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Paolo Costa

Presenta due racconti brevi
William
 
Fu dopo l'incidente o dopo l'ultimo Prozac non ricordo, vago senza meta per strade di quartieri sconosciuti, in compagnia di un gatto sciancato e di una nebbia che ovatta tutti i rumori, sento fragori di metallo provenire da fabbriche dalle mille luci, fango e lamiere arrugginite, cavi tranciati scintillano nella notte, sirene impazzite, capannoni sorvegliati da rotwailer assassini e guardiani ubriachi, fra poco comincerà il primo turno di lavoro, arriveranno gli operai dai volti scuri bestemmiando per il freddo.
Cammino solo, formica tra formiche, ascolto vecchi narrare storie ingiallite dal tempo superstiti della Grande Guerra contro la vita, mi rigiro nel letto di questo mio decennio: sacchetti della spesa gonfi di pubblicità, stamattina dallo spioncino della porta ho visto dei Testimoni di Jeova conversare con il serial-killer che abita di fianco a me, odore di fritto mi arriva da un take-away cinese, modelle anoressiche girano con borse nere, cyber-punk vestiti di plastica aggiungono un po' di LSD nel depuratore dell'acqua.
«William, William! Fermati!» mi urla un signore. «Non mi riconosci? Sono Tinazzi Sergio dell'ufficio progettazioni, dovei sei finito? tutti ti cercano!».
Ho dei ricordi confusi del passato, cerco di metterlo a fuoco... Sì! ora lo riconosco, era uno di quegli scheletri in giacca e cravatta con cui lavoravo; già dove lavoravo, era un mattina di pioggia, guardavo fuori dalla finestra dell'ultimo piano di un motel Agip sulla Milano-Genova, c'era una conferenza ed io cominciai ad imbrattare i muri dei cessi con frasi senza senso, avevo raggiunto il punto di rottura, ricordo le facce degli ingegneri giapponesi che cercavano di tradurre le mie cazzate scritte lì sui muri; li salutai con un inchino e me ne andai; non tornai più in ufficio, non tornai più a casa da Elena, non tornai più indietro.
Ora condivido un appartamento con la mia follia ma sono libero, la mattina mi fermo a parlare di filosofia con due barboni, poi vado al parco, incido su un vecchio tronco l'ultimo sogno fatto, povero albero foglio silenzioso dei miei sfoghi; assaporo la vita che gli altri rifiutano, da una radio un dee-jay dice che è tutto Ok, assaporo la vita che gli altri schivano; senza fretta seduto su un tetto, sdraiato su una panchina, abbracciato ad una fermata dell'autobus.
A volte vado in metropolitana e vedo uomini insetto che si nutrono di paura guardare nel vuoto, nessuno fiata, tutti col capo chino, nessuno caga i mendicanti, nessuno vive; allora risalgo in superficie e cerco di assorbire tutto: odori sguardi suoni colori umori; fisso per ore un falò, ogni crepitìo del fuoco è un crepitìo della mia anima, io sono William, io sono vivo! Di fianco a me la città scorre veloce, ragazzi indecisi se andare a vedere Alien 198 o Arma Letale 12, ectoplasmi in coda a un bancomat, tossici si offrono come cavie per testare nuovi medicinali; tutti corrono nei loro bunker per vedere il nuovo telefilm; ritmi elettronici muovono le teste di adolescenti, niente melodia solo ritmi ossessivi, sogni plastici frutto di droghe sintetiche, si nutrono con hamburgers, ketchup e violenza, ingabbiati e pronti per un nuovo videogioco, ribellione sfogata al sabato sera correndo in macchina dopo la dose di musica techno, la domenica passata a smaltire, le ore regalate al nulla, felicità artificiale davanti ad un nuovo record a Formula Uno.
Nel buio della mia stanza concerto di pensieri, nessuna notizia filtra, la civiltà lontana anni-luce, i miei sogni al potere, le mani e le braccia inutili appendici sono un fiume di emozioni, liquido umorale chiuso in un corpo per caso, ribelle al re Tempo, sfuggente come il mercurio; ho scomposto me stesso ma devo ancora ritrovarmi, dolce abbandono febbricitante, guardo l'inverno e l'inverno guarda me, beato abbandono, un'altra giornata dedicata solo a me stesso.
 
 
Neon
 
Nulla si crea tutto si distrugge, ecco ciò che penso mentre mi allontano dal motel vicino alla superstrada, l'ultima lettera della scritta Hotel si accende e si spegne quasi a tempo; lei incazzata con le calze di seta rigate in piedi, io seduto sul letto che guardo la Tv via satellite; si accende una sigaretta e mi guarda fisso, faccio finta di trafficare con il mio cellulare, lei aspetta di sentire qualche parola da parte mia, da parte dell'uomo con cui ha appena scopato: «È stato bellissimo Lucia, ti chiamo presto» sono le uniche cose che riesco a dire, ce ne andiamo con due macchine diverse e mi accorgo che non ci siamo scambiati i numeri di telefono.
Un'altra storia inutile, un'altra storia da raccontare agli amici al bar, oggi al lavoro in trip da lavoro stavo per fondere il mio FC; cerco di non pensare a Marta, ma oggi è una giornata d'autunno e le foglie arrossiscono come il suo viso le prime volte che la toccavo, avrei voluto prenderla per mano e camminare per i sentieri del mondo, dal deserto del Sahara fino al polo nord dove avremmo sciolto i ghiacciai con le nostre risa, invece il freddo ha sconfitto noi, ha spento il fuoco che stava per divampare, guardo le foglie a terra, non hanno più colore, le calpesto sputandoci sopra.
Appoggiato al bancone di un bar di periferia, mi ricordo di esserci entrato solo perché mi piaceva la scritta al neon blu; il bicchiere è pieno il barman mi sorride, una cantante blues urla disperata il suo amore; di fianco a me ombre discutono di politica, fisso le etichette delle bottiglie di superalcolici, cerco di capire il testo della canzone ma la cantante usa uno slang che non capisco, sorseggio il mio cocktail che profuma di oblio, una delle ombre al mio fianco comincia a parlarmi poi si ferma mi chiede una sigaretta e ricomincia, continua a ripetere «Fottuta città di ghiaccio» non riesco a capire un cazzo di quello che dice mi limito ad annuire ogni tanto; «Di dove sei?» mi chiede «Di Andromeda» gli rispondo chiedendo un altro cocktail, brindiamo alla pace fra i mondi. Continuo a bere, le immagini si appannano e si dilatano grottescamente, barcollando raggiungo un telefono cerco di chiamare il mio migliore amico ma il numero non mi viene proprio in mente, mi viene da piangere esco di corsa mi stringo nel mio giubbotto di pelle, lampioni mi ricordano l'esistenza della mia ombra, puttane all'angolo della strada mi ricordano l'esistenza del vizio, il freddo mi ricorda l'esistenza della morte; ricordo le pazze corse fra le curve del suo corpo, ti sei dissetata con le mie lacrime; lampeggianti della polizia mi fanno riprendere contatto col presente, mi fermo ad un baracchino mangio un hotdog in compagnia di qualche magnaccia poi torno a casa mi guardo allo specchio e rido dell'ubriaco che ho di fronte; una macchia sulla cravatta l'unico ricordo di questa serata.

 

 

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Inserito il 6 dicembre 1997 (2r,eff)