Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Barbara Montefalcone
Con questo racconto ha vinto il secondo premio all'edizione 2004 del Premio Angela Starace.

Passaggi
I
 
Erano partiti una mattina d'autunno. Avevano previsto tutto, preparato tutto. Le valigie erano pronte e gli amici salutati la sera prima, l'uno dopo l'altro, in fretta, davanti ad una birra o semplicemente attraverso il filo elettrico del telefono.
Erano diversi loro due, ma partivano insieme verso la stessa meta. L'uno accompagnava l'altra. L'uno introduceva l'altra in quella nuova isola scoperta qualche anno prima e nella quale si era stabilito sperando un giorno di poterci sbarcare assieme alle persone che amava. Lei si lasciava condurre, fiduciosa e sicura. Sicura delle sue parole. Sicura della sua forza. Sicura anche di non lasciare dietro niente, di non provare rimpianto o tristezza alcuni.
 
Abituato a quel tipo di viaggio, lui aveva previsto tutto. Partenza verso le nove in modo da evitare incolonnamenti asfissianti ed arrivo previsto intorno alle diciannove, se tutto filava liscio.
Abituato alla partenza lui aveva deciso di prepararsi per primo, di svegliarsi presto in modo da regalarle più tempo, nella sua casa, prima dell'addio. Sapeva lui che quei pochi infinitesimi minuti prima della partenza erano fondamentali e che per niente al mondo bisognava privarsene. Bisognava andare in fretta prima, questo si, ma poi, gli ultimi minuti dovevano essere conservati intatti. Il tempo doveva rallentare ed i sensi dilatarsi per poter registrare tutti gli odori ed i colori di quel mondo amoroso e sicuro e bello e caldo e vero chiamato casa.
 
Quando arrivò da lei, la trovo quasi pronta. Ne fu stupito, era certo che avrebbe dovuto spingerla ad accelerare il ritmo come sempre doveva fare con lei. Ed invece no, era quasi pronta. Sembrava voler lasciare al più presto quell'universo conosciuto e prevedibile per tuffarsi in quella nuova galassia da tempo sognata e presto raggiungibile. Sembrava felice di partire. Sembrava. Eppure lei lo sapeva bene che il distacco sarebbe stato doloroso. Sapeva che nonostante la sua partenza fosse necessaria e voluta, il momento di passaggio da una galassia all'altra era dolorosissimo. Corto ma doloroso. Sapeva che lasciando il suo mondo lo avrebbe visto allontanarsi progressivamente. Sapeva che avrebbe assistito al suo dissolversi lento e costante davanti ai suoi occhi. Spettatrice della sua agonia. Sapeva che, prima di poter davvero iniziare a godere della sua nuova libertà, doveva vestirsi di nero ed assistere al funerale del suo passato.
 
Tutta la famiglia trasportò un pezzo di lei fuori dalla porta di casa fino alla macchina. Lui li raccoglieva e li sistemava ordinatamente: gli occhi davanti, i polmoni accanto, il cuore nascosto giù in fondo ai sedili ...
Tutto era pronto. Abbracci come morse. Sorrisi umidi. Genitori coraggiosi che da lontano sorridono al tuo allontanamento ma che nel cuore, in fondo, piangono lacrime silenziose.
Una mano che si agita in lontananza, il sole che la illumina, un palazzo che infine la nasconde.
E poi tutto è strada e cielo.
 
Una volta lasciata la città ed entrati in autostrada si sentivano quasi più leggeri, liberati dalle catene che li tenevano fissi ad ogni angolo, ad ogni pezzo di cemento. Temevano di non riuscire a staccarsi dal piombo dei ricordi, dal passato nascosto ad ogni angolo. Credevano di esserci riusciti, di aver vinto la battaglia contro il timore di cambiare. Ma l'agonia, crudele, non aveva ancora terminato il suo compito. La terra, più bella che mai, organizzava spettacoli struggenti davanti ai loro occhi. Le colline sfilavano via verdi e tonde dall'altra parte di quello schermo di vetro posto tra due vite. Ad intervalli regolari sparivano dalla loro vista, ed ogni scomparsa era una fitta acuta nello stomaco, un dolore che pian piano saliva su fino alla gola dove si trasformava in nodo duro e velenoso per infine evaporare negli occhi nascosti dietro delle lenti scure.
Cavallo bianco sfrecciava stanco sull'asfalto. Conosceva bene la sua strada ma preferiva lasciarsi guidare docile dalle mani buone del suo padrone. Lui guardava dritto davanti a sé, non gustava il trasformarsi del paesaggio, non soffriva davanti allo scomparire dei colori e delle luci familiari. No. Fissava dritto davanti a sé come se non volesse mai perdere di vista la sua meta, come se il suo cuore si fosse indurito negli anni trascorsi a viaggiare, a percorre la stessa avventura, a vivere gli stessi struggenti addii alla terra natale. Come un capitano di mare saggio e sicuro, odoroso di mare, rugoso, manteneva la rotta, odorava il vento, spalancava gli occhi e tendeva la pelle riarsa dal sole, si assicurava che l'equipaggio ci fosse, presente ed attento ... ma l'unico membro dell'equipaggio era lei, assente e disattenta.
Anche lei era abituata a viaggiare ma era la prima volta che affrontava un distacco via asfalto. D'abitudine preferiva librarsi nell'aria per vedere il suo paese allontanarsi dall'alto. Vederlo rimpicciolire e poi sparire era più facile che vederlo passare ed andare via per sempre. Dall'alto il suo paese le sembrava meno vero, meno reale, cosicché anche il dolore appariva meno acuto. Ma vedere così le sue colline sfuggire alla vista, vedere quei tratti di mare apparire tra la terra e poi scomparire all'istante era troppo, davvero troppo. Non piangeva ma sapeva che se lui le avesse parlato allora non sarebbe più riuscita a controllare la sua agonia. Sapeva che bastava che lui invadesse con un tocco o con un suono il lento viaggiare dei suoi pensieri per vederli sciogliersi in un fiume d'acqua bagnata.
Lui continuava a guidare in silenzio. La lasciava tranquilla conoscendo il suo timore. La lasciava perdersi tra i ricordi del passato, tra gli odori dell'unico mondo conosciuto ... le permetteva di gustarsi quegli ultimi sprazzi di sole prima del grigio e del buio.
II
 
Usciti dalla regione il paesaggio cambiava. Il mare e le colline lasciavano il posto a vaste campagne anonime. Piatte. L'agonia era finita. La sacralità del distacco vissuta. Ora era possibile reintrodurre il rumore senza offendere il silenzio.
"Bacio" lui le disse senza staccare gli occhi dalla strada. Lei passò la mano tra i suoi capelli e, avvicinandosi, lo accontentò.
 
"Dov'è il mondo che uno cerca?"
"Non lo so. So solo che lo si cerca nello spazio, ed invece è nel tempo che lo si trova."
 
Il viaggio non è un'entità definita. È un essere in metamorfosi continua. È un ideale che ognuno adatta alla sua vita, al suo coraggio, alle sue virtù.
Lui andava per paura di arrivare. Andava per andare, non per arrivare. Andava perché sapeva che andando non sarebbe mai arrivato. Voleva vivere nel processo. Nel passaggio. Voleva esistere esistendo e non essendo. Voleva vivere dirigendosi verso un "non dove" la cui fine era un nuovo inizio. Voleva che la sua vita fosse una trasmigrazione continua. Da uccello a lupo, da lupo a falco, da falco a cane fedele, da cane fedele a toro, da toro ad orso, da orso a ...
Non poteva che esistere così, bruciando. Bruciava, bruciava, bruciava come il vecchio Jack e quella sua pazza compagnia. Era una focolare caldo, una candela accesa nell'angolo di una stanza buia, un falò in una notte d'estate. Ma bruciava sempre, questo si, bruciava. Ed invecchiava più velocemente degli altri.
Lei andava chiedendosi che mondo volesse. Andava domandandosi dove volesse andare. Aveva bisogno di quel dove lei. Di quel "dove" che lui invece rifiutava. Si chiedeva quale sarebbe stato il mondo che alla fine l'avrebbe accolta per prendersi cura di lei, per starle accanto, per vederla crescere, ri-crescere, per vederla partire da bambina per diventare donna. Dove ? dov'era il suo paradiso ? Aveva bisogno di un luogo d'arrivo, lei. Di uno scopo anche se provvisorio. Aveva bisogno di punti di riferimento. Li voleva belli e chiari, ma un po' fragili, in modo da poterli distruggere nel momento in cui non le sarebbero più piaciuti. Se lui bruciava veloce, lei centellinava i pezzi di legno per ravvivare la sua fiamma. Voleva bruciare anche lei, si, ma lentamente. Voleva essere sicura che la fiamma non si potesse spegnere e che le riserve di legno fossero lì, pronte per l'inverno. Voleva assicurarsi di questo bagaglio perché si conosceva. Bene. Sapeva che il tempo di un anno le bastava per esaurire un'emozione ed allora si preparava ad accoglierne delle nuove prima ancora di aver vissuto quella appena incontrata. Era così. Per tutto. Se entrava in un negozio per comprare dei pantaloni, passava delle ore scegliendo tra più modelli. I suoi gusti erano troppo ampi per poterla guidare verso un unico e solo esemplare. Lei cercava e guardava e provava ed esaminava ed alla fine si stancava di quella stessa ricerca e tornava a casa a mani vuote. Sazia di quella indigestione di colori e forme e materiali. Era un po' così anche nella vita di tutti i giorni. Pensare alle possibili opzioni la stancava talmente che alla fine non agiva.
Partiva per questo. Partiva per cambiare. Partiva per imparare ad agire. Partiva per imparare a scegliere. Partiva per imparare a bruciare come lui. Come lui o un po' meno forse, perché il suo fuoco la spaventava. Bruciava troppo in fretta per lei.
 
Avevano lo stesso passo, la stessa cadenza. Solo lui andava un po' più veloce, ma questo non importava, il ritmo era identico. Le avrebbe insegnato lui ad accelerare. Le avrebbe insegnato lui a "cercare per non trovare". Le avrebbe insegnato lui a cercarsi nel tempo e non nello spazio.
Amava quel piccolo fiore, seduto accanto sé, eccitato ed intimidito da qualsiasi cosa. Sapeva che aveva talento e che lui poteva aiutarla a diventare quello che lei sognava essere. Sapeva che un giorno l'avrebbe vista danzare su di un tavolo davanti alla massa insonnolita dei suoi vecchi amici. Sapeva che un giorno sarebbe stata lei, resa forte dalla sua iniziazione, a salvarlo. Voleva avere accanto a sé qualcuno che potesse correggerlo. Lei ne era capace. Voleva che lei si potesse arricchire delle sue forze e detestare le sue debolezze per imparare ad educarlo, lui che da solo non ce la faceva. Lui, orso perso nel bosco e reso feroce dalla mancanza di cibo.
La rendeva forte lui, ora e domani, cosicché un giorno avrebbero danzato assieme, felici.
III
 
Quanti anni hai?
Otto.
Allora sei troppo piccola per giocare con noi.
 
"A cosa pensi?"
"Eh?"
"A cosa pensi?"
"Pensavo ... ricordavo una cosa che una bambina mi ha detto quando avevo otto anni. Volevo degli amici, eravamo in Francia con mamma e papà ... non conoscevo nessuno così mi sono avvicinata ad un gruppo di bambine che giocavano assieme ed una di loro, bella e bionda, mi ha mandata via dicendo che ero troppo piccola per giocare con loro. Da allora ho smesso di cercare degli amici, ho lasciato sempre che fossero loro a trovarmi ...
"Quella bambina era una stronza."
"Si lo so. L'ho pensato anch'io a otto anni. O meglio, devo aver pensato che quella bambina era un po' bastarda, ecco."
"No, no bastarda. Stronza. Sono sicuro che in questo momento sarà circondata da manichini ben vestiti che sputano discorsi confezionati e si muovono al ritmo dei loro telefoni cellulari e dei loro tacchi a spillo. Si circonda di persone perché è terrorizza dallo stare sola e la gente la frequenta per il ruolo sociale che assicura e non perché la rispetta. La sera, nel suo grande letto, sola, pensa ai vestiti che metterà il giorno dopo ed alle rughe che non sa come far scomparire. Si gira e si rigira, non prende sonno. Si alza, va in bagno, si guarda allo specchio ...
"... E piange."
"Dio, sei crudele."
"Ma no, è solo che lei mi ha fatta tanto piangere ed ora voglio vendicarmi."
E va bene, la facciamo piangere.
"E piange."
"E piange."
 
La temperatura era salita durante il viaggio. Si erano allontanati da casa e nonostante il cielo diventasse sempre più grigio e gli alberi sempre più spogli, la temperatura aumentava. Lui sapeva bene cosa li attendeva. Mano a mano che risalivano quel vecchio stivale del loro paese, la trasformazione del paesaggio era accompagnata dal trasformarsi di tante altre piccole cose. Dettagli che ti cambiano la vita. I colori diventavano più opachi. Il cielo meno blu. La pasta della pizza più gommosa. La schiuma del cappuccino meno soffice e spessa. Il caffè più caro. Dettagli fondamentali. Lei presto ne avrebbe fatto l'esperienza, e lui non voleva avvertirla. Doveva scontrarsi con quel nuovo mondo da sola, cadere e poi rialzarsi. Lui non l'avrebbe aiutata ma sarebbe stato lì, accanto, a guardarla. A darle il coraggio di rialzarsi grazie alla sua sola presenza.
La temperatura era aumentata e cavallo bianco soffriva. Il suo padrone, illuso e ceco continuava a spingere l'acceleratore, acceso... Cavallo bianco voleva fermarsi. Era stanco. Vecchio e stanco, non più adatto a quel tipo di avventure. Protestò ma lui non lo sentì. Protestò ancora ma niente, lui non vedeva. Allora la ribellione fu prepotente e definitiva.
IV
 
Del fumo grigio usciva dal ventre di cavallo bianco. Lui se ne accorse per primo. Lei guardava ancora dietro di sé, al cielo che abbandonava. Poi si girò e vide. Bisognava fermarsi.
La radio continuava a suonare mentre la velocità diminuiva. Tutto sembrava mantenere in vita il buon ronzino, le spie luminose non si accendevano, la biada era in serbatoio, eppure il fumo continuava ad uscire. Era come se cavallo bianco, furioso contro il suo padrone per lo sforzo eccessivo al quale lo sottoponeva, avesse deciso di ribellarsi liberando dei fumi bollenti dalle narici. Gli zoccoli scalpitarono per l'ultima volta. I polmoni smisero di respirare. Tirò il freno a mano.
Scese e aprì il nero ventre della bestia sofferente. Il male era invisibile per il gran fumo. Dopo qualche minuto riuscì a perdersi dentro i suoi intestini. La principessa era scesa e guardava incuriosita. Vedeva soffrire il loro compagno d'avventure ma non era per questo affatto preoccupata. Sapeva che il principe si sarebbe preso cura di lui, che non avrebbe permesso che uno stalliere qualsiasi decretasse la morte della suo purosangue. Lo osservava allora seguendo quei gesti miracolosi di uomo, quei gesti che profumavano di sapere e di tradizione e di storia. Rispettava quella sicurezza, quel conoscere ogni particolare del suo mezzo di trasporto, quel capire all'istante il male e la cura da operare alla svelta. Il suo corpo di principessa la proiettava anni luce da quella galassia fatta di grasso e fumo. Ferma a due metri dal luogo del delitto si sentiva lontana, come su di un'altra terra. Il chirurgo era a lavoro, abito bianco e guanti. Lei non poteva aiutarlo. Sapeva che lui non avrebbe chiesto il suo aiuto.
"Puoi tenermi la bottiglia per favore?"
"Io?"
"Si tu, e chi altro?"
"Ok ..."
 
Lo guardava lavorare. Le sue mani nere a tratti sfioravano quelle bianche di lei nell'atto di prendere la bottiglia. Del grasso toccava per la prima volta la sua pelle. Guardandosi in quella scena, osservandosi dall'esterno, come tra il pubblico di un teatro, si giudicava. Per un attimo aveva visto il parcheggio riempirsi di gente, ognuna con la propria sedia di legno portata da casa, come per assistere ad uno spettacolo di paese. Lei era tra il pubblico e si godeva la scena della principessa alle prese con lo sporco e gli odori della vita comune. Con i colori ed i gesti del mondo vero. Si giudicava severa. Capiva che per anni era vissuta in un castello di vetro pulito e disinfettato. Le sue mani erano lisce e morbide. I suoi capelli lucidi e lunghi. L'impatto con la nuova vita che si accingeva ad inaugurare le ricordava il mondo che lasciava e le dava segni di quello tutto nuovo in cui muoveva i primi passi. Era un avvertimento, lei lo sapeva. Guardava. Rideva. Apprezzava lo spettacolo divertita. Non aveva voglia di scappar via ...
 
"Ehi, ma che fai dormi? L'acqua!"
"Scusa ..."
Cavallo bianco sembrava non volerne sapere di rimettersi in marcia. La diagnosi del cavaliere era inesorabile e precisa: niente più acqua. Bisognava farlo bere ed in fretta, anche se questo non sarebbe bastato a rimetterlo in sesto completamente per la lunga marcia notturna. Bisognava curarlo appena, giusto quel poco per poterlo riportare indietro ed affidarlo alle mani di un esperto. I piani si sconvolgevano di ora in ora.
Il pensiero di tornare in dietro le sfiorò la mente ... ad un attimo di sconforto seguì un sentimento di pura gioia irrefrenabile. Il cavaliere inveiva, faceva di tutto per rimettere in sesto la sua bestia e per arrivare dritto alla sua meta. Lei invece, guardava cavallo bianco e lo ringraziava in silenzio. Complici, si capivano loro due. Non erano pronti. Avevano bisogno ancora di qualche ora prima di lasciare per sempre la loro terra. L'idea di ripercorrere all'indietro quella stessa strada che poco prima credeva di abbandonare definitivamente le riempiva il cuore di calore ed entusiasmo. Rivedere le colline salutate con una lacrima poco prima ... era come rivedere un amico che si credeva partito per sempre ... quelle stesse colline sembravano ridere, il loro colore non era più lo stesso.
 
Rimesso in sesto grazie a litri e litri d'acqua e ad una buona dose di biada, cavallo bianco ripartì. Era però ancora sotto sforzo, per questo il ritmo di galoppo non era quello dell'andata. Innervosito e preoccupato il cavaliere non spingeva più l'acceleratore, ma lasciava l'animale guidarsi da solo verso casa. Questo, sebbene stanco, non dava più segni di cedimento ... lei sorrideva consapevole della verità di quella malattia. In fondo, sebbene avesse vissuto per anni nel suo mondo facile e pulito, aveva imparato anche lei che quando un asino non vuole muoversi non c'è nulla da fare.
 
Tornati a casa inaspettatamente ma provvisoriamente passarono la serata separati. Si diedero appuntamento per il giorno dopo alla stessa ora per il secondo tentativo di volo. Cavallo bianco riposava soddisfatto nella sua stalla.
L'atmosfera che la accolse quella sera si rivelò strana. Assimilato l'addio di quella mattina, digerito il sapore degli ultimi abbracci, degli ultimi baci, degli ultimi sguardi era strano rivedersi. Si sentivano tutti galleggiare in una dimensione astratta, al di là dello spazio e del tempo. Si riconoscevano sconosciuti. La gioia del ritorno aveva fatto subito posto alla tristezza della prossima partenza, una tristezza ancora più difficile da sopportare visto che era stata già difficilmente messa da parte quella stessa mattina. L'idea di rivivere per la seconda volta il distacco faceva male a tutti. E la principessa quella stessa notte, nel suo letto tanto desiderato, capiva. Capiva perché durante il viaggio il cavaliere aveva tenuto gli occhi fissi davanti a sé. Capiva perché gli era sembrato insensibile alla bellezza del luogo che lasciavano. Capiva la sua rabbia nel dover riprendere il cammino a ritroso. Capiva.
La sua iniziazione era iniziata. Il viaggio verso il suo nuovo mondo le aveva già insegnato qualcosa prima ancora di cominciare. Aveva imparato lei, quel giorno, che ogni partenza è un addio. E che ogni addio diventa insopportabile se vissuto una seconda volta. Aveva capito che il momento più duro della acquisizione dell'indipendenza non era la vita di tutti i giorni, vissuta sola lontana da casa. Era invece il momento del distacco, quando le mani si agitano in lontananza illuminate dal sole, e ti dicono addio.

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 Ins. 07-02-2005