, puro e
tenero, punta tutto sulla potenza evocativa
della parola: la poesia è, ora,
lirica.
- Dopo la Liberazione, e siamo agli ultimi
cinque anni di vita di Pavese, l'uomo inizia
un'intensa attività editoriale artistica.
Il fascismo gli ha portato via un amico
carissimo, Leone Ginzburg, ammazzato in carcere.
Secondo la lucida analisi di Calvino, che
proprio in questi anni gli fu amico, Pavese
tenta di recuperare ciò che non aveva
fatto durante la Resistenza: "La morale dei suoi
classici, la morale del fare Pavese
riuscì a renderla operante anche nella
propria vita, nel proprio lavoro, nella
partecipazione al lavoro degli altri. Pavese
resta l'uomo della esatta operosità nello
studio, nel lavoro creativo, nel lavoro
dell'azienda editoriale, l'uomo per cui ogni
gesto, ogni ora aveva una sua funzione e un suo
frutto, l'uomo la cui laconicità e
insocievolezza erano difesa del suo fare e del
suo essere, il cui nervosismo era quello di chi
è tutto preso da una febbre attiva, i cui
ozi e spassi parsimoniosi ma assaporati con
sapienza erano quelli di chi sa lavorare duro".
E Pavese stesso scriveva "È appunto
nostro intendimento - di Einaudi e di noi
collaboratori diretti - collaborare alla
costruzione del nuovo assetto economico-sociale
e verso quel benessere collettivo frutto del
lavoro collettivo". Pavese vive e respira
l'atmosfera di grandi speranze e grandi progetti
del dopoguerra: decide di iscriversi al PCI e va
a Roma a organizzare la filiale della Einaudi.
Lì conosce Bianca Garufi, passione
bruciante, per cui scrive le poesie de La terra
e la morte senza mai dimenticare che, per lui,
"ciò che è stato sarà".
Annota nel diario, il primo gennaio del 1946:
"Anche questa è finita. Le colline,
Torino, Roma. Bruciato quattro donne, stampato
un libro, scritto poesie belle. Sei felice?
Sì, sei felice. Hai la forza, hai il
genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte
sfiorato il suicidio quest'anno. Tutti ti
ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno.
Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non
combatterai mai. Conti qualcosa per
qualcuno?".
- L'ultimo qualcuno per cui Pavese
desiderò contare qualcosa arrivò
dal mare nel 1950, ancora sotto vesti femminili:
era Costance Dowling, aspirante attrice
americana. Ultima stagione d'amore. Pavese aveva
vissuto anni artisticamente intensissimi:
quattro romanzi scritti in due anni e un premio
letterario ne avevano fatto un personaggio
pubblico. La donna, forse, subisce il fascino
della fama di intellettuale impegnato che
circonda Pavese. La loro storia dura qualche
mese, Pavese la suggella con parole che
consegna, un mese prima di morire, a Lajolo:
"È scappata di notte dal mio letto
nell'albergo di Roma. Ed è andata nel
letto di un altro, dell'attore che tu conosci.
Come quell'altra, peggio di quell'altra. Ti
ricordi quella di Torino? È lei che ha
detto l'ultima parola tra me e le donne". Pavese
e la donna: per Costance scrive Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi, a lei dedica
La luna e i falò, quando la donna
è già tornata là, oltre il
mare da cui è venuta, lo stesso mare la
cui voce lontana arrivava a Santo Stefano
risalendo la strada di Genova e Canelli. Il
rumore del mare, ora, esplode nelle orecchie di
Pavese come un tuono, un rombo sordo che
impedisce di sentire altri suoni, altre parole.
Prende la penna l'ultima volta, annota sul
diario "non scriverò più". E si
arrende a se stesso, perdendosi negli occhi
della sua morte.
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- Olivia Trioschi
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