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Fonte
Colombo
Ricordo il giorno
dell'arcobaleno, in quel Convento di Fonte Colombo, con il sereno che
sperdeva i nembi e i teschi d'ossa nere accatastati vicino al
finestrino medioevale.
Cercavo nel boschetto degradante, fra i chiaroscuri del mattino
assorto, qualche richiamo, qualche nuda impronta di San Francesco,
tramandata, al suolo.
Qualche tronco giaceva sul terreno, accolto dal tappeto vellutato.
Nel bosco tra i respiri del risveglio si confrontava un divenire
alterno.
«Dentro la vita v'è la morte certa, ma nella morte
germina la vita». Questo assioma pensavo camminando verso il
Convento dove il Santo veglia, nonostante il suo sonno secolare.
Giace nel grembo di Sorella Morte
un Corpo Santo ormai tutto disperso,
mentre sul cielo luminoso e terso
apre il sereno giorno le sue porte.
È strana questa nostra umana sorte;
nel lento navigar dell'universo
la vita va alla fine, ma all'inverso
dal nulla sorge il battito più forte.
Forse è dissolto ormai quel Santo Corpo,
o forse poca polvere è rimasta;
ma ancora vive e osanna il lieto canto
di un animo elevato ed entusiasta
che ha sparso sempre lodi sul creato,
e il suo pensiero è inciso e immortalato.
(Rieti 1996 concorso Valle Santa 1° premio)
Colora di verde bottiglia il Naviglio, e striscia osservato da nuvole
rade; ma è subito nero assoluto se i nembi lo schiacciano al
lugubre abbraccio di lutti temuti.
Sospinge se stesso, la forza è compatta nell'intimo moto;
l'ardore disegna le crespe frangenti il riflesso di asfittiche case
che han tolto i respiri alla ripa.
Un candido cigno s'avanza. Che dico? Una papera tozza oscilla le
zampe nell'acqua e reca il biancore a farsi più cupo passando
l'arcata di un ponte radente.
Lo sfogo si va a ribaltare; lo sfogo di solito scritto di nero sul
bianco dei fogli.
Si torna a lavagne lontane che pur nel terrore di errori svelavano
cose che il tempo conferma oppure cancella per sempre.
Nell'ombre del letto, il Naviglio,
sospinto da forze irrisolte
serbanti gli intenti
del giorno che tutto iniziava,
rivela qualcosa.
Qualcosa che è simile
al nero suo volto smarrito
crespato dai ciuffi canuti
di un giovane vecchio in delirio.
Da sempre sta fermo nel punto osservato;
è come lo strano passare
di uno di noi
che va nella sosta
sorretto da fragili e intense illusioni.
(Dalla Silloge Chiaroscuri Città di Leonforte 1° premio ex-equo 1995 pubblicata su Poesie 1995)
Roberto Rebora è deceduto da più d'un anno.
Come spesso accade, l'allontanarsi degli eventi tragici stende un
velo di dissolvenza sui ricordi più strazianti, mentre per
compensazione, si riavvicinano, e prendono consistenza nella memoria
quegli avvenimenti, seppur lontani, che furono più
gratificanti.
Perciò, il poeta, sfuma dal suo letto di sofferenza e si pone
sulla poltrona accanto all'immensa finestra che lo inondava di
luminosità.
È splendido come allora nella sua suadente
solennità.
Ma la sua immagine ancor non s'è fermata; sfugge, sfugge
sempre più indietro nel tempo, si colloca accanto ai templi di
Agrigento.
Eccolo, eccolo il poeta, bianco nella bianca tunica, illuminato dal
brillio delle onde del mare Nostrum mentre impartisce i suoi
insegnamenti ad un gruppetto di allievi.
Parla saggiamente di poesia e di teatro.
E mentre riodo la sua voce che sentenzia come allora:«La poesia,
per essere poesia, non deve essere poesia», mi scuoto e ritorno
nel presente.
Ma non desidero affatto abbandonare Roberto Rebora; è tanto
grato il suo ricordo rispetto all'insensatezza dell'attualità
che con la sua ricordanza mi placo.
Allo scopo di ravvivare la sua testimonianza vado alla ricerca degli
scritti che gli ho dedicato, sapendo che recheranno conforto a me
stesso ed a coloro che avranno la pazienza di leggerli.
È vero! Da un anno
non più tu sorreggi
quell'ultimo corpo consunto,
e spento è il tuo debole dire.
Eppure è con te,
che ora sei solo un pensiero
e poi sarai versi
tra pagine morbide e lievi,
che tento, che cerco un confronto.
E solo il ricordo
di un flebile motto
è un suono più caldo,
più forte e più vero
di tutti i tumulti
del mondo che crolla e si sfascia.
(Pubblicato da Montedit Ricordando un poeta 1994
Milano 1993 premio Centro iniziative letterarie 1° premio exaequo)
Roberto Rebora è una delle rare
persone che misurano le parole: ne misura il peso, la quantità
e l'incisività. Trascinarlo in una lunga conversazione
è impresa pressoché impossibile. È solito
esaurire il discorso con una citazione o con una battuta ironica
bloccando il chiacchiericcio degli interlocutori. Una volta gli
rivolsi l'appellativo di Poeta. Mi tacitò asserendo che non
era affatto un Poeta ma un uomo che fa poesie riportando forse alla
luce una citazione di Vittorio Sereni, suo indimenticabile amico.
Dell'opera poetica e critica di Roberto Rebora parlano e parleranno
in parecchi; verrà certamente collocato nello spazio culturale
che gli compete. Però, come spesso accade, la sua opera
finirà per mettere in ombra la sua personalità umana,
l'uomo Rebora. Perciò, avendo il grande privilegio di essergli
vicino, e forse amico (mi aveva chiesto recentemente di dargli del
tu), non posso esimermi dal ricordare l'uomo Rebora.
Scrivo sul tuo blocco, Roberto! Sul blocco dove hai dipinto quello
che tu definisci l'autoritratto ed a me sembra la scarna ed
essenziale rappresentazione del dolore, del tuo e del nostro dolore,
forse anche, del dolore di Cristo.
La pagina successiva riporta, speriamo non sia così, l'ultimo
tuo tentativo calligrafico: una scrittura che non si comprende, che
potrebbe essere quella di un bambino o la scrittura ritornata alle
origini. Le origini in cui lentamente stai calando. Chiamandoti,
stasera; a fatica apri gli occhi, e il tuo sguardo sfugge via, o
resta dentro, nel distacco che si sta creando fra te e noi che ti
siamo vicini.
Non ci sono molti motivi per sperare in una ripresa, per sperare di
riudire le tue battute tanto taglienti quanto rispettose, come se la
tua spada avesse una lama di marzapane.
L'unica volta che ti ho udito pronunciare una parola sconcia, e ormai
ti conosco da circa un anno, era all'indirizzo di un tal poeta che ti
aveva presentato in una manifestazione a Milano in occasione del tuo
ottantaduesimo compleanno. Ed avevi ragione! Meritava di peggio! Quel
poeta ti definiva intrattabile e di non facile carattere. In merito
alla seconda affermazione, devo dire che in più d'una
occasione dimostravi ammirazione verso le persone di carattare, ed
asserivi che le persone di carattere non sempre hanno un buon
carattere. Però, penso, che tu sia una persona sostanzialmente
dolce, rispettosa e gentile, con addosso una corazza ruvida che ti
preserva dalle banalità e dalle indelicatezze che ti
circondano. Il tuo eloquio contiene espressioni ironiche. Si sa,
l'ironia è una maniera garbata e cordiale per deviare e
prendere la distanza da cose che infastidiscono. Quando ti conobbi
nella tua casa­p;rifugio di via Cappuccio a Milano e ti vedevo
camminare con una difficoltà che evidenziava le tue non buone
condizioni di salute, mi dicevi: «Il mio corpo è
malandato, ma qui dentro ­p; e indicavi la testa ­p; tutto
quanto funziona ancora molto bene». Sulla porta, all'esterno,
c'era quel biglietto che è una sintesi del tuo rapporto col
mondo circostante:«Suonate replicatamente, a volte sono
sordo».
Nella tua abitazione mi hai fatto trascorrere momenti importanti e
rivelatori. Tu sei un poeta, un vero poeta!
Asserisci che la poesia per essere poesia non deve essere
paradossalmente poesia, ma qualcosa di scarno, essenziale, privo di
armonia e musicalità. In ciò non sono d'accordo, ma
forse hai ragione tu! Quando ti manifestavo il mio amore per la
poesia classica, ed in particolare per il Sonetto, mi guardavi con
fare ironico e non osavi nemmeno confutarmi. Ma l'armonia e
l'equilibrio ritmico che tentavi di evitare nelle tue composizioni
poetiche erano insite nella tua personalità. Quando arrivavo
con il sacchetto della colazione contenente dei toast, dei tramezzini
e delle fettine di torta, tu mi chiedevi di dividere tutto a
metà, non perché volessi provare ogni cosa, ma
perché ritengo tu abbia il senso della comunione e della
fratellanza umana. Le tue ultime parole pronunciate prima del
decadimento sono tutte reboriane; così si cominciano a
definire quei motti ironicamente incisivi e significativamente
diversi dal banale. All'infermiera che ti proponeva la varietà
del secondo piatto dicevi:«Formaggio e formaggio» per non
dire, quello che ritenevi meno riguardoso:«Formaggio e
basta». Ultimamente, nei momenti in cui il dolore ti dilaniava
mi sussurravi:«Scusa, so che ti arreco disturbo, puoi fermarti
per favore ancora un poco di tempo?» e poi, come per
sdrammatizzare il tuo tormento e la mia afflizione,
aggiungevi:«Sono stanco, sono stufo, sono vecchio». Alla
professoressa Renata Lollo, la persona che ti è più
vicina in questi terribili momenti, confessavi che il tuo prossimo
libro l'avresti intitolato Altrove. Ed anche con quella asserzione
sapevi addolcire il dramma.
Ecco Roberto, il mondo si fa rarefatto, sfugge, si dissolve; per te
ormai perde i consueti significati. Ti opponi all'inevitabile, ma la
tua anima, forse, desidera altri spazi. L'anima? Ho detto l'anima? Se
non è l'anima è il messaggio vitale che hai trasmesso,
che ciascuno di noi può raccogliere attraverso i tuoi versi,
il messaggio che ti collocherà tra gli immortali del pensiero
e della cultura. Anche la tua bellezza si estingue:
l'emblematicità di questo viso affilato ed austero, di questi
meravigliosi capelli canuti che ti fanno assomigliare ad un patriarca
antico. Ora i tuoi capelli sul limitare dell'alta fronte s'incurvano,
s'increspano, si fanno onda che trascina il tuo pensiero in un oceano
dove il ritorno, forse, non è più possibile.
Roberto Rebora si è spento sabato 29 febbraio 1992 presso la
clinica Devoto a Milano. Sarà tumulato a Moltrasio sul lago di
Como.
AltroveAltrove la sorte s'ignora;
se luce, se buio, se nuovo calvario,
oppure, se avvolti nel manto del cielo
a scrivere versi, che dico,
a scrivere segni più puri:
miraggi negati.
A noi e per noi
nel limite umano,
non resta che attendere un segno
che forse verrà,
oppure non viene,
inciso da mano tremante
nel rosso corallo
col quale scoprire o dire
le cose che il limite, appunto, ci vieta.
Un segno, che forse
che forse, ha spiegato, placato.
(Pubblicato da Montedit Ricordando un poeta 1994
Milano 1992 Premio Centro iniziative letterarie 2° premio)
Inoltrandomi nei boschi, anche oggi come sempre, mi sembra che dai
miei pensieri si sciolgano le incrostazioni del dissennato vivere
contemporaneo. Le candide betulle effondono comprensione e gli alteri
faggi mi esortano a fare qualcosa per emendarmi. E vedendo sul suolo
un'impronta che potrebbe anche essere di un piede scalzo, immagino
che un frate penitente o addirittura San Francesco, mi voglia
prendere per mano e condurmi lungo un percorso che non conosco.
Vorrei scoprire tra remote selve,
ove si posa il vento sulle fronde
e l'acqua culla il luccichio del sole,
l'impronta dei tuoi piedi sulla terra.
Francesco, anche per te passato è il tempo
dell'illusione che quest'uomo reo
potesse ritemprarsi nella fede,
quella che un dì ti trasse dal peccato.
Ora il peccato tiene fosco il sole
e brilla d'illusioni fraudolente:
sono monete inutili alla gioia,
sono monete per riempire il ventre.
Ed io che al più mondano ora rinuncio,
ancor non odo il trillo dell'annuncio.
(Concorso Rieti 1991 Valle Santa 1° premio)
Questa natura ancor sa batter l'ali
Seduto sul sedil della vettura
che pigra corre sulla strada piana
oltrepassando Monza verso Agrate,
laddove il cascinale lascia il passo
a vecchie querce ed al solingo tasso,
quasi senza volere, il ciel m'appare
acceso dalla luce del mattino
là, tra la nebbia bassa e diradata.
Le nubi in fondo, spinte dalla breva,
fanno una grata a strisce orizzontali
e il sole dietro a quelle s'accalora
per dare all'alba il suo nascente apporto.
E non lontano, privo di conforto,
smuove Milano tutto il suo travaglio,
e mentre in quel s'accendon luci al neon
quaggiù riluce il sole coi suoi raggi.
E poi, girando gli occhi verso manca,
s'erge la Grigna con due ciuffi bianchi
e le profonde rughe secolari.
Nel mentre vò pigiando sui pedali
buttando fumi in ver pestilenziali,
mi frulla per la testa una certezza:
nonostante che l'uom si dia da fare
questa natura ancor sa batter l'ali.
(2° premio concorso Poesia e vita, Pablo Neruda Cinisello 1989)
Quest'anno le stagioni del calendario corrispondono esattamente a
quelle naturali. Ventun marzo, apro la finestra, il pesco del
giardinetto è fiorito. I fiori biancorosati si lasciano
stuzzicare dalla breva e ondeggiano nel sereno. Le malinconiche
incrostazioni dell'inverno fra poco si scioglieranno al sole che si
preannuncia tiepido. Penso a tutte le primavere del passato: a quelle
recentemente trascorse e a quelle tramandate dai poeti. Nulla
è mutato nelle manifestazioni della natura, ma purtroppo
nell'uomo tutto si modifica in peggio. Rimpiango il sonetto:
primavera della poesia, ormai non più rinnovato dai poeti
contemporanei. Vagheggio i sonetti di Dante, del Petrarca, del Tasso,
del Foscolo e del Gozzano. Maldestramente tenterò di far
fiorire dalla sterpaglia del linguaggio attuale un petalo di sonetto.
E spero che serva a qualcosa.
Oggi è d'incanto esplosa primavera.
Me l'ha annunciato il vento mattutino
e l'usignolo, là, sul balconcino
che muto m'intristiva l'altra sera.
E s'agitan l'impulso che dispera,
il senso stanco e l'occhio ormai reclino.
Prendono il largo al soffio marzolino
e vanno bighelloni alla riviera.
E lì, nell'esplosione del colore,
dentro i profumi e al sole manifesto
si lascian dall'ebbrezza trasportare.
Ma cupo allude il battito dell'ore
che questa è una stagion che spira presto.
Replica il sol:«Per poi ricominciare».
Passato è un tramonto non visto
Passato è un tramonto non visto
nell'umida sera autunnale
e mentre nel cuor mi rattristo
s'illumina l'alto crinale.
Il sole che scende sul piano
la cappa di nubi riflette
e il monte Campelli pian piano
rivela le trame mai dette.
Accesi son ora i dirupi
e giocano in scena i crepacci:
attori dagli abiti cupi,
attori dagli abiti stracci.
E come su un vecchio pastore
le rughe raccontan la vita:
affanni lontani d'amore,
nottate trascorse in marcita;
così, sul proscenio roccioso,
ogn'era ha segnato un messaggio
col ghiaccio ed il sole più afoso
e il vento impetuoso di maggio.
Traspare persin lo stupore
per l'ultimo nato mai domo
che giunse facendo clamore,
che giunse chiamandosi uomo.
Poi chiude il sipario la notte
e resto a vagar col pensiero;
frattanto le stelle incorrotte
bisbiglian l'eterno mistero.
(1° Premio Fiera di Monza 1989)
Il muro
È sempre corroso quel muro
che l'Alpi sogguarda dal buio.
Il sole all'inverno
gli nasce da dietro
e mai lo sormonta.
Soltanto d'estate si allarga
e va a tramontargli davanti;
ma due muraglioni
lo lasciano sempre
annegato nell'ombra.
È lì che si appiccica l'occhio,
quest'oggi turbato.
Nessuna speranza gorgoglia
dai puri cristalli di quarzo
coperti dall'umida calce.
Cristalli di quarzo!
Folletti danzanti
sui rustici muri
dei Piani di Bobbio;
ed occhi curiosi sui sassi
che sgranano i passi al salire
sul ripido strappo
da cui si respira la cima.
Adesso il muretto è uno schermo
che va restringendo il suo spazio;
da dietro c'è il sole che spande
nel primo meriggio qualcosa,
che forse è una spinta vitale
sul frigido inverno.
(1° Premio poesia città di Parabiago 1996)
Sul mare in tempesta
Seduto su un ruvido scoglio
mi chiedo se ancora
se ancora si possa sognare.
M'assale il lamento del mare
avvinto allo scroscio del vento;
somiglia alle frasi gonfiate
sospinte dai foschi pensieri.
Ma sfugge ai fragori dell'onde
e va a biancheggiare la schiuma;
giocando con pietre rotonde
pian piano si fa risucchiare.
Poeta,
tra un verso seppure il più cupo
e l'altro che viene e già stride,
ben sai che il tuo male profondo
nei brevi intervallisorride.
(1° Premio Radio Play Fiera di Monza 1993)
Vorrei potere analizzare la figura di San Francesco togliendomi di
dosso le influenze di natura spirituale e religiosa, tentando
cioè di condurre il ragionamento nei ben marcati binari del
materialismo. San Francesco fu un uomo che rinunciò al
benessere esteriore, amò e si ispirò alla natura,
dedicò molta parte del suo tempo alla scrittura e alla
preghiera e fu fraterno amico dei suoi simili, tutti compresi. Ora,
guardiamoci intorno, gli innumerevoli guai che stanno deteriorando la
nostra piccolissima parte dell'universo succedono perché
l'uomo è schiavo delle brame del potere e della ricchezza, non
rispetta la natura, agisce e si arrovella nei meandri del male ed
odia, o quantomeno invidia, la maggior parte dei suoi simili.
Cosa possiamo dedurre?
Considerare semplicemente che se gli uomini fossero stati come San
Francesco e i suoi discepoli, forse, ci si cullerebbe in un mondo
migliore. Un mondo in cui regnerebbe l'amore, la vita e la gioia di
dare!
Un mondo in cui regna l'amore,
la vita, la gioia di dare!
Ciò appare una strana chimera,
un raggio di sole nel mare in tempesta,
un trillo di bimbo tra i crepiti forti,
le mani pulite d'un uomo potente.
Eppure c'è ancora qualcuno che indossa
quel saio marrone,
e i sandali nudi
riaffonda nel fango e nel ghiaccio
per dare un esempio
che sia come un giglio nel prato,
un ramo di rosse ciliege
o mano sincera che s'apre alle mani.
Un seme nel mondo che langue,
che forse, che forse
fiorisce un sorriso tra i pianti.
(1° Premio concorso Valle Santa Rieti 1994)