Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Gabriele Moschin
 
Con questo racconto ha vinto il secondo premio del concorso Città di Melegnano 2000, sezione nerrativa
 
L'animaleso
 
 
Si crede a patto di comprendere,
e si comprende a patto di credere
 
(Sant'Agostino)
 
 
La lettura dovette ben presto essere interrotta, mi era impossibile il proseguimento. Lo scroscio martellante e cadenzato del temporale, che al di fuori del vetro umido del mio studio si torceva con tanto ingiustificato rancore e malanimo contro le imposte, che battevano e si dibattevano lungo i muri, attirò la mia curiosità assai più delle Retractationes di Aurelio Agostino, non che queste ultime, di per sé, non ne offrissero - anzi il volume era stato attesissimo nei giorni passati - ma tanto più ora il mio interesse calava vertiginosamente colà, mentre giravo le pagine, tanto più esso veniva convogliato su nel mezzo dei negri tormenti di quel cielo nubifero. Sicché a breve fui costretto a richiudere il prezioso volume rilegato sulle mie ginocchia, quali per ponderarne la materia dopo il mancato connubio mentale e quasi ignorando, quando in realtà ne ero perfettamente cosciente, che le mie dita scorressero lungo le rugose superfici del tomo traendone l'estremo godimento di possessione assoluta; e riflettei, permettendo alle immagini che dentro si susseguivano e si confondevano per poi disporsi a loro piacimento. La poltrona seguiva i contorni del mio dorso e il respiro si afflosciò con esso, calmo e regolare. Eppure ero disturbato. Registravo le mie emozioni con difficoltà, un senso in me quel nervosismo dovuto ad una lunga attesa. Penetrando tra le fuligginose pareti del mio studio, un servitore mi avrebbe trovato immerso a tal punto nei miei pensieri che lì, sonnecchiante quale dovevo parere se non addirittura morto, con un tomo posato sulle ginocchia, il capo reclinato verso l'angolo a nord ovest del soffitto mai avrebbe avuto il coraggio o l'arrogantissima necessità di scuotermi dal siffatto torpore, pronunciando il fatidico e quanto mai irritante: "Posso disturbarvi?" Seguito sempre dalla scontatissima licenza di parola. Poiché sarebbe troppo tardi tornare indietro e troppo complicato spiegare che anche dopo il diniego il fastidio era altresì arrecato.
"Scusatemi, signore, se vi disturbo:" Cribbio! Ricordo che fu Tallos, il mio maggiordomo; era dinanzi a me.
"Non mi avete risposto, sembravate dormire. Mi sono permesso di entrare." era greco, corpulento e atticciato, ma tradiva dal viso tondo, che pareva esser fatto al tornio, l'affabilità d'un fedele famiglio.
Avrei scommesso tra i suoi antenati uno spartano, tra i suoi eredi un condottiero.
Mi porse un biglietto e sparì.
Urgente, trovai descritto sulla busta giallastra che lo custodiva. Attizzai un poco il camino con il mantice, vi buttai sopra un ennesimo ceppo, precisamente tagliato a metà dal greco e avvicinai tra loro i due pesanti alari lavorati a mano.
Poi scartai la busta e fu con mio grande stupore, tra la penombra che minacciosamente s'incupiva e di curvava alle mie spalle per guardare anch'essa, ch'io lessi quanto qui riporto:
 
Urgente. Da stamani sir Rupert Colley Clausson giace in uno stato di poco dissimile dalla morte.
Impossibile una diagnosi medica. Sulle pagine del suo diario, trovato aperto accanto al letto, alla data odierna 22 novembre, trovammo iscritti tre nomi: tra codesti il suo. Ora come òai l'amicizia invoca il vostro ausilio.
 
22 novembre. In fede Henry A.Marvell
 
Al momento, quando lessi il sinistro messaggio, la pioggia che fuori piangeva lacrime finissime imbrigliava ancora il mio cervello. Rupert era un mio carissimo amico d'infanzia, sempre purtroppo contraddistinto da un'infelice propensione naturale alla malattia. S'ammalava di continuo, ma era apparentemente di sana e robusta costituzione vichinga dal solido costrutto, difatti non pochi tratti islandesi ancora tagliavano con le loro grezze angolazioni il viso, pallido ma non illividito e smorto.amava le cavalcate all'aria fresca e spaziava agilmente tra le letture di Chaucher e Metastasio, piuttosto che di Montagne o Richardson. Tutto insomma dava a presumere, tralasciando la già menzionata debolezza, un roseo futuro per il giovane nostro. Ma già appena compiuti i diciott'anni vennero a mancare entrambi i genitori, l'uno poco appresso all'altro, ed egli tra i funerali e l'ululato del demone Dolore ereditò da loro una cospicua fortuna, di cui spesso parlava accennando alla vacuità di quelle che era a raffronto con la perduta famiglia. Rupert, dopodiché, sparì come d'incanto dalla mia vita. Pur vivendo poco distante da me, che conduco la mia esistenza da intellettuale perdigiorno fuor dai luoghi cittadini, egli si staccò, lentamente, ma sempre più, dalla mia amicizia e così dovette pur fare con chi, con me, lo conosceva, tanto che io parlando con questi di lui, mi stupivo dei loro stessi timori, che erano poi i miei, ma confermati. E cioè che il giovane Rupert Clausson dovette essere cambiato assai in codesti ultimi tempi,isolandosi in un pericolosissimo conflitto con se stesso.
Poi il tutto fu obliato così come le carovane passano per le steppe illimitate e nessuno ne incontra mai neppure le tracce.
Tali riflessioni occuparono per me un lasso brevissimo di tempo, come esse vennero così partirono. Il biglietto era stato scritto su carta da lettera, ingiallita ad arte e scurita per meglio rassomigliante a quella che si definirebbe una pergamena. Non portava marchi o timbri e la calligrafia, ben definita e dalla gotica lacerante differenza tra altezza e lunghezza, trovava ovunque deboli accenti baroccheggianti e tutta assieme pendeva verso destra in maniera civettuola. Calligrafia e carta, dunque, mi fecero pensare che quantunque fosse firmata da un uomo fosse stata scritta da una donna.
Probabilmente il signor Marvell era il medico del mio amico:accennava difatti all'impossibilità d'una diagnosi ed essendo molto occupato aveva forse dettato alla donna.
Ma certo! Ella era la moglie del mio amico. E prima che rammentassi ch'egli assai prematuramente, forse per rinsaldare i mancati affetti e colmare il vuoto che gravita a lui attorno, si fosse sposato, già Tallos mi porgeva lo scuro e largo impermeabile ed io lo raccomandavo alla casa. Ed uscendo capii che io non avevo mai assistito, come d'altronde tutti i nostri comuni conoscenti, al suo matrimonio. E io sospettai; che cosa, ancora non lo sapevo, ma sospettai.
Non sapevo quale fosse la situazione a casa Clausson, la moglie non si era affatto sforzata di precisare o fornire ulteriori spiegazioni: assieme al mio mi era oscuro quali potessero essere i nomi indicati sul diario del mio povero amico: Pareva volesse stare sul vago. E il suo servitore giunto a recarmi il sospetto messaggio, avrebbe dovuto perlomeno attendere ch'io lo leggessi per poi guidarmi nella Newcastle addormentata. Fin da ora provai la sensazione simile a quanto certe cose vengono portate avanti solo perché si è costretti duramente dalla circostanze, obbligate da fuori, mentre al tempo medesimo con tutti i mezzi si cerca di osteggiarle pur garantendole.
D'un balzo montai in sella alla mia corvina cavalcatura, col mantello che s'apri al vento quanto Tallos spalancò i cancelli della stalla e mentre il battaglio della chiesa di San Nicola già rintoccava dodici volte io spingevo il mio destriero tra le vie del seicentesco municipio e poi giù a lato del Tyne tra i suoi respiri affannosi e i suoi risucchi.
Dappertutto il fiume riceveva l'acqua dalle strade che la rigurgitavano a fiotti, e dalla fognature bolle grosse come coperchi di pentole trasparivano una nerastra luminescenza dallo sporco contorno. Pure sui muri colava acqua e gli schizzi dello zoccolo del mio cavallo che ne chiazzavano di fango le pareti venivano trascinati dalle piccole cascate, immediatamente. Ma l'acqua piuttosto che discendere per il normale influsso della gravità sembrava risalire le abitazioni verso il cielo gonfio e impenetrabile, violaceo e livido, che sceso a terra invertiva il moto degli astri e le leggi sperimentali, sicché dal fiume ora i pesci e i rettili invadevano e stridevano contro i parapetti e gli argini. E i ratti ghignavano ai piedi degli scarichi e mi osservavano.
Lo spettacolo fu di una terribile bellezza mortuaria e si stese per l'intera nottata con la furia del divino castigo, chissà mai contro quale babelica umana sfida.
Pervenni non senza difficoltà alla dimora di Clausson o a quella che nella cupa uniformità notturna meglio univa le reminescenze della mia memoria alle austere facciate di quei palazzi settecenteschi. E tornato che fui più volte, fradicio come l'ubriaca sete, sui miei passi, entrai in uno di questi e affidato il mio destriero al servo che ebbi il sentore essere il medesimo che , fuggito da casa mia, mi aveva recato il biglietto, entrai nell'abitazione; mentre alle mie spalle in cancello si richiudeva con il risuonante eco della risata folle d'un buffone. Ed io giurai che proveniva dalla gola del servo alle mie spalle. Ad accogliermi fu la spettrale presenza o la concretissima non-presenza della moglie di Rupert, mai veduta prima d'allora, eppure, ora me ne resi conto, sempre percepita in lui. Ella, avvolta in una sontuosa eppur logora veste, mi rimandò ai trascolorati avvenimenti che precorrevano la situazione attuale. Il marito, così fu dipinto dalle sue parole, dopo il matrimonio aveva acuito con estrema lentezza rare forme di disparati malanni, finché il suo interesse accanito per le scienze aveva, coll'imbrunire della gioventù, smarrito l'amore per la donna magra ed avvizzita, sicuramente un tempo bellissima, che ora mi parlava.
Ma ancora prima di riporre in codesti fogli tali avvenimenti, ch'ella s'apprestò con pigrizia e mal dissimulata preoccupazione a narrarmi, vorrei annotare certune di quelle male riflessioni, pari a spifferi e mormorii di Demoni, che si soffermarono con le loro dubbie insinuazioni nel mio animo. Difatti, poco dopo essermi presentato alla padrona di casa, fui invitato a cambiarmi i vestiti sciupati e gocciolanti in una delle innumerevoli stanze degli ospiti del pianterreno; quivi mentre tra le camicie ne cercavo una che fosse pressappoco della mia misura, udii qualcosa. Tale non fu un rumore come gli altri, non provenne dal basso tantomeno dall'alto e non mi sorprese al fianco. Era diffuso.
Io rigirai con circospezione lo sguardo nell'immobilità tetra della stanza, nella sua quiete disturbata solo dai bagliori di un candelabro a tre bracci che sulle pareti ora si gettavano, ora di ritraevano, come duellanti di scherma. E li osservai.
E guardando la danza sul muro, non vedendo null'altro se non il mio lento respiro e il mio cuore ballonzolante, lo udii di nuovo, ma diverso e più agghiacciante. E quando lui veniva, la fiamma della candela oscillava come smossa dall'alito di una creatura. Ma in quella stanza c'ero io, solo! Mi sforzai di trattenere il respiro e tenni d'occhio il candelabro. Il rumore giunse ancora, puntuale, simile al rintocco d'un granello di sabbia in una clessidra sospesa e sì, io le vidi, vidi che le deboli fiammelle si incurvarono come sospinte da un'aria che io non avvertivo sulla mia pelle.
Ma finii col non dare più rilievo all'incomoda percezione. E ciò l'avrei scontato dopo, troppo tardi per tornare indietro.
Ma non scavalchiamo il corretto svolgimento della nostra storia. Allora uscii dimentico del tutto e deciso a non fare parola della mia inquietudine ad alcuno e fui così subito portato nella camera del mio remoto compagno: non sarà mai abbastanza torva e perniciosa la descrizione del suo stato? E che dire delle mie immediate reazioni... disarmante l'abiezione in cui tutto il suo fiacco corpo versava. Era il dipinto vivente della morte: supino con le braccia lunghe abbandonate nude, magre, e secchissime lungo un corpo che, anch'esso deplorevolmente ossuto, lasciava scorgere tra le pieghe della camicia aperta un petto infossato incapace di contenere quelle costole troppo cresciute che si staccavano col loro disegno a ragnatela. Il dottore s'alzò a rilevare il respiro del mio povero amico - che stentavo a riconoscere così orribilmente mutato - e mi spiegò che, dopo di me, egli era il secondo uomo indicato dal diario del signor Clausson; mi disse anche il terzo, che mai aveva sentito nominare ma che in me, appena citato, risvegliò d'un sol tocco un torpido stagno di ricordi polverosi, il cui ritorno mi diede un immediato senso di vertigine e imponderabile pesantezza e pure quasi rimorso, presto corrotto in una sacrilega violazione del mio passato, d'una smarrita devozione che ora tornava e con essa un nuovo antichissimo mondo attorniato dal suo carico di atti perduti. Un senso di mestizia proruppe poi nel mio animo, inacidendolo.
L'uomo di cui si parlava era Joseph Traher, anche questo un uomo che non pronunciavo e non sentivo chiamare da anni. Interruppe, ricorda, il liceo al terzo anno, quando già era radicata in noi la confidenziale affabilità che solo tra amici può instaurarsi, e rammento che il suo fu un addio, poiché dovette trasferirsi dalla famiglia, a sud, in Francia, dove suo padre moriva e abbandonare le rive del Cam ove così sovente ci riunivamo per studiare e passare i pomeriggi. Di lui, disperate, arrivarono inizialmente poche lettere, brevi, e in queste allora capii quanto la situazione drammatica in cui si rigirava l'impresa del padre influenzasse il suo impegno tanto da renderlo schiavo dell'alcool e d'altri riprovevoli vizi.
Ricordo che nell'ultima lettera egli portava avanti tre lavori contemporaneamente, finendo collo sgobbare diciotto ore filate se non di più, senza mai ottenere che le sue capacità particolarissime di fabbro potessero essergli riconosciute. Dacché il tempo e la distanza lo strapparono da me per recluderlo nelle sue bettole e Rouen, dove tra un bicchiere e l'altro, parole sue, testuali, sperava annegassero i suoi debiti.
Dio! Tanto mi sentii pentito di essermi tanto insuperbito da dimenticare quanti furono coloro che con me avevano convissuto felicemente assai lietissimi della mia vita. Tali erano or dunque i demoni che strizzavano le vite d'amici? Friabili essenze umane. Ma Joseph era morto e Rupert lo ignorava.
Il mio amico ora pareva supplicarmi. Il dottor Marvell descrisse in toni medici il suo stato ed io ascoltai.
Ma compresi ben poco. La mente era lontana... oh, come dite? nulla di riscontrabile, dunque, all'occhio della scienza? Ma certo, questo male era dell'anima. Egli non mostrava malanno alcuno che offrisse possibili cure, l'ignoto pargolo della morte forse si nascondeva in fasce all'interno del mio amico, un pargolo che crescendo l'avrebbe ucciso? Null'altro che un'estenuante agonia?
Decisi di rimanere, sospinto energicamente dai rimorsi che mi attanagliavano, a soddisfare quello che poteva rappresentare il desiderio ultimo d'un incosciente moribondo. La notte e le ore passarono e l'alba sorrise in faccia al palazzo ove la notte era fuggita insonne, sola. La signora Clausson aveva riposato quattro ore per poi ritornare nella stanza ove il dottore Marvell ed io assistevamo suo marito, con riverenza e crescente ansietà. Ventiquattr'ore ci separavano dall'inizio del siffatto stato funebre.
Ma ecco che una dozzina di volte durante la notte, mentre la signora e il servitore dormivano, giunsero alle mie orecchi i suoni che già addietro avevo riscontrato là dove, nella camera per gli ospiti, mi avevano incuriosito se non confuso e quindi seccato. Ora al momento non ne feci parola, neppure al dottore, che dal canto suo sembrava totalmente indifferente al suono, dirò addirittura rapito od estasiato al contatto uditivo colla fonte del rumore di cui, nonostante le diversi volte che mi capitò di ascoltarlo, non saprei dar l'ubicazione, perciò mi limitai a registrarne gli effetti, imprevedibili e sensazionali, che dall'impercettibile suono erano causati. E cioè la continua oscillazione delle fiamme delle candele, l'estasi del dottore o semmai il sorriso pacato di chi pensa a qualcosa di gradito e il mio malessere.
Notai altresì, con sommo disappunto, che un'altra stranezza, un altro di quei tentativi di rallentare, ostacolare o al peggio sopprimere i nostri interessamenti per il signor Clausson fosse stato messo in atto: ovvero, il suo diario, che come già era stato annotato sul messaggio che diede inizio al mio coinvolgimento con l'agonia dell'amico posava a lui accanto, era sparito.
Questa volta ne parlai col dottor Marvell, ed insieme lo richiedemmo alla moglie del nostro paziente. Ella inizialmente si rifiutò categoricamente di darcelo, asserendo che le divagazioni e le prese di posizione del marito negli ultimi tempi avevano toccato l'apice dell'inverosimile, permettendo che fosse la pazzia a governare l'inchiostro, ma infine, poiché spazientita dalle nostre insistenze, lo dovette prendere, indignata, ove l'aveva riposto, e dal cassetto della sua camera - quando che lo porse - passò alle nostre mani. Forse fu in quest'occasione che pensai a me stesso, protraendo le mie insistenze ben oltre quelle del mio socio e ben lungi dal rispetto per le sue lacrime, come ad un bruto, nel momento in cui dall'occhio la sua goccia, ch'ella perse per distrazione e non sofferenza incoercibile, cadde sul diario che con ambo le mani mi accordava e che cadendo lo chiazzò, e mentre l'acquoso neo s'allargava, la goccia scivolò sulla mia mano che lo ritraeva verso il petto, e non fu acqua ma tormento, sangue e speranza a disporsi su di essa e a rigarmela sul dorso, e lei lo vide, ma non se ne curò il suo occhio serpigno e lordo e scarlatto.
Quella donna nascondeva un'intelligenza diabolica e tanto in questa confidava e tanto in questa confidava e tanto questa era prepotentemente minacciosa e letale in lei che non cercava di celarla.
Da tale evento, dai rumori indescrivibili, soffocati e impercettibili, ma programmati come un pendolo che mai s'arresta, io trassi lo sconforto e il nervosismo che chiunque avrebbe contratto, dopo anche due notti insonni, trascorse vigilando col dottore il mio amico che, ahimè, mi stava venendo sottratto.
Peggiorò il mio stato. Anche il dottore Marvell si rese conto ci quanto ci stessimo logorando e a nostre spese mandammo a chiamare, mediante Tallos, due infermieri, affinché fossero alleviati i nostri patimenti fisici. Ma molto di più avrei speso per i miei dolori all'animo! E per l'anima lesa di Rupert! Erano il mescersi del rimorso colla stanchezza, dell'isteria coll'attesa ma ancor più il timore di provare paura per quella donna e questa casa col proprio rumore di morte che mi ferivano l'animo.
La moglie del mio amico appariva all'improvviso, nei peggiori momenti in cui la sua presenza era assolutamente da evitare, silenziosa, creatura notturna simile ad un'arcigna civetta, una matrigna, una novera laida e accostumata assieme, un demonio educato alla maniera inglese, la più infida delle ancroie che mai l'uomo avesse avuto per scempio o colpe, pena di asservire col matrimonio. Mi chiedevo come Rupert avesse potuto sceglierla, poi, chiaramente , da quelle da lei descritte come pagine dettate da folli vocine di spiriti, emersero i fatti. Vedova di un aristocratico caduto in miseria si servì di Rupert e delle sue ricchezze per riscattarsi dal degrado che l'aveva tanto incattivita.
Riporto qui di seguito pagine del diario di Rupert C. Clausson, che subito s'impressero nella mia memoria per quanto di spaventevole e di crudele dovesse nascondersi nella realtà che lui viveva e nella perfidia di quella donna.
 
14 Settembre. Dies nefas: la paranoia raggiunge il parossismo. Sento la pelle bruciare, gli occhi sono punti dalle spille di bambole cattive, di bambole di pezza, ed è la Tessitrice d'idoli che me le scaglia addosso. Io la venero, è vero, ma ahimè! Egli disse: "Colui che avrà perseverato sino alla fine sarà salvo." Eppure io m'indebolisco, discopro ferite macilente ad ogni risveglio, ma quando capirò che così facendo io mi condanno? Come posso essere tanto stolto da rinnovare ogni giorno il matrimonio che osannai e volli? Esso è duplice, due sono le donne che ho accanto... ma dov'è quella che sposai? Dove le promesse e le felicità? Dove Dio ha relegato lo scrigno del mio ultimo sospiro? Attendo un risveglio... ma oramai sempre più temo che esso non giungerà mai, verrà a coincidere , forse, col giorno in cui avrò il coraggio di dirmi: "ho sbagliato, ora ricomincia meglio..." No, già lo so, non accadrà mai! Dio!
Morirò... capirò i miei errori sul letto di morte, pavido di finirla col mondo... incapace anche allora di rigurgitare il vero in faccia all'Amore che mi incatena ad un suolo di menzogne.
 
18 Settembre. Gli fu portato l'aceto e, preselo, disse: "Tutto è compiuto." Tre volte nominai la sesta parola nella penombra dell'Anticamera. Poi mi gettai nello stato dormiente, e vennero i lupi rapaci a divorarmi nei miei incubi reali.
 
19 Settembre. Dio, dammi più forza! Ella mi perseguita. Tengo codesti appunti al riparo poiché mai mi perdonerebbe tali scritture. Riesco sempre meno a mettermi in salvo, il Marchingegno mi sta tirando fuori di senno, la follia s'impadronirà mai del mio Amore? Potrò continuare ad amarvi entrambe? Oggi il fragore mi ha sorpreso più volte, ella magari sospetta le mie resistenze prodigiose... e qui la pagina bruscamente era stata recisa, e poco più sotto si leggeva: sempre più accanto e mi sorveglia... e... ciò il maligno... e due pagine dopo riprendeva... tanto vale ch'io inizi ad annotare e pianificare le mie risorse di salvezza. Solamente esigue garanzie.
 
25 Settembre. Un elogio all'arte sublime della matematica, sorella Scienza e amante Arte. Da essa ricavo un linguaggio universale che solca i mari e ritrae l'infinito con definita maestà, ad essa mi sono consacrato e all'imponderabile sua religione dell'empirico e del teorico io m'affido.
 
26 Settembre. Ma or dirò: vi sembrò ammattire?
 
Pagine strappate.
 
15 Ottobre. La crisi galoppa. Un cavallo nel vento, per chi sa intendere. M'indebolisco, pensavo di cedere molto prima alla Tessitrice e al suo mirabile artificio meccanico. Un diavolesco ornitottero? Le mie misure precauzionali s'inabissano e si infiacchiscono mentr'ella trae giovamento dal mio lento perire. Il mio profilo oggi ha incontrato uno specchio: "Cuique suum reddit." Così vi era inciso e così parlò la mia immagine ivi riflessa. E ho stabilito lì sarà imprigionata l'anima mia, chi mai saprà se pure nel mondo alla rovescia tale mio amore si suicida? Mi sarà restituita giustizia... e la vita perduta? Potrò mai amare chi mi uccide? Chi lo fece oggi è grande! Lodi a lui!
 
Pagine strappate. (Innumerevoli).
 
2 Novembre. Ancora pochi rintocchi del marchingegno ed io inizierò il lento inesorabile cammino che reciderà, giorno dopo giorno, ora dopo ora, il sottile filo che ancora mi regge il respiro. Ripongo in quell'equazione il mio fato. O figlie di Acheronte e della Notte abbiate ancora pietà!
 
7 Novembre.
O Tessitrice sposa, Tisifone amata,
Sorella d'Aleppo vessatrice e dell'anguicrinita Megera,
Lugubri vesti e negri drappeggi
Saranno degno sudario di chi,
Per il marchingegno inglorioso,
Cederà con l'egida di Cristo.
 
9 Novembre. Oggi apprendo quanto sia aspro il tragico destino dell'uomo sulla soglia dell'Erebo. Ho calcolato che il Marchingegno deve risalire per costruzione all'incirca poco prima dell'anno mille e cento. L'ho intravisto, nella sua incorporeità camuffata, è una straordinaria opera di fattura e ingegno, creato dalle mani esperte di templari sotto la guida del guida del sapere arabo, più minuto e piccolo e concentrato di quanto mai abbia ritenuto. Ma la forza di distruggere non mi appartiene...
 
10 Novembre. Oggi mi è stato impossibile aprirla. Impazzisco e mi abbruttisco invilendomi con quel suono che mi risucchia il cervello.
 
11 Novembre. La domestica è morta. Ella subito come se già lo conoscesse in precedenza ha provveduto per il suo sostituto... un nuovo famiglio.
Anche per Mary, che così oggi noi gettiamo in pasto agli avvoltoi del ricordo, il Marchingegno è stato fatale. Che le sterpaglie e i roveti del tempo ne serbino l'indiscussa fedeltà.
 
18 Novembre. Ho pregato Dio ed egli ha acconsentito a quanto oramai sono disposto a fare pur di vivere e non uccidermi, pur d'amarti, mia Christine, e non offenderti e pur respirare, Tessitrice, e non lasciarti vincere. Visiterò il luogo da cui non si torna e deciderò.
 
19 Novembre. Il progetto è terminato. T'amo, Christine, t'odio Tessitrice, Dio restituiscimi la prima con la perdita dell'altra che, poi è la reale forma dell'essere che io chiamo ancora Christine ma che non è altro che Sogno ed ora Incubo.
 
20 Novembre. Tenderò. Confido in chi m'affido!
 
Le pagine successive a queste erano state strappate interamente fino alla già menzionata del 22 Novembre:
 
22 Novembre. E... A.M..., Henry Arthur Marvell, Joseph Traher.
 
Marvell ed io non osammo credere inizialmente a quanto giorno dopo giorno emergeva tra quelle sporadiche annotazioni. Poi decidemmo d'agire. Immediatamente e di priorità imprescindibile. Egli s'era affidato a noi, nelle mani del suo medico curante e di due vecchi amici.
Anzitutto, ancora mentre si sfogliavano le pagine, il dottore scoprì un rotolo di carta ove alla chiara calligrafia di Rupert si confondeva un intrico logico di ineguagliabile difficoltà di soluzione. Questo avvenne casualmente poiché il nostro avversario (non dichiarato!) - Marvell stesso si ricredette dell'apparente integrità morale della moglie e del servitore - probabilmente autore dello sfacelo del diario, non si era accorto, come noi, al principio (fortunatamente!), che all'interno della copertina, spessa e compatta, del diario, era celata, più volte ripiegata con cura, logora ed usurata, ma ancora bel leggibile, una pagina, una notazione insomma, recante il problema a cui ho accennato sopra.
Non riporterò di certo le astrusità geometriche e matematiche ivi contenute sotto il titolo di: "Illogica questione d'una cassaforte ingegnosa". Ruberebbe troppo spazio che affatto non gioverebbe ai fini del nostro racconto, in fondo pur essendo, e me ne congratulo con Rupert, un cervellotico e ingarbugliatissimo dedalo di calcoli e raffinatissimi conteggi degni del più zelante e caparbio degli abbachisti. Ma certo! La cassaforte in salotto! La chiave si nascondeva lì, per certo!
La donna ci lasciò fare, ignorando i nostri intenti, colla massima preoccupazione di sorridere ai devastanti effetti che quella diabolica macchina, celata dietro chissà quale parete del sinistro palazzo, aveva sui nostri fisici. Così in breve tempo, animati dal demone Speranza, a fianco del letto ove i due infermieri a turno lavoravano sul povero Rupert, Marvell ed io allestimmo una notevole lavagna sulla quale avevamo riportato i dati dell'enorme quesito. Sicché, Marvell i giorni, io le notti, avremmo potuto lavorare, con due ore combacianti di ragguaglio e confronto all'equazione gigantesca che lentamente di riduceva e si intravedeva tra le sfumature d'incognite sui nostri appunti e sulla lavagna. E da lì, ne eravamo certi sarebbe sorta la combinazione per la cassaforte e la salvezza. Rupert frattanto, aveva diminuito i battiti del cuore come in un sogno che sempre più sconfinava in morte. Diminuì pure il respiro, e a detta di Marvell e degli infermieri non avrebbe retto ancora tanto a lungo. Il che si vedeva da sé, poiché il biancore diveniva quasi trasparenza.
Eppure visse ancora, il suo stato si stabilizzò, mentre, però, sua moglie rideva alle nostre spalle e dei nostri sforzi e ci puniva, ogniqualvolta noi risolvevamo una riga delle innumerevoli, scatenandoci addosso le ire del Marchingegno che ora, anch'io come Rupert, odiavo e fuggivo incapace di umane reazioni. E inoltre non mi erano possibili altre strade, cosa potevo tentare? Nulla, assolutamente niente. Dovevo solo resistere e aver fede, eppure... no! Ma che dico? Sapevo benissimo di non essere in grado di evocare uno sforzo di fede come quello di Rupert...
Trovai difesa e conforto contro il maledetto Marchingegno tra le pagine del diario del mio amico, la sua forza, la sua determinazione e la sua poesia mi entravano dentro, nel profondo dell'anima, ed io le rendevo mie. E come lui rivissi gli attimi di terrore quando quel suono ti penetra dentro, ammaliante eppur letale e poi scompare, così come viene; ma tu sai che la prossima volta sarà ancora più atroce perché i suoi figli, il suo eco, è ormai al tuo interno e ti sviscera di continuo.
Poi anche in me fu delirio. Mi procurai dei tappi per le orecchie, giunsi persino a pensare di farmi colare cera bollente fino ai timpani - e ci pensai solo ora perché il Marchingegno mi aveva ingannato, mi aveva illuso assicurandomi che ce l'avrei fatta a sopportarlo ed io, stolto, gli prestai fede - finché realizzai, al primo tentativo, che il rumore ciò nonostante dilagava ugualmente, troppo sottile per essere fermato da un impedimento fisico e come se già fosse in me, irrimediabilmente catturato dalle pareti del mio cervello. Sì! lo sentivo aggrapparmisi dentro.
Fu non senza astio che gettai in strada l'unico rimedio possibile contro il Marchingegno. E la donna mi vide... alla finestra dell'altra ala del palazzo, la tenda di poco scostata, una debole luce soffusa d'una lampada ad olio e un viso impenetrabile, ma cattivo!
Proseguimmo nella decifrazione di quell'oscuro messaggio matematico, come l'equazione si appianava, così ora, per un errore, si ritraeva con un balzo ai nostri intelletti avidi di risposte, rigirandosi ancor più su se stessa e sulle sue spire.
E la donna ci osservava, spiava e non comprendeva il nostro lavoro, solo i due infermieri le riferivano lo stato del marito, e pur non capendo e rodendosi per questo, mai ci fece mancare nulla, mai un ritardo coi pasti che ci portava Tallos, mai un segno per congedarci dalla sua abitazione, ma solo una sfida... una sfida lanciata contro di noi, troppo umani a confronto del suo mostruoso progetto, ai suoi diabolici mezzi, al suo Marchingegno.
Ma ogni Speranza ormai era stata assassinata a ghiado col pugnale dell'evidenza.
Il tre dicembre, dirò allora, alle ore 5.00 del mattino, sei delle nove cifre che componevano il codice d'apertura della cassaforte erano state trascritte.
Come prima di noi altri avevano avuto modo di sperimentare , il Marchingegno già pareva aver mutato in scherno le sue note prima di sfida e avvillimento... era forse il segnale che eravamo perduti? Io e Marvell - da tempo anche lui al corrente del terribile essere o meccanismo - ci guardammo. Dio! quanto eravamo diversi e stanchi, sfiniti da quella corsa infinita che ci gelava i respiri tra le brume delle notti insonni, o che bruciava le nostre menti, con lentezza, sulle fiamme deboli dei candelabri, che, scosse dal suono del Marchingegno, avvampavano irose.
Due giorni dopo Marvell mi lasciò solo. A mezzanotte lo trovai disteso in una innaturale posizione freddo e morente.
Un infermiere fuggì, in piena crisi, fu costretto dalle mie urla a ridestarsi e a prestare soccorso... ma era inutile, cosa chiedevo? Solo la mia disperazione e la mia vita necessitavano di soccorso ora, Marvell era spacciato! Il Marchingegno gli diede il colpo di grazia e quando allora suonò, col suo suono che non s'udiva ma era tra noi io vidi i denti di Marvell conficcarsi tra loro nei suoi denti... così che egli ne morì. E allora l'infermiere spossato dall'ennesimo suono scappò di corsa da quel palazzo che io non abbandonavo da due settimane. Ora temevo che il prossimo assalto del Marchingegno mi finisse...
Non so neanch'io perché l'idea di uscire da quella casa non mi si pose nemmeno, ma capii solo in seguito quanto io abbia grattato sul fondo della mia ferinità, e quanto fosse allettante quella irresistibile tentazione.
Gettai il viso tra le lenzuola del letto ove riposava Rupert, sua moglie era sparita, ma chi non sapeva che in realtà ci stava spiando dietro chissà quale muro, godendosi le agonie delle sue vittime. Era lì disteso dal 22 Novembre, ma perché? Rifiutavo oramai una ragione medica. Ormai pensavo che il solo scopo dell'esistenza della moglie fosse quello di tormentare il suo disgraziato marito, questi incapace di odiare colei che aveva sposato per riavere la famiglia che tanto brutalmente gli era stata sottratta, si era inchinato al suo flagello alzato.
E allora m'interessò soltanto, come solo può importare ad una bestia, mosso come da belluino istinto animalesco, il sapore della vendetta. La mia forza stava risorgendo nella furia omicida che spinge chi più non spera, nel buio di se stesso, ad arrancare così come, prima che siano la legge, la follia o Dio a rattenerlo, contro chiunque egli ritenga suo nemico e cioè chi lo svalutò e lo sospinse a tale inumana abiezione. Così io, forse, in preda ai miei istinti, anzi, per certo da questi domato, affrontai le ultime righe dell'equazione maledetta. Lì, pregai Iddio che nessun errore, nessuna complicazione di sorta s'immischiasse coll'ultimo tentativo: uno sbaglio voleva significare il rifacimento di innumerevoli passaggi e per me, la follia. Poiché tal periodo, breve o esteso non so dirlo, fu concitato e battagliero quanto lo smeriglio audace, mi parve, nel centro del caos che tentavo di riordinare e per quanto io riuscissi a ragionare in quegli istanti ed a ricordare ora quel che pensavo allora accadesse, che il cervello e l'animo si affaticassero insieme, si avvicinassero per salvare il mio corpo e avvinghiati che erano, separarsi come i riflussi delle maree dalle rocce degli scogli. Ed io persi la cognizione del tempo, arrivando a dilatarlo o a restringerlo col solo movimento del polso, e con esso fu smarrito il senso spaziale delle cose, dal momento che l'arredamento si sfaldò ai miei occhi come crema di latte fino a sciogliersi sotto la pressione del mio sangue. Le tempie mi dolevano e credetti di essere svenuto quando scambiai il pavimento per il soffitto, eppure l'equazione, o meglio i suoi risultati, gli ultimi tre numeri, l'uno dopo l'altro, si materializzarono ai miei occhi. Essi combaciavano perfettamente con le cifre, dall'uno al trentasette (questo le scoprii solo in seguito) dei dati da noi utilizzati per la risoluzione dello stesso problema, pertanto leggendo alternativamente i numeri, tutti i dispari, saltando cioè i pari, si potevano osservare subito i risultati del teorema! Come non accorgersene dopo che già sei erano stati svelati? sarebbe bastata una occhiata veloce al testo iniziale! Sarebbe stato sufficiente girare la lavagna per rendersene conto! Ma ormai era troppo tardi! Rupert era riuscito a stupirmi ancora, così facendo tutti quelli come noi erano tratti in inganno! In fondo la matematica era l'arte dell'organizzazione, egli aveva sempre sott'occhio la combinazione nel suo diario, nei dati di un problema che risolto li restituiva dopo immani sforzi di giorni! Ma io ebbi l'impressione che lui avesse voluto che io risolvessi l'equazione dopo tutto questo tempo, per temporeggiare e fare non so che cosa in tale immobilità. L'esaltazione fu immediata e sconvolgente, la soluzione a lungo preclusa era ora mia; la conquistai così come il filosofo, tanto impercettibilmente, d'un solo balzo della ragione, per un inconscio meccanismo di sillogismi e di deduzioni anche istintive, scruta, comprende e prevarica la Verità.
Mi gettai in salotto e, con trepidante attesa, mossi il meccanismo della cassaforte e, una alla volta, furono inserite le cifre della combinazione. Scattò la prima, seguita dalla seconda e la terza... e così la quarta! Scattarono la quinta e la sesta cifra! Cielo! Dio! fate che non abbia sbagliato ora! La settima corrispose. Ne mancavano due, solo due! Non ora! Con gli occhi chiusi e i nervi tesi ascoltai lo schiocco della ottava mandata dirmi che era con me, il sudore mi aveva macchiato la camicia, tremavo dall'ansia, Rupert poteva essere salvato dal terribile Marchingegno! Dovevo muovermi! Io stesso non avrei resistito molto! Lo sapevo, qualche battito ancora della macchina e sarei affogato nella mia follia... strinsi il cuore, gli implorai di non far rumore... e la nona cifra... fu l'ultima. Esatta! Non credetti a me, pensai solo per un istante al dottor Marvell, quindi aprii la cassaforte, febbricitante.
E vidi qualcosa di tremendo.
Uno specchio, largo e alto quanto l'interno della cassaforte con una cornice di legno nodoso, si trovava là dentro, ma questo non era solo, con lui o meglio in lui, riflesso nella sagoma della mia immagine che si delineava e seguiva i miei movimenti sulla superficie perfetta del vetro, era raffigurato come in un'icona russa il suo volto, il volto del mio più caro ed unico amico. Egli, in me, era tale e quale io l'avevo abbandonato sul letto, tra le lenzuola sporche e sudicie, eppure in quel momento io sentii di non essere completamente me stesso, anzi di non esserlo affatto e tuttavia ero cosciente di quanto accadeva, di quanto attraverso il mio corpo stava avvenendo. E fissando senza interruzioni lo specchio, osservai che si offuscava e si incupiva di continuo, e infine, finalmente, al posto del volto di Rupert, si intravide il mio, e vedendolo m'accorsi di quanto fosse smagrito e teso, ma soprattutto notai di come i miei occhi mentre io li fissavo al di qua del vetro, al di là dello stesso fossero chiusi come poco prima lo erano stati quelli di Rupert. E fu in quegli istanti che tutto avvenne come nel peggiore degli incubi, dove assisti impotente al tuo destino. E così fu per me.
 
Mi mossi, mi alzai e cercai una donna, cercai la Tessitrice, non so per quale motivo volli chiamarla Christine, ma lo feci e lei di questo nome rise, ghignò mentre il volto trasudava la sua cattiveria, mentre la sua apparenza svaniva e di lei, del suo astuto inganno, non rimaneva che il vero, di lei, donna, intravidi il lato bestiale e demoniaco e come se questo non fosse il suo mondo, quella cosa scomparve, capendo solo allora che l'intelligenza di un uomo aveva sconfitto la malvagità d'un diavolo. Rupert aveva viaggiato durante quel periodo, stando fermo sul suo letto, e come riportavano le pagine dei suoi diari, egli aveva visitato con Dio, tanto la fede era ricolma in quest'uomo, il suo futuro e tra i cieli aveva imparato ad odiare la donna che aveva stravolto la sua vita e aveva capito che quel suo amore era per una moglie che non era più. Mi mossi ancora, aprendo porte in quel palazzo che nemmeno immaginavo esistessero, e andai in un luogo, oscuro e recondito, addirittura al di sotto della cantina. Non capii cosa giudasse i miei passi ma ora ero certo, ora che assistevo a quando dovevo vedere che quella non era la mia andatura, che quella persona non ero io. Ma scesi ancora passando per una piccola scala e penetrai in un cunicolo, qui sul fondo, incastonato nella pietra sulla quale era stato eretto il palazzo, si trovava uno strumento, simile ad un pendolo, regolato da sottili fili di rame e ingranaggi d'ottone, con due piccole clessidre affusolate ai lati che potevano essere rigirate da assi di legno. Lo riconobbi: era il Marchingegno.
Ora capii cosa aveva causato la mia follia in questi giorni. Era una macchina magnifica, l'uomo ama tanto l'ingegno, non lo distrussi, lo avrei spento, era stato uno strumento del demonio, nelle mani di quella donna aveva ucciso il dottor Marvell e la domestica e chissà quante altre persone, l'uso che ne era stato fatto mi fece schifo, ma in sé era una tentazione irresistibile, non volli distruggerlo. Ma presi una ganga che poggiava alla parete, o almeno le mani la strinsero con una rabbia che non conoscevo, non andava colpito così duramente, Dio, le clessidre vanno in frantumi, ma chi muove le braccia? chi lo fa a pezzi? fermati! Il marchingegno ora non canterà più! Era stata perduta una grandissima invenzione, e solo ora avevo capito che era stato il suo giustiziere: la sua vittima! E piansi per la giustizia.
 
Mi risvegliai poco dopo che questo accade, ero nel letto di Rupert, ero al suo posto, anzi per poco o anche molto tempo ero stato Rupert. Avevo gli occhi chiusi ma immediatamente non li aprii. Mi vennero in mente tutte le ultime vicende. Capii, così, che mentre io fissavo lo specchio che era custodito in quella cassaforte qualcosa che superava l'umana comprensione era avvenuto, qualcosa a cui si poteva solamente credere. Solo la fede talvolta poteva dare quelle lezioni di grandezza ... mi credevo un intellettuale, pensavo che tutto potesse essere abbracciato dalla mia comprensione. Ahimè! Tanto m'illusi, tanto ero umano!
Aprii gli occhi, qualcuno stata risalendo i gradini, sentii lo strascicare di piedi avvicinarsi, poi prima del volto dell'amico che avevo salvato dalla Tessitrice e che ora mi salvava dal Marchingegno, vidi la vanga sporgersi dalla porta. la teneva in pugno, era la vanga con cui aveva distrutto il Marchingegno. Sì, era come avevo pensato. Al contatto con lo specchio io ero divenuto il morente, lui il folle.
 

 

Classifica Concorso Città di Melegnano 2000 sez. narrativa
 
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inserito il 13 dicembre 2000