| 
               Mesuconca
               (mezzatesta) Corri veloce, sui
               cerchioni sformati e senza gomme di quella bici
               sgangherata, troppo alta per le tue gambe bianche e
               nervose. Sfreccia a balzi irregolari e bruschi lungo i
               viottoli di pietra, consumati dal tempo e guarda con
               la coda dell'occhio le case allungarsi ai lati della
               stradina storta e assolata, gli alberi assottigliarsi
               in linee indefinite di velocità. Evita
               all'ultimo momento, con una sterzata decisa, la sagoma
               scura di zia Nennea, stretta dentro il busto rigido e
               le gonne vaporose, scavalca lo sguardo polveroso e
               severo di maestro Fadda, seduto in maniche di camicia
               sullo scalino sbeccato all'angolo dell'incrocio. Corri
               "Mesuconca" figlio di "Mesuconca", più veloce
               del tuo nome bizzarro, più veloce delle risate
               dei bambini che lo ripetono cantilenato. Corri fino
               alla curva, quasi fino al muro e frena a fondo con i
               talloni, anche se poi le prenderai, che le scarpe a
               tua madre non gliele regalano mica. Buttati alla fine
               su un lato e scivola nella terra assetata e calda.
               Solo un istante di esitazione in cui, avvolto in una
               nuvola di polvere sbiadita, ti chiedi se dalla gamba
               che ti brucia starà uscendo abbastanza sangue
               per una frenata tanto rischiosa. E poi via, a piedi,
               attraverso la collina, con il ciuffo scuro incollato
               alla fronte, con la bocca spalancata che cerca
               ossigeno, con la paura che ti acchiappino e stavolta
               te le suonino davvero. Corri più forte delle
               risate sguaiate, più veloce dei sassi sibilanti
               scagliati dagli elastici delle fionde appuntite. Senti
               il vento caldo rubarti il fiato, l'aria stagnante di
               questo pomeriggio di luglio stritolarti in una morsa
               bollente. La maglietta che avevi giurato di non
               sporcare, incollata alla schiena e le ginocchia
               sporgenti che a momenti si arrendono. Ormai sono
               lontani, eppure corri per mettere tra voi una distanza
               impercorribile e mentre corri decidi di non fermarti
               più e immagini tuo padre, con il suo sguardo
               ironico e sdentato, con l'ennesima birra ghiacciata
               che se la ride davanti al televisore alla notizia del
               bambino che non smette mai di correre, tua madre con i
               suoi piccoli occhi opachi, le tasche del grembiule
               sformate dai pugni pesanti, che ti urla di fermarti
               entro settembre, che la scuola riapre e lo vedi bene
               come si diventa a non studiare, si finisce attaccati
               alla tv con un sorriso liquido da scemo stampato in
               faccia.Ma tu corri e corri
               per battere ogni record e se ti giri ti sembra di
               vedere le giornaliste in abito rosa inseguirti esauste
               per farti una domanda, una sola domanda al bambino che
               non si ferma mai. E non hai fame né sete, solo
               tanto caldo, ma corri e ridi, questa volta sei tu che
               ridi e non rallenti neanche per un'intervista, neanche
               per una foto abbracciato al sindaco grasso e sudato
               nel suo abito blu, neanche se ti promettono un premio
               per tutta la strada che hai fatto. E intanto il Tg di
               mezzogiorno trasmette l'intervista al tuo migliore
               amico che invece non è tuo amico per niente e
               ti viene voglia di deviare fino al muretto sul quale
               sta seduto tirato a lucido per l'occasione e buttarlo
               giù e gridare a tutto il mondo che non è
               amico tuo quello, che è stato lui a disegnarti
               con mezza testa di bambino e mezza d'asino sulla
               lavagna scrostata dell'aula B. ma non ora, ora
               attraversi i campi raggrinziti e rassegnati, giri a
               destra e sali per il viottolo ombroso di "bingia e
               puzzu", fino alla fontana secca e desolante, che da
               quando non ha acqua non ha neppure più nome,
               oltre la vigna di tittiu Flore "campana" e scendi, di
               nuovo sulla destra, lanciando un pezzetto di legno ai
               maiali che respirano lenti sotto l'esile ombra del
               recinto di mattoni e fango. Sembrano passati nove
               giorni, sei ore e tre minuti da quando hai rubato la
               bici arrugginita nel cortile di Bustiano Musu
               "castangia" e hai divorato la discesa con il vento
               caldo che ti si infilava tra i capelli spettinati. Ma
               ora ci sei quasi, basta scivolare lungo il pendio
               ripido di Funtanafria e ci sei. Rallenti appena dietro
               l'angolo e prendi fiato. Scorre identica e circolare
               sotto il ponte la vita immobile di un intero paese
               impigliato nel passato. Un paese che la memoria
               sbiadita dei vecchi e tre foto ingiallite, appese al
               muro spesso della cucina buona, in casa di tuo nonno,
               costringono a replicare in eterno l'ultima giornata
               illuminata dal sole. L'ultima giornata prima del 26
               Febbraio 1954, quando una manciata di uomini, donne e
               bambini si è voltata a guardare per l'ultima
               volta le proprie case prima di vederle annegare per
               sempre sotto il flusso di acqua e parole entusiastiche
               che accompagnarono la nascita della nuova diga, il
               mostro di ferro e cemento, che tuo padre bambino ha
               visto divorare, i campi lungo i quali correva e la
               forza di una generazione che ha lasciato laggiù
               una vita intera. Da allora, nei racconti che hai
               sentito mille volte, ogni giorno la campana della
               scuola suona puntuale alle due e i bambini escono
               spingendosi dal portone di legno scuro e corrono a
               casa passando per il versante brullo della valle e i
               loro padri, piegati sulla terra avara e ostinata, si
               siedono all'ombra ingenerosa degli ulivi e dividono il
               cibo e le preoccupazioni. E a te, che scruti la
               superficie liscia e piatta del lago, sembra di vedere
               le donne, la loro tristezza nascosta sotto i
               fazzoletti scuri, che raccolgono le ultime cose e
               accarezzano con le mai ruvide quelle che sono
               costrette ad abbandonare. Mentre scivoli sul sedile
               duro del trattore di tittiu Marongiu, che ti riporta a
               casa all'imbrunire, il tuo ultimo pensiero è
               quello di correre via, prima che qualcuno ti acchiappi
               per la manica del maglione, prima che qualcuno ti
               guardi negli occhi e ti chieda di stare, prima che una
               nuova diga sommerga i progetti che ancora non hai
               fatto e ti condanni a vivere nell'immaginazione di un
               bambino che sogna il futuro e nel rimpianto di un
               adulto che affoga ogni giorno nei ricordi. Ad un
               tratto senti la mano pesanti di tittiu Marongiu sulla
               spalla e ti sembra che ti chiami e ti scuota, eppure
               la voce sembra quella di tua madre ed anche la faccia,
               ora che ti giri a guardarla, è la sua. È
               lei che ti urla di filare a scuola, che hai perso
               abbastanza tempo in piedi di fronte al cortile del
               vicino, intento a fissare la sua vecchia bici. Che se
               la vuoi anche tu, prima o poi, una bicicletta, bisogna
               che te la meriti. Senti le sue parole marroni e
               ritmiche risuonare da lontano, le sorridi, giri
               l'angolo e corri e corri lungo la discesa, che sono
               già le 8 e 20 e la strada da fare è
               tanta. Corri nel sole e mentre corri immagini di non
               fermarti più. |