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                  In qualsiasi altro
                  posto.  Il sole che vernicia il colore la folla e gli
               oggetti.L'incrociarsi, lento ma caotico, delle persone
               addensate davanti alle bancarelle.Le macchie, allegre e squillanti, delle
               cassette di agrumi, delle tute di tessuto
               sintetico.Il brillare, del ghiaccio delle pescherie, dei
               pesci ammassati nelle cassette, dei fermagli di pietre
               dure.L'odore, caldo e pesante, che sa di
               mediterraneo.Il vociare, potente e irrispettoso, che sa
               d'oriente.Di sfondo, il tricolore, che sventola sul tetto
               di una caserma. Nino in quel momento era abbassato, cercava
               una felpa di taglia abbondante in uno scatolone sotto
               il banco.Suo padre tentava di attirare le clienti
               urlando, come sempre. E guardava compiaciuto le donne
               che sorridevano alle sue battute.Più ci vai pesante con le casalinghe,
               più loro sorridono.E più sorridono, più guardano
               la merce.Suo padre cercava Nino di tanto in tanto,
               tranquillizzandosi solo quando i suoi occhi lo
               trovavano.Ma in quel momento, qualche istante prima
               del colpo, non lo stava pensando.Non lo guardava.Nino era lì, inginocchiato davanti ad
               uno scatolone, a cercare una felpa perché
               quella che aveva sul banco era troppo piccola per la
               signora che lo stava aspettando, con il portafoglio in
               mano, lì davanti. La bancarella più grande.Intorno alla tela rossa della copertura sono
               appese tute di colori sgargianti, magliette nere con
               foto di cantanti.Sotto, esposti sul banco, maglioni e biancheria
               per la casa.A sinistra, un tavolinetto di bigiotteria
               colorata e a destra un banco di agrumi.Dietro alla bancarella dei vestiti è un
               uomo grasso, maglietta rossa attillata, pochi capelli,
               il viso congestionato per il caldo e per le urla che
               continua a lanciare sulle persone che passano
               distratte, svegliate improvvisamente dai suoi
               strilli.Una donna in tuta blu, anch'essa molto grassa,
               sta aspettando lì davanti ed osserva un ragazzo
               il cui capo scuro spunta da sotto il banco.Il giovane sta cercando forsennatamente
               qualcosa in uno scatolone. Ricordo il nastro bianco e rosso avvolto su
               di un cavalletto che partiva da un punto lontano,
               oltre il marciapiede, e teso andava a finire proprio
               lì, appena sopra lo scatolone, attraversando un
               foro circolare nel legno del banco.Ricordo il nastro, mosso dal vento che
               veniva dal mare.E ricordo il silenzio, che mi suonava strano
               accanto alla bancarelle come, attorno alle bancarelle,
               mi suonava strano quell'esserci di
               nessuno.Solo poche persone in divisa, sudate,
               annoiate, a ripetere gesti, a fare segni coi gessi
               bianchi, a sforzarsi di sussurrare come avessero
               svegliato quel qualcuno steso lì sotto il
               lenzuolo. Si sente un urlo. Un latrato. Furioso.Le persone si voltano verso lo strillo, quasi a
               cercarlo.Poi un colpo.Secco.Le persone sono ancora voltate. Senza rigirarsi
               si mettono a fuggire.Travolgono il banchetto della bigiotteria e i
               piccoli oggetti rimbalzano all'acciottolato come
               grandine colorata.Una cassetta d'aranci cadendo colora, punteggia
               e sporca la via.Il colpo sembra quello di un petardo.Ma le persone non si spaventano così per
               un petardo.Stanno correndo all'impazzata.Inciampando e calpestandosi, urlando e
               imprecando. I punti in un piano sono
               infiniti.A questo pensavo davanti a quel nastro
               bianco e rosso teso tra un cavalletto e lo
               scatolone.E se fosse vero quel ricordo di scuola.
               Quella formula vaga di geometria.Quell'immaginare perfetto di punti e corpi,
               sospesi e nitidi in uno spazio pulito, strani a
               pensarli nella vita, specie in mezzo a quell'odore di
               pesce che mi circondava.Una retta unisce due punti e solo due
               punti.E quel nastro era un retta, e dei due punti
               uno era il cavalletto.L'altro punto era lì, sdraiato poco
               dopo il foro nel banco, di fianco allo
               scatolone. Passano pochi secondiE la confusione di urla diviene
               silenzio.Resta solo lontano lo sbraitare, anche se ora
               sembra di gente più rassicurata.La donna grassa è stata veloce a sparire
               dalla scena.Invece l'uomo grasso con la maglietta rossa
               è ancora lì, in piedi, e si
               volta.Non si vedono altre persone, solo l'uomo
               grasso, adesso.Si è girato.S'inginocchia.E urla. Ogni volta che ci penso mi ritrovo a
               misurarmi con un infinito,l'infinito delle
               possibilità.Metto Nino in n. altri posti plausibili per
               quell'istante, e so che Nino avrebbe avuto n. fini
               diverse in n. tempi diversi. L'uomo grasso adesso è
               inginocchiato.Sta reggendo un corpo.Un corpo con due braccia, due gambe.Ma un corpo che ha solo mezza testa.Il resto del capo è un miscuglio di
               materia molle, fradicia e spessa, che tende verso il
               terreno.La mano dell'uomo cerca di reggerla, di non
               farla cadere, perché non si sporchi.Cerca di compattarla, mentre piange e urla, e
               riunirla per rimetterla là dov'era.Alla fine la materia cerebrale gli sfugge molle
               tra le dita e cade, a sporcare l'asfalto lucido di
               caldo.A disegnare una pozza circolare accanto allo
               scatolone. Suo padre cercava di rimettere il cervello
               di Nino nella testa di Nino.Quasi il cervello si chiamasse vita, quasi
               la vita la si potesse rigettare a forza nel corpo da
               cui è fuggita, come per l'ingranaggio di un
               qualche meccanismo rotto.Anche l'idea di meccanismo, e di macchina, a
               pensarci mi ridanno quel mondo pulito e irreale dei
               tempi di scuola.Ma mentre il cervello di Nino gli scivolava
               fra le dita, suo padre s'arrese.E pianse.In silenzio. Adesso l'uomo grasso non cerca di fare
               più niente. La sua maglietta rossa è
               bagnata, fradicia, lucida di muco.L'uomo non sta cercando di fare più
               niente. Solo abbraccia il corpo del ragazzo e piange
               scotendo delicatamente la testa.Si sentono l'avvicinarsi di voci e l'eco
               lontano di sirene della polizia. Suo padre era seduto sulla sedia, la
               maglietta rossa s'era ormai asciugata, sporca adesso
               di una bava secca, bianca.Aveva smesso di piangere.Cominciò ad imprecare conto quello
               scatolone.Come fosse lo scatolone ad aver ucciso
               Nino.Poi urlò."Avessi parlato io alla
               signora".Come se quel servire la signora avesse ucciso
               Nino."Fosse tempo di scuola, Nino non m'avrebbe
               seguito".Come se fosse stato il mercato ad uccidere
               Nino.Come se fosse stato un posto ad uccidere
               Nino.Forse aveva ragione.Sì, forse un altro posto non avrebbe
               ucciso Nino.Ma Nino in quell'istante aveva quel
               posto.E in quel posto una retta aveva due punti da
               unire.Avrei voluto dare una risposta a mio
               padre.Ma io di risposte non ne avevo.Ormai non mi chiamavo più Nino.E forse tutto quello neanche più
               m'interessava. |