Satira e Poesia:
Poesie di Fedro
Testi tratti da «Fedro - Favole», Domenico Bassi, Paravia, 1936
- ***
- Libro primo
***
- Prologo
- Esopo concepì questi argomenti
- che in versi di sei giambi ho illeggiadriti.
- Il libro ha due virtù, ché fa sorridere
- e dà consigli al vivere prudenti.
- Chi avesse da ridire a nostro biasimo,
- che oltre le bestie gli alberi qui parlano,
- al giuoco stia d'immaginarie favole.
***
- Il lupo e l'agnello
- Erano giunti a un rivo stesso il lupo
- e l'agnello, sforzati dalla sete.
- Di sopra stava il lupo,
- e in giù, basso basso l'agnello.
- Dalla gola insaziabile
- in quel punto aizzato il malandrino
- mise innanzi un pretesto di lite.
- «Mentre bevo, perché
- tu l'acqua mi fai torbida?»
- E, di converso, quel che dà la lana,
- isbigottito: «O lupo
- scusa, come posso io
- far quello che tu dici?
- dopo di te l'acqua ai miei sorsi scende».
- Dall'energia del vero contrariato
- il lupo ribatté:
- «Son già sei mesi che di me sparlasti».
- E l'agnello risponde: «Veramente
- non ero ancora nato».
- Grida il lupo: «Per Ercole,
- di me sparlò tuo babbo!»
- E sì l'abbranca e iniquamente sbrana.
- È una favola scritta per quegli uomini
- che gli onesti contristano
- con imbrogli e pretesti.
***
- La cornacchia superba e il pavone
- Esopo ci lasciò cotesto esempio
- contro la compiacenza
- di grandeggiare con i beni altrui
- piuttosto di condurre l'esistenza
- nella propria figura.
- Una cornacchia tumida
- di boria inconsistente
- colse le penne cadute a un pavone
- e se le pose in propria guarnitura;
- poi, disprezzando le compagne, andava
- in mezzo al gruppo dei pavoni belli.
- Ma quelli, con beccate che spennacchiano,
- discacciano la volatile impudente.
- Come, da scorbacchiata,
- piangendo, ritornava alle congeneri
- fu ripudiata con severo biasimo.
- E una di questa già da lei spregiate:
- «Se fra nostre nidiate fossi stata
- contenta - così disse -
- se comportato avessi tua natura,
- non saresti svergognata
- né da noi ripudiata in tua sciagura».
***
- La volpe e la maschera
- Disse la volpe, dopo aver guardata
- la maschera da tragico.
- «Quant'apparenza, eppur è scervellata!»
- Ciò valga per coloro cui la sorte
- attribuì fama e titoli
- ma privò dell'usuale intelligenza.
***
- L'asino e il leone che vanno a caccia
- Un grullerello che di gloria blateri
- confonde chi non sa, ma è preso in burla
- se si sa chi lui sia.
- Invogliato a cacciare in compagnia
- dell'asino il leone tra le frasche
- lo ricoprì intanto suggerendogli
- che straordinariamente con sue urla
- spaventasse le bestie; egli le avrebbe
- prese così, fuggiasche.
- Colui - che scarse orecchie! - sbraita subito
- con energia sì larga
- che tale rarità le bestie turba,
- e mentre impaurite
- fuggono ai noti tramiti
- son preda, in orrendo urto, del leone.
- Esso, stanco di strage,
- richiama fuori l'asino e gl'impone
- di cessare dal raglio.
- Ma colui si fa tronfio: «Che ti pare
- l'opera del mio raglio?»
- «Così famosa che se ignaro io fossi
- della tua tempra e razza
- con famosa paura fuggirei».
***
- La volpe e il corvo
- Di parole ingannevoli contento
- purché lodato sia
- c'è chi prende con danno e con vergogna
- tardivo pentimento.
- Un corvo era sul punto di mangiare
- il cacio dianzi tolto a una finestra,
- e stava in cima a un albero. Lo vide
- la volpe e dopo un tratto
- incominciò a parlargli:
- «Che splendore di penne, corvo mio!
- Quanta bellezza nel tuo corpo e al viso!
- Se tu fossi anche musico
- saresti tra gli alati l'eccellente».
- Quegli allor fa per isfoggiare il canto
- e slarga il becco suo cui sfugge il cacio
- che sveltissimamente l'ingannevole
- volpe rapisce con ingordi denti.
- E il corvo? Finalmente
- pianse la sua stupidità gabbata.
***
- Da ciabattino a medico
- Un ciabattino inabile, in miseria,
- disperato, intraprese in luogo estraneo,
- - spacciandosi per medico - la vendita
- d'un antidoto, falso anche nel titolo.
- Il reggitor della città frattanto,
- da una gravosa infermità spossato,
- per metterlo alla prova chiese un calice
- da versarvi acqua pura, ma fingendo
- di mescere l'antidoto col tossico,
- propose un premio e gli ordinò di bere.
- Allora per paura della morte
- colui gli confessò d'essere celebre
- non per propria perizia d'arte medica
- ma per la balordaggine del volgo.
- Il reggitore, convocato il popolo
- così si espresse: «Orsù, con quale stima
- misurate la vostra melensaggine
- se non vi peritate d'affidare
- le teste a chi mai ebbe un individuo
- che gli porgesse i piedi da calzare?»
- Ciò direi allusivo per coloro
- la cui stoltezza sconta sfacciataggine.
***
- La ranocchia scoppiata e il bove
- Chi potenza non ha, come si accinge
- a imitare il potente già è spacciato.
- Successe a una ranocchia di vedere
- in mezzo al prato un bove
- e di tanta grossezza invidiosa
- gonfiò la sua buccia grinzosa,
- poi chiese ai figli suoi se ora non fosse
- diventata più larga del bove.
- Le dissero di no.
- Con sforzo maggiore essa tese
- la cute di nuovo e richiese
- chi fosse il più grosso.
- Le dissero: «È il bove!»
- Allora, imbizzita, nell'atto
- di tendersi al massimo gonfia
- corpo crepato giacque.
***
- La volpe e la cicogna
- Non danneggiamo gli altri, ma se alcuno
- offenderà sia parimenti offeso:
- la storiella ne dà suggerimento.
- Dicono che la prima fu la volpe.
- A pranzo una cicogna essa invitò
- e sopra un marmo liscio un tal guazzetto
- le porse che costei non ebbe modo
- di gustarlo e si tenne la sua fame.
- Ma restituì l'invito della volpe
- e le offrì pieno un fiasco di tritame
- ficcando il becco lungo a sazietà
- ma straziando di voglia l'invitata.
- Diede al collo del fiasco una leccata
- costei, senz'alcun gusto, e noi sentimmo
- come parlò la peregrina uccella:
- «Deve ognuno subire
- liscio liscio le cose che ha inventate».
***
Libro secondo
***
- Prologo
- Il genere d'Esopo è tutto a immagini;
- né si chiede altro ai piccoli racconti
- che i difetti correggere, acuendosi
- l'attenta esperienza dei mortali.
- Qual sia dunque il motteggio del narrare
- se grato è udirlo, se utile l'intento
- non si lodi l'autor più che il concetto.
- Serberò tuttavia grande rispetto
- ai modi di quel Vecchio; e se aggiungessi
- a mio gusto qualcosa per piacere
- con vari motti all'intelletto altrui,
- o lettore, io vorrei tu l'accogliessi
- benevolmente quando sappia rendere
- mia brevità quell'altra leggiadria.
- Per non farmi prolisso in questa chiosa
- bada perché sia bene non concedere
- agl'indiscreti e ai modici offerire
- addirittura ciò ch'essi non chiesero.
***
- Una vecchia ama uno scapolo,
- una giovane anche
- Che dalle donne gli uomini spogliati
- siano comunque, amando o essendo amati,
- s'impara veramente sugli esempi.
- Donna non novellina, nascondendo
- con eleganza gli anni,
- un uomo si teneva
- ch'era di mezza età,
- e di costui gli affetti
- una giovane bella s'era presi.
- Le due desiderando
- sembrare adatte a lui
- a vicenda s'accinsero
- a piluccar capelli dell'amico.
- Egli poteva dirsi pitturato
- da quel donnesco intento
- e a un bel momento diventò pelato,
- perché la giovane gli aveva tolto
- i capelli già bianchi
- e i neri la vecchia.
***
- L'imperatore e lo schiavo atriense
- Una risma esiste a Roma di ardalioni, così detti,
- che affannati si scalmanano acciarpando sottosopra
- nel far niente impegnatissimi, con un battisoffia inutile,
- peso morto per se stessi e a chiunque insopportabili.
- Io vorrei - fosse possibile! - emendarli con un vero
- raccontino: l'ascoltarlo già ripaga l'opera.
- Come il Cesare Tiberio, avviato verso Napoli,
- si fermò nella sua villa di Miseno - quella eretta
- da Lucullo alta sul poggio col prospetto sul mar Siculo
- e dall'altra sull'Etrusco - ecco appare un dei succinti
- schiavi atriensi, la sua tunica di buon lino pelusiaco
- pizzicata sulle spalle con le frange a penzoloni.
- Mentre il suo signor cammina qua e là nei bei verzieri,
- si dà briga di spruzzare da un legnaceo secchiello
- il suolo arido, affettando quasi un lepido servizio.
- Che ridicolo! E di lì con le usuali giravolte
- lo precorre in alto spiazzo per smorzarvi il polverìo.
- Riconosce il tipo Cesare comprendendo anche il suo zelo:
- quello ha in mente non so quale fantasia di ricompensa.
- «Senti un po'» dice il signore. Quello subito fa un balzo
- premuroso e gongolante per il dono ormai sicuro.
- Qui scherzò la maestà di sì grande imperatore:
- «Non hai fatto impresa enorme, è fatica che va in fumo,
- io gli schiaffi emancipanti vendo a prezzo assai maggiore».
***
- Prologo (a Eutico)
- I volumetti di Fedro vuoi leggere,
- Eutico mio? Dagl'impegni distogliti
- per sentire a cuor puro ciò che sia
- in sé la poesia.
- I miei lavori, mi dirai, non meritano
- che nemmeno un istante i tuoi si sciupino.
- Se a un punto tale è colmo in te l'udito
- qui non mettere il dito.
- Ma se risponderai: «Avrò poi ferie
- che a quieto cuor secondino lo studio»
- dimmi, ti prego, ti farai lettore di
- nenie senza valore
- o non darai piuttosto il tempo debito
- alla casa e agli amici, dedicandoti
- alla moglie, con l'anima e le membra
- nell'ozio che rattempra?
- Non così, non così! Abbi altro vivere
- se delle Muse gli aditi tu mediti.
- A stento io sono in loro compagnia,
- eppur la madre mia
- mi partorì là dove al monte Pierio
- la divina Memoria, in novenaria
- fecondità, diede a Giove che tuona
- l'Arti attorno in corona;
- eppur di tale scuola io son partecipe
- quasi per nascita e staccai dall'animo
- ogni pensiero di dovizia, e ho additta
- la vita a gloria invitta.
- Qual vero avvenimento è mai possibile
- a chi vegliando sta non per dotte opere
- ma per accumulare un gran cacume
- col lucro per dolciume?
- Ormai «checché sia poi» secondo il detto di
- Sinone trascinato al re dei Dardani,
- sarò con stilo esopico oratore
- d'un terzo libro, a onore
- tuo e alla dignità tua consacrandolo.
- Se tu lo leggerai ne avrò letizia;
- o assai da dilettarsi, se altrimenti,
- ne avranno i discendenti.
- Perché s'inventò l'arte delle favole
- t'espongo ora in conciso:
- Uno, in soggetta schiavitù, temendo
- dir chiaro il proprio avviso,
- ne tradusse il concetto negli apologhi
- con fantasia giocosa,
- schermendosi così dalla calunnia.
- Io feci spaziosa
- codesta via ch'era soltanto un vicolo,
- e di più ne pensai
- di quante rimanessero sciegliendone
- con la mira ai miei guai.
- Poiché se io avessi accusa testo giudice
- non un Seiano solo
- ma tre distinti, ammetterei pur d'essere
- giustamente in gran duolo,
- né a lenirlo userei questi rimedi.
- Ma se alcun nel sospetto
- errando, volge in sé ciò ch'è generico,
- da folle apre il suo petto.
- Nondimeno vorrei con lui scusarmene
- ché non v'è ticchio in me
- d'indiziare ciascun, ma gli usi d'uomini
- e lor vita qual è.
- Qui si potrebbe dirmi: «È un grosso compito».
- Ma se Esopo riuscì,
- ch'era di Frigia, e se Anacarsi in Scizia
- con l'ingegno si ordì
- una fama perenne, io così prossimo
- alla Grecia sapiente
- la gloria lascerò della mia patria
- nel sonno negligente?
- E la stirpe di Tracia intanto annovera
- scrittori fra gli dèi:
- Apolline di Lino fu l'origine,
- la Musa d'Orfeo, che i
- sassi col canto smosse e rese placide
- le bestie in libertà
- e dell'Ebro trattenne l'onda rapida
- nella tranquillità.
- Dunque, invidia, allontanati, non stridere
- vanamente perché
- come dovuta cosa ormai la gloria
- viene consueta a me.
- Io così t'ho condotto a questo léggere;
- ora ti chiederò
- di ricambiarmi schietto col giudizio
- candido, che ti so.
***
Libro terzo ***
- Esopo e il paesano
- Senza darne il perché dicono tanti
- che un esperto di vita
- sorpassa nel capir gli aeromanti;
- or la storiella mia chiaro l'addita.
- A un non so chi che possedeva un gregge
- le pecore figliarono gli agnelli
- con testa umana: orror che l'atterrì
- e di corsa, con pianti,
- gli fece consultare aeromanti.
- Dà responso, uno, che ne va del capo
- padronale e che occorre distornare
- l'alea con una vittima.
- Altri dichiara che c'è moglie adultera
- e annunziasi così prole illegittima,
- espiabile però con olocausto.
- Che più? Dànno pareri discrepanti
- e ansie con ansie gli fanno maggiori.
- Esopo, lì vicino, naso fine,
- vecchio cui la natura ingannò mai:
- «Paesano - gli disse -
- se il prodigio distogliere vorrai,
- ammoglia i tuoi pastori».
***
- Sorella e fratello
- Stimolato da questo insegnamento
- ossèrvati sovente.
- Un uomo aveva
- una bimba bruttissima
- e un maschietto portento di bellezza.
- Successe che allo specchio
- dalla mamma lasciato sulla sedia
- essi puerilmente
- si sollazzarono a mirarsi a lungo.
- L'uno s'esalta ch'è ben fatto, l'altra,
- ogni cosa prendendo in contumelia,
- stizzisce e non sopporta
- le celie del fratello compiaciuto.
- Perciò molto invidiosa
- fila dal babbo suo per metter male
- e biasima il maschietto
- che s'immischiò di femminile oggetto.
- Li abbraccia il babbo tutti e due, ne coglie
- baci e fa parte all'uno e all'altro eguale
- dell'amorevolezza sua soave.
- Poi dice: «Son contento
- che ogni giorno lo specchio adoperiate
- affinché tu non dissipi bellezza
- peccando in leggerezza,
- e tu così vincendo l'apparenza
- col buon comportamento».
***
- Epilogo (il poeta)
- Ancora avrei da scrivere ma intendo risparmiarmi,
- prima per non sembrare troppo importuno a te
- che tanti oggetti stringi, quindi affinché rimanga
- qualcosa a chi vorrà tentar com'io tentai;
- per quanto sovrabbondino talmente gli argomenti
- che artisti a imprese mancano non imprese agli artisti.
- Dammi alla brevità la ricompensa
- che m'hai offerta, adempi la promessa!
- Poiché di giorno in giorno è più vicina
- alla morte la vita.
- E più tenue regalo mi verrà
- se l'indugio consuma maggior tempo.
- Ma come tu l'affretti, il vantaggio s'allunga
- e più tempo godrò più presto avendo.
- Finché un poco rimane di mia languida età
- il tuo soccorso è valido, ma poi
- la tenerezza tua inutilmente
- s'adoprerà su me fiacco in vecchiaia;
- disutile sarà tuo benefizio,
- morte vicina esigerà tributo.
- Stimo follia di supplicarti quando
- hai proclive e spontanea pietà.
- Sovente un reo confesso ebbe il perdono:
- non è più giusto darlo all'innocente?
- Adesso è la tua volta e già degli altri fu,
- d'altri poi girerà vicenda eguale.
- Decidi ciò che scrupolo e lealtà consentono,
- d'autorità con la tua stima coprimi.
- La mente eccede i limiti proposti
- ma con fatica si trattiene un animo
- che in incorrotta probità sapendosi
- stretto è da spudorati malfattori.
- Mi chiedi tu chi siano? Col tempo appariranno.
- Io di quella sentenza che un dì, ragazzo, lessi
- «Popolano che blatera deve pagarne il fio»
- finché m'abbia giudizio ben mi rammenterò.
***
Libro quarto ***
- Prologo (a Particolone)
- Ero deciso di dar fine ormai
- al mio lavoro, per lasciarne ad altri
- da svolgere abbastanza,
- ma poi tra me e me mi ritrattai.
- Perché, se alcuno il vanto mio volesse,
- come potrebbe indovinar le cose
- trascurate da me,
- quando bramasse d'affidar le stesse
- alla fama? ché ognuno ha un suo pensiero
- intimo e ognuno un colorito proprio.
- Non dunque mi sospinge ancora a scrivere
- la volubilità, ma intento vero.
- E così, poiché a te, Particolone,
- piacciono le mie favole
- (esopiche le dico e non d'Esopo
- ché poche egli ne espose, io a profusione
- ne reco, e usando di un vetusto modo
- dico novelle cose),
- quando avrai tempo libero
- questo libretto mio leggilo ammodo.
- Se la malignità non si trattiene
- dal denigrar, s'accomodi:
- essa non è capace d'imitarmi;
- e a me gloria ora viene,
- ché tu e i tuoi pari avete già copiato
- su vostre carte le mie frasi degne
- per voi di stima e di memoria lunga.
- Che me ne fa d'un plauso illetterato?
***
- La volpe e l'uva
- La fame la stringeva; d'una pergola
- alta la volpe bramava uva, e al massimo
- dello slancio saltava. Non poté
- toccarla e disse, andandosene: «È
- mica matura, acerba non mi piace».
- Coloro che con ciance sminuiscono
- quanto fare non possono
- cotesto esempio prendano per sé.
***
- I vizi degli uomini
- Di sacche Giove ce ne impose due:
- una, dei nostri vizi rimpinzata,
- ci appioppò su la schiena;
- l'altra, pesante degli altrui, ci appese
- davanti al petto.
- Perciò non ci è possibile vedere
- in noi nessun difetto,
- e appena gli altri sgarrano
- li censuriamo.
***
- Il ladro e la lucerna
- All'altare di Giove un ladro colse
- fiamma per sua lucerna
- e con quel lume ivi poté rubare.
- Del sacrilegio se ne andava carico
- quando improvvisa una voce mandò
- la santa religione:
- «Sebbene questi siano i regali dei reprobi,
- a me così spiacevoli che il furto non mi tange
- nondimeno, o scellerato,
- pagherai il delitto col fiato.
- E perché sul misfatto non risplenda
- la nostra fiamma che pietà coltiva
- agli onorandi dèi,
- io vieto un tal commercio della luce».
- Quindi ancor oggi illecito è l'accendere
- una lucerna al fuoco degli dèi,
- o da lucerna sacre fiamme alzare.
- Nessuno spiegherà, tranne l'autore,
- tutta l'utilità dell'argomento.
- Esso vuol dirti che tu spesso allevi
- quei che più avversi a te si scopriranno,
- dimostra poi che non per divina ira
- ma in un tempo preciso si punisce
- dai Fati l'empietà;
- e finalmente vieta che si associ
- con il malvagio il buono.
***
- La formica e la mosca
- Acrimoniosamente diverbiavano
- la formica e la mosca
- su chi fosse da più. Prima la mosca:
- «Puoi forse starmi a paro nelle lodi?
- Ciò che agli dèi s'immola io lo pregusto;
- m'indugio su gli altari, vado a zonzo
- di tempio in tempio, e se mi salta il ticchio
- sul capo sto del re, vìolo le caste
- labbra di oneste donne.
- E faticare? Ohibò! Eppure io godo
- delle cose migliori. Che succede
- a te di somigliante, o zoticona?»
- «Glorioso è il convito degli dèi,
- l'ammetto, ma per gli ospiti,
- per i malvisti no. E se agli altari
- vai, giungi e ti espellono;
- e or che menzioni i re, che delle labbra
- d'oneste donne osi vantarti, è cosa
- da coprir con vergogna.
- Certo non t'affatichi, ma non hai
- quando avere bisogna.
- Mentre io vicino al verno, premurosa,
- raduno un po' di grano, vedo te
- che ti pasci di sterco lungo i muri.
- E nell'estate stuzzichi, e d'inverno
- zitta zitta: il gran freddo ti costringe
- a rattrappirti e poi morire: me
- fornita casa intanto accoglie incolume.
- Credo che basti, l'albagia stroncai».
- Favoletta, ci dài discernimento
- tra chi s'infronzola di falsi vanti
- e chi ha virtù per valido ornamento.
***
- Il poeta a Particolone
- Quante ancora ne restano ch'io potrei dire!
- E varie cose abbondano, da mai finire.
- Ma se le arguzie, modiche, sono attraenti,
- esagerate stuccano. Per questi intenti,
- Particolone - e nomino fra le mie carte
- te che vivrai, degnissimo, fin quando l'arte
- delle latine lettere serberà vanto -
- se non l'ingegno lodami lo svelto canto:
- questo mi pare un merito tanto più equo
- quanto più rincrescevoli sono i poeti.
*** Libro quinto ***
- Prologo (il poeta)
- Io d'Esopo inserisco a quando a quando
- il nome, pur avendo restituito
- da lungo tempo ciò che a lui dovevo.
- Perché? per ingraziarmi il suo prestigio.
- Così fanno gli artisti al nostro secolo,
- per rincarare l'opere,
- su nuovo marmo «Prassitele» firmano
- o «Mirone» su argentee sculture
- o «Zeusi» a una pittura.
- Così verso i più vieti infingimenti
- è morbida l'invidia morditrice,
- non così verso i meriti presenti.
- Ma già mi sento tratto
- a un raccontino per esempio adatto.
***
- Il calvo e la mosca
- La mosca pizzicò la testa nitida
- d'un calvo, che cercando di spacciarla
- si diede un grosso scapaccione. E quella
- in giro lo prese: «Hai voluto
- vendicarti con l'uccidere
- me volante pargoletta;
- che farai ora a te stesso
- per la somma del danno e delle beffe?»
- Rispose il calvo: «Involontario a offendermi,
- facilmente con me mi rappattumo,
- ma te d'abbietta razza uggiosa bestia
- cui piace suggere l'umano sangue
- ammazzar vorrei, sia pure
- con maggiore mia molestia».
- Lezione di perdono è questa scena
- verso chi a caso sgarra,
- perché colui che a bella posta nuoce
- è per me degno di qualunque pena.
***
- Un buffone e un villano
- Propendono i mortali a parteggiare
- senza giudizio e mentre vi persistono
- son dall'aperta realtà puniti.
- Nell'allestir fastosi giuochi un ricco
- invitò tutti, proponendo un premio
- a chiunque mostrasse novità.
- Giunsero istrioni, alle contese lodi:
- tra costoro un buffone,
- noto per l'eleganti sue facezie,
- disse di avere un modo di spettacolo
- che mai in un teatro s'era offerto.
- La voce corre e accalca i cittadini,
- e i posti - dianzi troppi - ora scarseggiano.
- Poiché solo comparve su la scena,
- senza preparativi né aiutanti,
- la grande attesa fece tutti zitti.
- Egli, ad un tratto, s'inchinò col capo
- sul petto ed imitò
- talmente con la voce un maialino
- che tutti sostenevano l'avesse
- sotto il pallio: gli chiesero di scuoterlo.
- Fu fatto, e nulla si trovò. Lo colmano
- di lodi e il suo commiato è un vasto applauso.
- Vide questo anche un uomo di campagna
- «A me non la farà - disse - per Ercole!»
- E dichiarò di botto
- ch'egli il dì appresso avrebbe fatto meglio.
- Ancor più folla. E un parteggiar tenace:
- si siedono e si apprestano a schernire
- piuttosto che a badare allo spettacolo.
- Insieme i due compaiono:
- primo il buffone fa il suo lungo grugnito,
- e applausi scuote e grandi grida suscita.
- Quell'uomo di campagna, allor, fingendo
- di appiattir nella veste un maialino
- (era la realtà, dissimulata
- da quel sospetto in precedenza vano)
- al vero e segregato talmente pizzicò
- l'orecchio, che vi estrasse con tormento
- il verso naturale.
- La gente grida che il buffone è stato
- imitatore assai più verosimile
- e che si cacci fuori quel villano.
- Ma quel villano cava il maialino
- dal nascondiglio e con l'aperta prova
- rende palese il vergognoso abbaglio:
- «Ecco qui chi vi dimostra
- quali giudici voi siate».
***
- Il cane, il cinghiale e il cacciatore
- Contro veloci belve sempre aveva
- soddisfatto il padrone
- un cane vigoroso
- ma incominciò via via con gli anni gravi
- a infiacchire. Un tal giorno
- aizzato a zuffa ghermì l'orecchio
- d'un irsuto cinghiale
- ma dai denti corrosi
- lasciò la preda perdere.
- Lo sgrida il cacciatore e di lui si lamenta.
- E lui, vecchio abbaiante:
- «Non ti mancò mia volontà ma il brio,
- tu loda ciò che fummo
- se ciò che siamo critichi oramai».
- E tu, o Fileto, perché questo io scriva
- perfettamente sai.
***
Appendice
***
- L'autore
- Ciò che mia Musa dice, e sia pur giuoco,
- piace al malvagio e piace all'innocente,
- ma mentre di costui schietta è la mente
- nell'altro cova un malcelato fuoco.
***
- La vedova e il soldato
- Qualche anno addietro in Efeso una donna
- perse il marito, l'uomo prediletto,
- e posto il corpo suo dentro un sarcofago,
- di lì non si poteva distaccare
- in alcun modo: alla tombale stanza
- trascorreva piangendo la sua vita
- cosicché conseguì fama squisita
- di casta vedovanza.
- Uomini che in quel tempo erano stati
- ladri al tempio di Giove, su la croce
- soddisfecero al nume, conficcati;
- e affinché niuno togliere potesse
- ciò che alla morte avanza,
- presso la tomba ove la donna stava
- reclusa, la milizia sui cadaveri
- si pose in sorveglianza.
- Era notte alta e avvenne che un custode,
- assetato, chiese acqua alla ragazza
- che accudiva in quel mentre la signora
- disposta infine al sonno dopo lunga
- vigilante costanza:
- sì che l'altro dall'uscio sogguardò
- e scorse la dolente
- femmina, molto bella di sembianza.
- Cuore sorpreso subito s'accende,
- quindi soavemente appassionato
- arde in concupiscenza;
- e scaltro e pronto inventa mille scuse
- per veder più sovente
- la vedova. Costei di quell'estraneo,
- per sì diuturna usanza
- man man s'accende alquanto: infin le avvinse
- il cuore una più stretta vicinanza.
- Mentre il custode impiega ivi sue notti
- con premura, la salma d'una croce
- viene a mancare. Se ne turba il milite,
- e la cosa racconta
- a la sua ganza. Ma ella, santa ganza,
- risponde: «Mica c'è di che temere!»
- e il corpo del marito, da configgere
- su la croce gli dà, cosicché si eviti
- il castigo per lui di trascuranza.
- Si ebbe così l'infamia
- invece d'onoranza.
***
- Cornacchia e pecora
- La tediosa cornacchia su la pecora
- s'era allogata, e costei sopra il tergo
- sopportatala a lungo e a malincorpo
- disse: «L'avessi fatto
- al can che addenta già pagato avresti!»
- La perfida risponde:
- «Sprezzo gl'inermi e cedo ai forti, io so
- chi tormentare e chi blandire, astuta;
- e anni su anni, fino a farne mille,
- prorogo la vecchiaia».
***
- La meretrice e il giovanotto
- Mentre una meretrice vezzeggiava
- un giovanotto, perfida,
- (e pur sempre ferito
- da molti torti tutto egli si dava
- ligio alla donna)
- scaltrita gli diceva: «Che ti fa
- se tanti mi contendono con doni?
- tu assai di più mi piaci, tuttavia».
- Capendo il giovanotto quante volte
- potrebb'esser gabbato
- rispose: «Io son contento, luce mia,
- quando così questa tua voce sento:
- non è credibile, ma soavissima».
***
- La terragnola e la volpe
- L'allodoletta che in campagna dicono
- terragnola dal far suo nido in terra,
- d'esser cascata sulla volpe infida
- s'avvide e svelta dié di penne in alto.
- L'altra: «Salve - le strilla - ma perché,
- te ne prego, mi schivi
- com'io non abbia largo cibo al prato
- ch'è pien di grilli, scarabei, locuste?
- Non temer, non temere, mi sei cara
- tanto, ché hai cheti modi e onesta vivi».
- Essa: «Che begli elogi! Io ti son pari
- non terra terra ma nel ciel di Dio.
- E vien tu qui! mia vita affido a te».
Leggi l'articolo Fedro Il primo favolista della letteratura latina
di Massimo Barile
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