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                     Errore di
                     prospettiva
 Appena Maffeis ebbe chiusa la porta del suo
               studio, il dottor Zanacchi sprofondò nella sua
               poltrona di pelle scura, tirando un sospiro di
               sollievo."È stato difficile, ma è andata"
               fu il suo primo pensiero. Ma la sua mente non riusciva
               a fermarsi. "Sono stato attento a misurare le parole,
               e poi che diavolo di parole vuoi usare in questi
               momenti? Ha un carcinoma, comunque glielo dici, ha un
               carcinoma, e pure esteso, con metastasi già
               dappertutto... Cosa ci posso fare io?" Provò a
               distrarsi prendendo le radiografie di una certa Diana
               Carpi, 47 anni, sospetta macchia ai polmoni, ma non
               riusciva a staccare del tutto. Forse per il fatto che il Maffeis non aveva
               neanche detto una parola. Era uscito, quasi come era
               entrato, stringendo la mano, magari con una sorriso
               più forzato, ma pur sempre con un lieve ed
               inspiegabile sorriso.Dall'altra parte della parete Angelo Maffeis,
               chiusa la porta alle proprie spalle, camminava per i
               corridoi con passo lento e calibrato. Guardava fisso
               avanti a sé senza scorgere nulla, teleguidando
               i suoi occhi a trovare al più presto la porta
               automatica con in alto la scritta Exit verde
               fosforescente.Mai avrebbe pensato di sentirsi pronunciare
               quelle parole, ma soprattutto mai si sarebbe aspettato
               di avere una reazione simile a quella che gli
               capitava. Avrebbe dovuto piangere, cadere in preda ad
               uno sconforto inesorabile e tremare.Invece sentiva solo una specie di freddo
               penetrargli nelle ossa (nonostante la calura
               opprimente di quel maledetto 12 luglio) e una
               stanchezza lontana risalirgli le vene.Guadagnata l'uscita, l'effetto della sia pur
               debole aria condizionata svanì di colpo, a
               contatto con la pesantezza dell'afa di
               mezzogiorno.Non gli riusciva di pensare a niente. Vedeva
               solo il volto fermo e controllato di Zanacchi
               sillabargli la condanna e preannunciargli l'inizio del
               conto alla rovescia.E rivedeva come in una zoomata fotografica le
               sue labbra fermarsi ed articolare con precisione
               chirurgica la parola "carcinoma".Poco fuori i cancelli dell'ospedale un lungo ed
               ampio viale alberato sembrava invitare i passanti a
               tornare nel mondo dei viventi, sembrava richiamare
               proprio lui a specchiarsi nei suoi 41 anni, costellati
               di successi presso le sale di tutta Europa.Alzando istintivamente gli occhi al cielo le
               sue palpebre si inondarono di luce, lasciando i suoi
               occhi in preda ad uno sfavillante buio
               luminoso.Decise di sedersi sulla prima panchina in
               pietra grigia che si trovava in ombra lungo il
               vialetto in ghiaia del parco.In quel momento avrebbe voluto avere con
               sé il proprio violino. Non per suonarlo, no,
               solo per potervi appoggiare il mento ed ascoltare
               l'eco lontano che la leggera brezza ora presente
               produceva sulle corde, leggermente sfiorate. E per un
               attimo le sue mani si portarono in posizione, come ad
               accarezzare lo strumento invisibile e leggero, i suoi
               occhi si chiusero e il tema del primo tempo del
               Concerto n° 3 parve per un attimo materializzarsi
               in quella sua memoria irrimediabilmente
               colpita.Ma le parole di Zanacchi lo riportarono presto
               a guardare in faccia la realtà. Ora i pensieri
               si articolavano con più raziocinio ed era
               possibile ricostruire, per quanto potesse servire a
               qualcosa il farlo."Mi resta poco e sarà tutto finito. L'ha
               detto chiaro. Ero stato io a chiedergli di non
               nascondermi niente. L'ho voluto sapere io. Sembrava
               imbarazzato, chissà se era vero o se
               fingeva".Restò a lungo a fissare immobile le
               foglie di un grande salice che si ergeva proprio a
               cinque metri dai suoi piedi."In fondo cosa posso pretendere? Non lo sapevo
               forse che un giorno sarebbe capitato? E che differenza
               fa se capita oggi o capiterà fra vent'anni?
               Potevo forse prepararmi? No, o forse sì,
               dovremmo prepararci tutti, fin da piccoli, e
               invece...".Il cinguettio festoso di due passeri, che si
               libravano nell'aria rincorrendosi in sontuosi
               volteggi, interruppe il corso dei suoi pensieri. Li
               seguì con gli occhi fin dove
               poté."...e invece crediamo che possa durare per
               sempre, che non ci toccherà mai, che nessuno
               arriverà mai a pronunciare il nostro nome in
               cima alla lista dei partenti. Poi incontri uno
               Zanacchi qualunque...".Un'anziana signora cercava di poggiare il
               bastone stabilmente a terra, sfidando la
               scivolosità della ghiaia. Ogni passo sembrava
               tradire incertezza, tanto più che la schiena
               ricurva in avanti portava il peso di molte
               fatiche.Maffeis la osservò passare ed andare
               oltre, lievemente tremante, affidata alla resistenza
               di quel legno color ciliegio che stringeva forte con
               la mano destra."Chissà cosa sta pensando ora - si disse
               Maffeis seguendola con lo sguardo mentre si
               allontanava - chissà se è pronta, se si
               è preparata, se sta aspettando,
               chissà..."".Socchiuse gli occhi al pensiero del volto di
               Floriana in lacrime. "Aspetterò a dirglielo -
               pensò deciso senza neanche sapere il
               perché - aspetterò".Quindi, rialzandosi, iniziò a vagare
               senza una meta precisa per le vie della città,
               fino ad arrivare al grande bosco vicino alle
               acciaierie Forti in periferia. Camminava respirando a
               pieni polmoni, come fossero gli ultimi respiri, come a
               voler trattenere quell'aria che presto gli sarebbe
               mancata per sempre. E mentre camminava si guardava in
               giro pieno di meraviglia per tutte le cose di cui si
               accorgeva per la prima volta. Aveva vissuto senza
               vedere ed ora, che riusciva a vedere chiaro tutto
               ciò che lo circondava, la vita lo stava
               lasciando. "È vero - pensò accennando a
               un sorriso - bisognerebbe vivere due volte". Rincasò verso le sette e mezzo. Non
               aveva voglia di cenare.Quella sera l'avrebbe passata a cercare di
               ricostruire, di ricostruirsi, l'avrebbe spesa a
               ripercorrere il cammino di una vita, aprendo l'album
               dei ricordi per ritrovarvi i momenti belli, quelli per
               cui era valsa la pena arrivare fin lì.Appoggiando distrattamente sulla credenza la
               lista di medicinali che l'oncologo gli aveva
               prescritto ("a che serve prenderli? Forse per
               allungare l'attesa?"), notò la luce della
               segreteria telefonica lampeggiare. Premette
               stancamente il bottone per ascoltare i messaggi della
               giornata. C'era Dante che informava della prova in
               teatro di lunedì mattina: era stata spostata
               alle 14.30 per un impegno improvviso del direttore;
               poi Monica voleva sapere se aveva bisogno di qualcosa
               al supermercato, visto che lei ci doveva andare nel
               pomeriggio.Angelo sorrise amaramente al sentire le due
               voci amiche.Mormorò solamente: "Se sapessero...". La
               segreteria sembrava aver terminato con i messaggi, ma
               non si sentiva il nastro riavvolgersi. Sembrava
               esserci ancora qualcosa che stentasse a
               partire.E infatti, dopo un lungo silenzio,
               partì."...Signor Maffeis... sono Zanacchi... il
               dottor Zanacchi... devo scusarmi... c'è...
               c'è stato un equivoco".La voce era cupa, quasi affannosa, alla ricerca
               dei vocaboli appropriati."Sono davvero mortificato... si tratta di un
               tragico caso di omonimia. La sua cartella clinica
               è stata scambiata, abbiamo controllato le date
               di nascita... lei... lei non ha quello di cui abbiamo
               parlato stamane... lei non ha niente... sono molto
               dispiaciuto... è stato un tremendo sbaglio...
               se volesse richiamarmi sono a sua disposizione in
               qualunque momento...".Click. Riavvolgimento.Angelo Maffeis rimase a lungo fermo immobile a
               fissare la scatoletta posta accanto al telefono. Non
               riusciva neppure a sorridere.Quindi, avvertendo un forte dolore salirgli
               dallo stomaco, si sedette barcollante sul divano. Da
               sotto il mobiletto spuntava l'album di fotografie in
               cui sua mamma aveva scritto in bella calligrafia:
               "Angelo 1963 - 1967". Lo prese con un movimento
               delicato della mano e cominciò ad accarezzare
               la copertina in similpelle, senza accorgersi che
               sottili lacrime stavano lentamente solcandogli il
               volto."Devo prepararmi", fu il suo primo pensiero nel
               rivedere le sue gambine saltellare in bianco e nero
               sulle rive del Lago Maggiore. "Devo
               prepararmi".  |