-
-
- La voce di Carlo Giuffré al
telefono è profonda e bella. Una voce che
modula le parole dando a ciascuna di esse una
plasticità singolare, e la delicatezza o
il vigore che nelle conversazioni quotidiane,
tra uno squillo di telefonino e uno sbuffo di
stanchezza, tutti noi perdiamo. La voce
affascinante e fascinosa di chi ne fa un uso
educato e attento, perché sa che essa
è strumento privilegiato per la
comunicazione di sentimenti ed emozioni prima
ancora che di idee. È la stessa voce che
da anni incanta le platee dei teatri di mezzo
mondo: in questo periodo, è la voce
attraverso la quale rivive Luca Cupiello,
l'indimenticabile protagonista del Natale di
Eduardo De Filippo. Così chiediamo a
Carlo Giuffré di raccontarci del "suo"
Eduardo: un attore raccontato da un attore, un
mezzo senz'altro privilegiato per parlare di
teatro, di commedie, di pubblico. E,
naturalmente, di voci.
-
- C.G. Eduardo... non l'ho frequentato
moltissimo ma ho molto studiato le sue opere, la
sua attività. Ho anche "rubato" tanto, da
Eduardo. E sono riuscito, così, a capire
molte cose e ad amare la sua drammaturgia. Tanto
che, sul finire di questo secondo millennio, mi
pare che una constatazione si imponga. I nostri
drammaturghi, gli autori italiani che hanno
davvero segnato il millennio, non sono che tre:
Goldoni, Pirandello ed Eduardo, in ordine
cronologico. Non abbiamo altro. Il teatro che si
recita in Italia, se escludiamo questi tre
grandi, è un teatro tradotto da altre
lingue, da altre culture.
-
- A.M. Eppure si è tanto parlato,
specie agli inizi della carriera, di Eduardo
come autore dialettale...
-
- C.G. Vede, bisogna stare attenti quando
si parla di teatro scritto in italiano.
Perché a rigor di termini un teatro
così non esiste. Goldoni scriveva in
veneto. Pirandello, dal canto suo, inventa una
lingua che ha una struttura siciliana, un po'
quello che sta facendo, di questi tempi,
Camilleri. Vogliamo guardare più
indietro? Ruzante adottò il padovano,
Machiavelli il toscano. Di autori che hanno
usato la lingua nazionale, se si eccettua
qualche nome - penso a un Diego Fabbri, ad
esempio - non ce n'è. Tutti hanno usato
il dialetto. Ed Eduardo ha preso il suo
napoletano e, anche lui, l'ha reinventato,
facendone il veicolo per un teatro che esprime
tematiche senza tempo.
-
- A.M. Lei ha usato un'espressione forte,
"senza tempo". È questo, secondo lei, il
segreto del teatro di Eduardo, del successo che
si ripete identico a distanza di tempo e di
luoghi?
-
- C.G. Guardi, il grande teatro, quello,
per intenderci, di Shakespeare, di Checov, di
Moliére, di Ibsen, ha un denominatore
comune: nel contesto di racconti realistici
affronta temi eterni e sempre attuali che non
riguardano il sociale ma l'uomo, la sua
dimensione più individuale e intima.
- Lo stesso accade nel teatro di Eduardo.
Pensi a Natale in casa Cupiello: è un
racconto d'ambiente, una storia molto
metropolitana. Ma è anche permeata di
poesia, sentimenti, vibrazioni ed emozioni, che
"vivono" nella storia proprio grazie a quella
lingua straordinaria di cui parlavamo prima.
Perché Eduardo scrive in una lingua che,
paradossalmente, sembra non scritta. È
una lingua che nasce nel momento stesso in cui i
personaggi vivono i sentimenti, ed è
tanto diretta da sembrare frutto, ogni volta, di
improvvisazione. Non è mai retorica,
letteraria; al contrario, è sempre calda,
viva, umana. E proprio per questo è
straordinariamente teatrale e può
raccontare con tanta immediatezza fatti che
riguardano l'uomo, la storia dell'uomo.
-
- A.M. Dunque Eduardo autore profondamente
umano...
-
- C.G. Si diceva prima che ci apprestiamo
ad entrare in un nuovo millennio. Benissimo. Ma
grazie a Dio non è un marziano, a
commuoverci, bensì un piccolo grande uomo
come Luca Cupiello. È lui che può
ancora darci vibrazioni e grandi
emozioni.
-
- A.M. Eduardo ha scritto anche molte
poesie. Pensa che abbiano la stessa "magia" del
teatro?
-
- C.G. Fissiamo un punto. Eduardo era un
grande, grandissimo teatrante. Al cinema, al
contrario, non sfondò mai. Perché
il primo piano, al cinema, lui non lo
affrontava, lo subiva senza superarlo. Era la
macchina da presa che lo disturbava. Ma lei ha
mai visto Eduardo in teatro? No, vero?
Già, ci vogliono i settantenni come me
per ricordarlo sul palco. Ebbene, se si fosse
seduta nell'ultima fila lei avrebbe sentito gli
occhi di Eduardo, quelli che arrivano
dall'anima, fino in grembo. In teatro Eduardo
aveva una presenza che arrivava addosso,
letteralmente. Un fascino e un carisma come
nessun altro. Eduardo, in teatro, era
straordinario. Ma le sue poesie sono un'altra
cosa. Come dire?, combinata. La sua lingua
teatrale è poetica persino nei sospiri,
nei lamenti. Ma quando Eduardo scrive poesie
è come fosse obbligato, chiuso entro
certe forme, i versi, che gli tolgono
spontaneità e quindi comprimono la sua
vena poetica più autentica. So che tenne
anche recital di poesie, ma lì non
raggiunse mai le vette che toccò col
teatro. Per carità, sono tutte
attività collaterali apprezzabili, anche
per il loro carattere sperimentale, ma Eduardo
sapeva fare, eccome, solo il teatro. Io non
credo che ci sia mai stato un attore capace,
come lui, di catturare il pubblico e dare, al
contempo, una scrittura teatrale così
completa, nella quale si fondono elementi
umoristici, grotteschi, onirici, drammatici,
crepuscolari... tutto, in una parola. Nel teatro
di Eduardo c'è tutto. La sua era una
personalità intensa e struggente. Ed era
quasi un autodidatta, non dimentichiamolo. Ma
per fortuna in teatro non servono le culture. Le
culture appartengono ad altre attività,
alla letteratura. Io dico sempre che quando il
colto non è capito dall'incolto la colpa
non è di quest'ultimo ma del
primo...
-
- A.M. Perché non si fa
capire...
-
- C.G. Esattamente. E questo è un
guaio, soprattutto per il teatro italiano. Che
nasce, il nostro teatro, come Commedia
dell'Arte, e muove i primi passi proprio nel
napoletano, tra Capua e Caserta, dando poi
esempi notevolissimi anche in Veneto. Ma, dopo,
la Commedia dell'Arte si ferma, bloccata
dall'arrivo del melodramma. Eppure è
ancora lì, nella Commedia dell'Arte, che
bisogna cercare per dare linfa al nostro teatro.
L'ha fatto Eduardo, che era figlio di Scarpetta,
il quale era stato, a sua volta, allievo di
Petito... Tutti grandi autori e attori cresciuti
nella Commedia e per la Commedia. Ed è
quando si fa questo teatro che il pubblico
corre, soprattutto oggi. Viviamo tempi in cui si
ha bisogno di cose che ci appartengono,
perché allontanarsi dalle nostre
tradizioni ci fa sentire smarriti, privi di
riferimenti. Noi frequentiamo il teatro
straniero, ma ci riguarda meno: il dramma delle
figlie di Re Lear è meno toccante del
dramma dei figli di Filumena Marturano, o di
quelli di Luca Cupiello. Quelle sono figlie di
re, questi di una prostituta o di un pover'uomo.
Ci toccano di più perché ci sono
più vicini e familiari, hanno a che fare
con la nostra storia più recente, oltre
che con problemi senza tempo. Questo, che
è anche il teatro che porto in scena da
alcuni anni, è quello che chiamo il
teatro "caldo", non attraversato da finzioni
letterarie o da colti riferimenti: è un
teatro diretto, senza impedimenti e senza
simbologie complicate da portare alla luce.
È un teatro che "arriva" tutto allo
spettatore. E infatti ha successo. Come il
nostro Natale.
- Guardi, siamo già stati due volte
all'Eliseo e abbiamo sempre avuto il tutto
esaurito. Dopo di noi è andata in scena
Fedra, di Racine, con Mariangela Melato.
Grandissimo testo e grandissima attrice, ma la
folla non era la stessa. E non per bravura mia,
per carità. Perché il teatro
è la folla, la gente che corre.
Altrimenti rimane un fatto isolato, elitario, e
il messaggio non arriva, o arriva solo a
pochissimi.
-
- A.M. Mi piacerebbe ascoltare un suo
ricordo di Eduardo uomo, fuori dalle
scene.
-
- C.G. Sa, a essere sincero io tutta
l'umanità di Eduardo la trovo nel teatro.
Del suo privato so ben poco, a parte
l'aneddotica che è nata intorno a lui.
Com'era naturale, dal momento che Eduardo era
sarcastico, e molto spiritoso. Mi viene in mente
un episodio, ma forse l'ha già sentito.
Lo raccontai a Romolo Valli e lui lo scrisse in
un suo libro, così ora lo conoscono un
po' tutti. Risale ai tempi in cui la Televisione
era ancora più burocratizzata di quanto
non sia ora. Un giorno un funzionario della Tv
telefonò a casa di Eduardo, presentandosi
così: "qui parla la televisione". Il
maggiordomo, o segretario che fosse, di Eduardo
chiedeva "ma chi parla?" e all'altro capo del
filo quello niente, continuava imperterrito "qui
parla la televisione". Allora Eduardo prese la
cornetta e propose garbatamente "aspetti che le
passo il frigidaire". Di aneddoti così ce
n'è tanti, ma in fondo importano poco.
Molto di più importa quel che Eduardo ci
ha dato con il teatro. Che è moltissimo,
e mi basta per pensare che Eduardo può
benissimo stare in paradiso.
-
- A.M. In paradiso o nel mondo dei sogni,
come tanti suoi personaggi.
-
- C.G. In quasi tutta la drammaturgia di
Eduardo compare un personaggio che scappa dalla
realtà per inseguire i sogni. E questo ci
conforta e ci dà gioia, ed è tanto
più attuale - a proposito di
attualità del teatro di Eduardo - quanto
più i tempi diventano malvagi e crudeli,
come ora. Io penso che ci sia davvero il
bisogno, forte, di ritrovare sentimenti buoni:
nel suo Presepe Luca Cupiello vede un microcosmo
dove tutto va bene e tutti vivono in armonia. E
quando scopre che la realtà è
aspramente diversa da quel microcosmo, allora
muore. Luca muore quando scopre il dolore...
È una morte eroica, la sua. Noi abbiamo
recitato il Natale a Zurigo, in lingua tedesca,
e un critico ha scritto di Eduardo che "è
lo Shakespeare del teatro italiano". Così
torniamo ancora una volta al cuore del suo
teatro: alla sua lingua. Lingua dell'anima che
accompagna le scansioni del cuore, lingua che
parla e comunica. Parole che quasi non si
sentono perché sono sommerse dal
sentimento. Non t'accorgi se gli attori hanno
parlato in veneto, in polacco o altro:
l'emozione t'è arrivata direttamente,
semplicemente.
-
- A.M. Questo è il vero
teatro?
-
- C.G. Il teatro serve a comunicare
sensazioni, vibrazioni. E perché la
comunicazione funzioni deve essere semplice ma
anche nutrita di cultura profonda: cultura
umana, non paludata. Se non arrivano sentimenti,
è cattivo teatro.
-
- Ci salutiamo. Ma prima Giuffrè,
con una voce ora diventata mite, mi chiede
"è contenta?". E io rispondo solo
"sì", sperando che anche la mia voce, per
una volta, trasmetta tutte intere le mie
sensazioni.
-
- Adriana Montefameglio
|