- Spesso il male di vivere
ho incontrato
-
- Spesso il male di vivere ho
incontrato:
- era il rivo strozzato che
gorgoglia,
- era l'incartocciarsi della foglia
- riarsa, era il cavallo stramazzato.
-
- Bene non seppi; fuori del prodigio
- che schiude la divina Indifferenza:
- era la statua nella sonnolenza
- del meriggio, e la nuvola, e il falco alto
levato.

-
- Forse un mattino andando
in un'aria di vetro
-
- Forse un mattino andando in un'aria di
vetro,
- arida, rivolgendomi, vedrò compirsi
il miracolo:
- il nulla alle mie spalle, il vuoto
dietro
- di me, con un terrore di ubriaco.
-
- Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di
gitto
- alberi case colli per l'inganno
consueto.
- Ma sarà troppo tardi; ed io me
n'andrò zitto
- tra gli uomini che non si voltano, col mio
segreto.

-
- Arsenio
-
- I turbini sollevano la polvere
- sui tetti, a mulinelli, e sugli
spiazzi
- deserti, ove i cavalli
incappucciati
- annusano la terra, fermi innanzi
- ai vetri luccicanti degli alberghi.
- Sul corso, in faccia al mare, tu
discendi
- in questo giorno
- or piovorno ora acceso, in cui par
scatti
- a sconvolgerne l'ore
- uguali, strette in trama, un
ritornello
- di castagnette.
-
- E' il segno d'un'altra orbita: tu
seguilo.
- Discendi all'orizzonte che sovrasta
- una tromba di piombo, alta sui
gorghi,
- più d'essi vagabonda: salso
nembo
- vorticante, soffiato dal ribelle
- elemento alle nubi; fa che il passo
- su la ghiaia ti scricchioli e
t'inciampi
- il viluppo dell'alghe:
quell'istante
- è forse, molto atteso, che ti
scampi
- dal finire il tuo viaggio, anello
d'una
- catena, immoto andare, oh troppo
noto
- delirio, Arsenio,
d'immobilità...
-
- Ascolta tra i palmizi il getto
tremulo
- dei violini, spento quando rotola
- il tuono con un fremer di lamiera
- percossa; la tempesta è dolce
quando
- sgorga bianca la stella di Canicola
- nel cielo azzurro e lunge par la
sera
- ch'è prossima: se il fulmine la
incide
- dirama come un albero prezioso
- entro la luce che s'arrosa: e il
timpano
- degli tzigani è il rombo
silenzioso
-
- Discendi in mezzo al buio che
precipita
- e muta il mezzogiorno in una notte
- di globi accesi, dondolanti a riva,
-
- e fuori, dove un'ombra sola tiene
- mare e cielo, dai gozzi sparsi
palpita
- l'acetilene -
- finché goccia trepido
- il cielo, fuma il suolo che
t'abbevera,
- tutto d'accanto ti sciaborda,
sbattono
- le tende molli, un fruscio immenso
rade
- la terra, giù s'afflosciano
stridendo
- le lanterne di carta sulle strade.
-
- Così sperso tra i vimini e le
stuoie
- grondanti, giunco tu che le radici
- con sé trascina, viscide, non
mai
- svelte, tremi di vita e ti protendi
- a un vuoto risonante di lamenti
- soffocati, la tesa ti ringhiotte
- dell'onda antica che ti volge; e
ancora
- tutto che ti riprende, strada
portico
- mura specchi ti figge in una sola
- ghiacciata moltitudine di morti,
- e se un gesto ti sfiora, una parola
- ti cade accanto, quello è forse,
Arsenio,
- nell'ora che si scioglie, il cenno
d'una
- vita strozzata per te sorta, e il
vento
- la porta con la cenere degli astri.

-
- Da "Le
Occasioni"
- Verso
Vienna
-
- Il convento barocco
- di schiuma e di biscotto
- adombrava uno scorcio d'acque lente
- e tavole imbandite, qua e là
sparse
- di foglie e zenzero.
-
- Emerse un nuotatore, sgrondò
sotto
- una nube di moscerini,
- chiese del nostro viaggio,
- parlò a lungo del suo d'oltre
confine.
-
- Additò il ponte in faccia che si
passa
- (informò) con un solo di
pedaggio.
- Salutò con la mano,
sprofondò,
- fu la corrente stessa...
- Ed al suo posto,
- battistrada balzò da una
rimessa
- un bassotto festoso che latrava,
-
- fraterna unica voce dentro l'afa.

-
- A Liuba che
parte
-
- Non il grillo ma il gatto
- del focolare
- or ti consiglia, splendido
- lare della dispersa tua famiglia.
- La casa che tu rechi
- con te ravvolta, gabbia o
cappelliera?
- sovrasta i ciechi tempi come il
flutto
- arca leggera - e basta al tuo
riscatto.

-
- Non recidere, forbice,
quel volto
-
- Non recidere, forbice, quel volto,
- solo nella memoria che si sfolla,
- non far del grande suo viso in
ascolto
- la mia nebbia di sempre.
-
- Un freddo cala... Duro il colpo
svetta.
- E l'acacia ferita da sé
scrolla
- il guscio di cicala
- nella prima belletta di Novembre.

-
- NUOVE
STANZE
-
- Poi che gli ultimi fili di tabacco
- al tuo gesto si spengono nel piatto
- di cristallo, al soffitto lenta
sale
- la spirale del fumo
- che gli alfieri e i cavalli degli
scacchi
- guardano stupefatti; e nuovi anelli
- la seguono, più mobili di
quelli
- delle tua dita.
-
- La morgana che in cielo liberava
- torri e ponti è sparita
- al primo soffio; s'apre la finestra
- non vista e il fumo s'agita. Là in
fondo,
- altro stormo si muove: una tregenda
- d'uomini che non sa questo tuo
incenso,
- nella scacchiera di cui puoi tu
sola
- comporre il senso.
-
- Il mio dubbio d'un tempo era se
forse
- tu stessa ignori il giuoco che si
svolge
- sul quadrato e ora è nembo alle tue
porte:
- follìa di morte non si placa a
poco
- prezzo, se poco è il lampo del tuo
sguardo
- ma domanda altri fuochi, oltre le
fitte
- cortine che per te fomenta il dio
- del caso, quando assiste.
-
- Oggi so ciò che vuoi; batte il suo
fioco
- tocco la Martinella ed impaura
- le sagome d'avorio in una luce
- spettrale di nevaio. Ma resiste
- e vince il premio della solitaria
- veglia chi può con te allo specchio
ustorio
- che accieca le pedine opporre i
tuoi
- occhi d'acciaio.

-
- DA "LA BUFERA E
ALTRO"
- La Bufera
-
- La bufera che sgronda sulle foglie
- dure della magnolia i lunghi tuoni
- marzolini e la grandine,
-
- (i suoni di cristallo nel tuo nido
- notturno ti sorprendono, dell'oro
- che s'è spento sui mogani, sul
taglio
- dei libri rilegati, brucia ancora
- una grana di zucchero nel guscio
- delle tue palpebre)
-
- il lampo che candisce
- alberi e muro e li sorprende in
quella
- eternità d'istante - marmo
manna
- e distruzione - ch'entro te
scolpita
- porti per tua condanna e che ti
lega
- più che l'amore a me, strana sorella,
-
- e poi lo schianto rude, i sistri, il
fremere
- dei tamburelli sulla fossa fuia,
- lo scalpicciare del fandango, e
sopra
- qualche gesto che annaspa...
- Come quando
- ti rivolgesti e con la mano,
sgombra
- la fronte dalla nube dei capelli,
-
- mi salutasti - per entrar nel buio.
-
- L'Arca
-
- La tempesta di primavera ha
sconvolto
- l'ombrello del salice,
- al turbine d'aprile
- s'è impigliato nell'orto il vello
d'oro
- che nasconde i miei morti,
- i miei cani fidati, le mie vecchie
- serve - quanti da allora
- (quando il salce era biondo e io ne
stroncavo
- le anella con la fionda) son
calati,
- vivi, nel trabocchetto. La tempesta
- certo li riunirà sotto quel
tetto
- di prima, ma lontano, più
lontano
- di questa terra folgorata dove
- bollono calce e sangue
nell'impronta
- del piede umano. Fuma il ramaiolo
- in cucina, un suo tondo di riflessi
- accentra i volti ossuti, i musi
aguzzi
- e li protegge in fondo la magnolia
- se un soffio ve la getta. La
tempesta
- primaverile scuote d'un latrato
- di fedeltà la mia arca, o
perduti.
-
- Sulla colonna più
alta
- Moschea di
Damasco
-
- Dovrà posarsi lassù
- il Cristo giustiziere
- per dire la sua parola.
- Tra il pietrisco dei sette greti,
insieme
- s'umilieranno corvi e capinere,
- ortiche e girasoli.
-
- Ma in quel crepuscolo eri tu sul
vertice:
- scura, l'ali ingrommate, stronche
dai
- geli dell'Antilibano; e ancora
- il tuo lampo mutava in vischio i
neri
- diademi degli sterpi, la Colonna
- sillabava la Legge per te sola.
-
- L'Anguilla
-
- L'anguilla, la sirena
- dei mari freddi che lascia il
Baltico
- per giungere ai nostri mari,
- ai nostri estuari, ai fiumi
- che risale in profondo, sotto la piena
avversa,
- di ramo in ramo e poi
- di capello in capello,
assottigliati,
- sempre più addentro, sempre
più nel cuore
- del macigno, filtrando
- tra gorielli di melma finché un
giorno
- una luce scoccata dai castagni
- ne accende il guizzo in pozze
d'acquamorta,
- nei fossi che declinano
- dai balzi d'Appennino alla Romagna;
- l'anguilla, torcia, frusta,
- freccia d'Amore in terra
- che solo i nostri botri o i
disseccati
- ruscelli pirenaici riconducono
- a paradisi di fecondazione;
- l'anima verde che cerca
- vita là dove solo
- morde l'arsura e la desolazione,
- la scintilla che dice
- tutto comincia quando tutto pare
- incarbonirsi, bronco seppellito;
- l'iride breve, gemella
- di quella che incastonano i tuoi
cigli
- e fai brillare intatta in mezzo ai
figli
- dell'uomo, immersi nel tuo fango, puoi
tu
- non crederla sorella?
-
- Da
"Satura"
- Xenia I
-
- Avevamo studiato per
l'aldilà
- un fischio, un segno di
riconoscimento.
- Mi provo a modularlo nella speranza
- che tutti siamo già morti senza
saperlo.
-
- Non ho mai capito se io fossi
- il tuo cane fedele e incimurrito
- o tu lo fossi per me.
- Per gli altri no, eri un insetto
miope
- smarrito nel blabla
- dell'alta società. Erano
ingenui
- quei furbi e non sapevano
- di essere loro il tuo zimbello:
- di esser visti anche al buio e
smascherati
- da un tuo senso infallibile, dal
tuo
- radar di pipistrello.

-
- La Storia
-
- La storia non si snoda
- come una catena
- di anelli ininterrotta.
- In ogni caso
- molti anelli non tengono.
- La storia non contiene
- il prima e il dopo,
- nulla che in lei borbotti
- a lento fuoco.
- La storia non è prodotta
- da chi la pensa e neppure
- da chi l'ignora. La storia
- non si fa strada, si ostina,
- detesta il poco a paco, non procede
- né recede, si sposta di
binario
- e la sua direzione
- non è nell'orario.
- La storia non giustifica
- e non deplora,
- la storia non è intrinseca
- perché è fuori.
- La storia non somministra carezze o colpi di
frusta.
- La storia non è magistra
- di niente che ci riguardi. Accorgersene non
serve
- a farla più vera e più
giusta.
-
- La storia non è poi
- la devastante ruspa che si dice.
- Lascia sottopassaggi, cripte, buche
- e nascondigli. C'è chi
sopravvive.
- La storia è anche benevola:
distrugge
- quanto più può: se esagerasse,
certo
- sarebbe meglio, ma la storia è a
corto
- di notizie, non compie tutte le sue
vendette.
-
- La storia gratta il fondo
- come una rete a strascico
- con qualche strappo e più di un pesce
sfugge.
- Qualche volta s'incontra
l'ectoplasma
- d'uno scampato e non sembra particolarmente
felice.
- Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha
parlato.
- Gli altri, nel sacco, si credono
- più liberi di lui.

-
- La belle dame sans
merci
-
- Certo i gabbiani cantonali hanno atteso
invano
- le briciole di pale che io gettavo
- sul tuo balcone perché tu
sentissi
- anche chiusa nel sonno le loro
strida.
-
- Oggi manchiamo all'appuntamento tutti e
due
- e il nostro breakfast gela tra
cataste
- per me di libri inutili e per te di
reliquie
- che non so: calendari, astucci, fiale e
creme.
-
- Stupefacente il tuo volto s'ostina ancora,
stagliato
- sui fondali di calce del mattino;
- ma una vita senz'ali non lo raggiunge e il
suo fuoco
- soffocato è il bagliore
dell'accendino

-
- Morgana
-
- Non so immaginare come la tua
giovinezza
- si sia prolungata
- di tanto tempo (e quale!).
- Mi avevano accusato
- di abbandonare il branco
- quasi ch'io mi sentissi
- illustre, ex gregis o che diavolo
altro.
- Invece avevo detto soltanto
revenons
- à nos moutons (non pecore
però)
- ma la torma pensò
- che la sventura di appartenere a un
multiplo
- fosse indizio di un'anima distorta
- e di un cuore senza pietà.
- Ahimè figlia adorata, vera
mia
- Regina della Notte, mia Cordelia,
- mia Brunilde, mia rondine alle prime
luci,
- mia baby-sitter se il cervello
vàgoli,
- mia spada e scudo,
- ahimè come si perdono le
piste
- tracciate al nostro passo
- dai Mani che ci vegliarono, i più
efferati
- che mai fossero a guardia di due
umani.
- Hanno detto hanno scritto che ci
mancò la fede.
- Forse ne abbiamo avuto un
surrogato.
- La fede è un'altra. Così fu
detto ma
- non è detto che il detto sia
sicuro.
- Forse sarebbe bastata quella della
Catastrofe,
- ma non per te che uscivi per
ritornarvi
- dal grembo degli
Dei.
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