Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Francesca Labianca
Con questo racconto si è classificato settimo al concorso Marguerite Yourcenar 2001 sez. narrativa
Il cielo dentro
 
Alcuni tramonti hanno il sapore inesorabile della vita che corre, del rimpianto, del calore degli affetti e degli amori, anche di quelli perduti. Le tonalità della luce entrano in risonanza con le corde più profonde dell'anima, rapita e fermata bruscamente nel suo incessante, logorante vivere da una musica dolce, calda, travolgente, che culla e spaventa, protegge e domina come un abbraccio paterno.
Mi era capitato tante volte di perdere il fiato per alcuni colori veri e densi eppure eterei e inafferrabili, se cercavi di distinguerli nettamente. Mi era capitato durante qualche viaggio, o affacciata da terrazze e balconi, o dai belvedere di paesini e borghi in collina, dove il tempo rallenta e schiarisce i pensieri e diffonde la calma.
E sempre avevo avuto l'impressione che quegli istanti sarebbero rimasti dentro di me a lungo, trasformati in eternità: lì, in fondo a quelle emozioni, c'era tutto, ogni domanda e ogni risposta, causa ed effetto, la legge stessa della vita. Un uomo una volta mi raccontò, senza riuscire a trattenere le lacrime, che lo rassicurava pensare che ogni fotogramma della nostra esistenza, tutto ciò che facciamo sotto il sole, non va perduto, rimane viaggiante per lo spazio e il tempo e magari un giorno tornerà per essere visto ancora. Aveva perduto da poco la sua amatissima moglie.
Ognuno di noi cerca l'infinito, in qualche modo, e tenta di afferrarlo, anche se per qualche breve istante.
 
Avevo imparato a fotografare i tramonti, con attrezzature assolutamente non professionali, prima con una vecchia Polaroid che sfornava istantanee dai toni liquidi, devo averci scattato le prime foto per la mia comunione... le tengo ancora da qualche parte, un po' sbiadite, in un cassetto pieno zeppo d'altri ricordi sbiaditi. Altre volte fotografavo con delle usa e getta, che forse proprio in un tentativo di riscatto dalla loro esistenza effimera, catturavano e restituivano egregiamente proprio quella bellezza senza fine; altre volte ancora con macchine di amici e parenti che, sempre più attrezzati di me, viaggiavano per brevi tratti sulla stessa mia rotta. Senza pose particolari, da luoghi e angolature più che mai comuni, senza cercare l'eccezionalità del clic, avevo creato una discreta collezione di tramonti, alcuni dei quali li avevo fatti ingrandire, presa dall'emozione del momento, salvo poi il fatto di lasciarli, come quelle foto sbiadite, in qualche contenitore tra le vecchie cose che non si buttano ma che non guarderai mai più.
A volte mi spuntavano davanti tramonti inaspettati, per esempio in macchina, facendo una curva dove improvvisamente si apriva il paesaggio: quanto avrei voluto avere un'usa e getta a portata di mano! Era strano come ognuno di quei tramonti che avevo fotografato lo ricordassi in ogni minimo particolare, mi diceva dove ero, con chi, e di colpo mi catturavano odori, sapori e ritrovavo un'altra, vecchia me, come in un album della memoria, dove tutto ciò che abbiamo registrato ci costruisce addosso pezzetto per pezzetto ciò che saremo un istante dopo, per poi essere ancora immediatamente inghiottito nell'album. L'intenzione di tutte quelle foto, comunque e dovunque le scattassi, era precisa, lucida. Volevo immortalare qualcosa che non avrei mai più rivisto, qualcosa che mi cambiava davanti agli occhi con una velocità e una ripetitività da farmi restare senza fiato; ogni giorno il sole scendeva e ogni volta era diverso e in ognuno di quei saluti il sole e il suo mondo si trasformavano imprevedibili in sfumature d'eternità. La volevo anch'io quell'eternità, quel cielo, dentro.
Il tramonto può colpirti anche in luoghi affollati, in piazze piene di gente ansiosa di tornare a casa, dopo aver fatto shopping o aver lavorato tutto il giorno, magari senza mai guardare fuori dalla finestra! Il sole si staglia sovrano sul suo popolo cieco per lasciarsi adorare. Nessuno deve avergli detto che quei riti non vanno più di moda.
La metropolitana emerge improvvisamente in superficie dall'oscurità, chi legge, chi sbadiglia, chi dorme, chi parla, chi sente musica, chi si stringe la borsetta, chi cerca di capire dove scendere... e nessuno ha guardato fuori, nessuno lo ha notato, è stato tutto per me, tre secondi per attraversare quel ponte, tre secondi di simbiosi con il mondo, e poi di nuovo giù nel buio... forse questi sono i più belli, intendo i cieli che ti sorprendono mentre non ci pensi e fai tutt'altro, che ti spiazzano e ti travolgono, segni chiari e decisi, come un altoparlante che diffonde un messaggio urgente tra la folla, segnano il sentiero per dirti dove andare, ti ridanno la misura dell'esistenza.
Anche quelli che aspettavo a casa mia non mi deludevano mai. La camera era baciata dal sole per qualche decina di minuti la mattina subito dopo l'alba, entrava di sbieco una luce chiarissima e orizzontale che presto se ne andava, ma alla sera se guardavo fuori sui palazzi arrivava come un fuoco il calore di quel sole che ora stava per salutare le nostre strade, lo vedevo ammantare di una luce irreale e possente quegli oggetti che fino a poco tempo prima sembravano insignificanti, e correvo in salone, dove da ben quattro finestre potevo godermi lo spettacolo... non avevo palazzi davanti, da lì, e il sole andava a tuffarsi dietro una siepe che delimitava l'orizzonte, e dietro, dove andava a morire anche la strada, tra un vecchio casale e un giardino pieno di meravigliosi alberi fioriti, solo campi, e basta, tutto il cielo a disposizione. Lì, sapeva di potersi sbizzarrire e iniziava la sua danza con dei rosa fucsia, impressionanti su quello sfondo così terso. Ma il rosa non era poi così deciso, un attimo dopo lo vedevo trasformarsi, abdicare in favore di toni più languidi, un giallo intenso, quasi un arancio, mentre in alcuni punti si raffreddava in un violetto che anticipava la notte. E poi una o due luci puntiformi, stelle o pianeti, che mi ricordavano che oltre quel cielo esistevano anche loro, di non fermarmi lì... come tanto tempo fa, durante le serate estive della nostra casa in campagna.
 
C'era sempre tanta gente, nonni, zii, tutti fuori a prendere il fresco sulle sedie a sdraio che sistemavamo nel prato, e davanti a noi, una volta giù, la sagoma di un grande albero con la sommità a forma di freccia, e il cielo stellato, nitido, nudo. Si chiacchierava del più e del meno, qualcuno sonnecchiava, lì al buio, qualcuno si accendeva una sigaretta che "dopo cena è il non plus ultra", si ascoltavano le cicale, tutti stavamo con il naso all'insù... mi sono sempre chiesta in quei momenti che cosa pensassero gli altri quando guardavano su... nessuno ne parlava mai, neanche io, eppure non potevo resistere a quello spettacolo. Non era solo bello, era sublime. L'albero, il grande albero che ormai quasi ostruiva il passaggio sulla stradina per il garage, costringendoci a farci largo tra i suoi pesanti rami, da sdraiati sembrava ancora più alto, svettava sopra noi tutti, sopra i nostri pensieri, sulle nostre azioni, e bisbigliava nel vento qualcosa che non eravamo pronti a capire. Anche la casa diventava piccola, e di colpo tutto ciò che c'era intorno. C'era il buio, la nostra buffa, nana vita e poi il cielo, e le stelle, la Via Lattea, un paesaggio in cui ti perdevi nello spazio e nel tempo, oggetti lontani, uno sguardo vecchio milioni di anni ci stava scrutando con un'espressione beffarda. Anche quello diceva qualcosa. Anche le sue parole si perdevano nel vento come una profezia che nessuno ascolta. Tutto e il nulla. Una guerra senza fine nell'anima. Le tenebre e la luce. Una guerra senza fine nell'universo. Tante volte il buio ha nascosto le mie lacrime. Altre volte il sole infuocato dei tramonti le ha fatte risplendere.

 

Classifica Concorso Marguerite Yourcenar 2001 sezione narrativa
 
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inserito il 3 novembre 2001