Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Laura Poletti
Con questo racconto è risultata segnalata dalla Giuria del Premio Vittorio Tolasi - Orzinuovi, sezione narrativa
Mobile ordigno di dentate rote
 
Silenzio.
Tutto intorno taceva, eppure lui era ancora lì. Le pareva di sentirlo mentre le respirava sul collo, pronto a succhiarle ancora qualcosa, come se non l'avesse già derubata abbastanza. Non era mai riuscita a sfuggirgli, mai. Si era solo illusa: lui c'era sempre stato, sicuro di sconfiggerla fin da quando lei nemmeno lo conosceva, ubriaca di giovinezza e d'innocenza. Ricordava ancora bene quei tempi... chi dimentica le proprie glorie? Tempi di vittoria, tempi di gioia, tempi passati, che lui le aveva sottratto, ladro senza scrupoli.
L'aveva conosciuto per caso, dopo averne sentito tanto parlare, e da allora non se n'era mai più liberata. Quante volte aveva cercato di dimenticarsi di lui, convinta che presto sarebbe svanito dalla sua memoria, ancora una volta si erra illusa, e troppo tardi si era accorta che si scorda solo ciò che si vorrebbe conservare dentro di sé, mentre tutto il resto rimane, troppo profondo per essere cancellato.
Così lui era rimasto, ed anzi la sua presenza si era fatta sempre più insistente, soffocante, ossessionante. La notte, scossa ancora dagli antichi timori per il buio mai dimenticati, lo sentiva bisbigliare, monotono, cantilenante, terrificante. Sembrava ripetesse il suo nome all'infinito, così da imprimerlo meglio, nella sua memoria, meticoloso persecutore. E le pareva di sentirlo ridere, mentre lei si girava e rigirava insonne, alla ricerca di quella tranquillità che già sapeva non avrebbe mai trovato. Accendeva la luce di colpo, ma non serviva a nulla: lui era costantemente lì, perfettamente nascosto, introvabile, ma sempre presente, e ladro e assassino.
Silenzio.
Quella notte era una delle tante che trascorreva origliano i sibili ed i passi leggeri del suo persecutore, troppo desiderosa di liberarsene per poter prendere sonno. Uno strano prurito alla guancia sinistra trascinava irrefrenabilmente le sue lunghe dita, pesanti sulla pelle.
D'improvviso si alzò e corse velocemente davanti allo specchio, terrorizzata all'idea che fosse già riuscito a sfiorarla, e vide un bel castello di sabbia eroso dal vento implacabile e costante.
Chi era quella? Certo non lei, sicuramente non lei... orribilmente proprio lei. Com'era riuscito a ridurla così, quel furfante? Con quali terribili armi e quando? Ogni tentativo di difesa era vano: nonostante tutto lui riusciva sempre a toccarla.
Tornò a sedersi sul letto, il più lontano possibile dallo specchio, e prese ad emettere lunghi inefficaci respiri per ritrovare la calma.
Squarciando il silenzio, ora il vento fuori urlava forte, dentro lui sussurrava in continuazione, impercettibile ed assordante. Al concerto di quella notte presto si aggiunsero i suoi gemiti sommessi. Aveva paura, molta, troppa paura, come che cerca disperatamente di sfuggire ad una condanna che il mondo intero costantemente gli ricorda.
Lui le aveva rubato tutto, aveva spento ogni luce che s'era accesa nella sua vita, lasciandola al buio, o alla misera luce di una lampadina.
Lui era stato lì, era lì, sarebbe stato sempre lì, lì accanto a lei, a vendicarsi di un'offesa sconosciuta, forse dimenticata, forse mai commessa, vittima innocente... Le sfuggì un urlo ed i respiri presero a farsi più affannosi, mentre gocce di gelido sudore le grondavano dalla fronte, come le capitava da bambina, proprio quando il vento fuori gridava forte e lei vedeva nel buio mostri spaventosi pronti a saltarle addosso. Chiuse gli occhi e per un momento rivide quella bambina che ora non le assomigliava più molto, trattenendo un sorriso di tenerezza, che presto si allargò in un'espressione di trionfo.
Il passato, il caro, il dolce, i pio passato: ecco che cosa non le avrebbe mai potuto sottrarre! La luce, la luce... le restava ancora un sottile, debole, vitale spiraglio: non doveva perderlo. Se lui avesse spento il suo futuro, lei sarebbe vissuta del riverbero del passato. Ma stava già dimenticando, abbandonando quei dolci gregari per strada, per raccoglierne altri, sempre più amari. Note lontane, ovattate, sublimi melodie: ricordi. E lei li avrebbe riconquistati. Per sempre. Non le serviva che tornare indietro, ai principi: rivedendo lo spartito avrebbe forse potuto udire di nuovo quelle musiche fatate, echi lunghi e lontani. Stringeva salda ancora qualche nota, ma al vecchio paese natale avrebbe ritrovato le altre, quella notte. Lui l'avrebbe seguita, ne era sicura, e l'avrebbe per sempre lasciata in pace: nel passato lui non poteva più nulla... e lei avrebbe ricordato.
Subito si gettò addosso il cappotto e, spenta la luce, prese le chiavi dell'auto, si precipitò giù per le scale ed uscì dalla palazzina. Il vento urlava ancora più forte, trascinando scheletri di foglie che pareva le si scagliassero addosso come in un tiro a segno. Rifugiatasi in macchina, accese il motore e partì: non era lontana la sua meta, anche se non vi si era più recata da anni ed anni, da quando i suoi genitori erano ancora in vita, da quando lei era diversa, e lui forse già c'era, ma sapeva non farsi sentire.
Guidò nella notte, sfidando il vento, senz'altri pensieri che quello martellante, ossessionante, soffocante, di raggiungere quel mondo lontano, dove lui non poteva più nulla, quel mondo lontano dove lei l'avrebbe umiliato e sconfitto. Era un folle, un omicida, un malvagio inclemente, vorace di vite. Prevedeva le sue mosse e sapeva anticiparle, ma questa volta non avrebbe potuto nulla: imprevedibile lei tornava nel passato, l'unico tesoro che lui non sarebbe mai riuscito a sottrarle.
Finalmente, quando fuori era ancora buio e dentro l'agitazione non si era ancora placata, si trovò su strade a lei familiari: lo riconosceva bene, quello era il suo paese.
Parcheggiata la macchina vicino al parco, ritornò in balia del vento, che soffiava ancora furioso. Ora cominciava a sentire freddo, un freddo viscido che le penetrava dentro, sotto la pelle, simile al suo persecutore.
Si voltò di scatto e non vide nessuno: "Eccolo, mi ha seguita!", pensò soddisfatta, mentre le campane della vecchia chiesa poco distante battevano qualche rintocco che non seppe contare.
Rise stringendosi nel cappotto, infreddolita, e si avvicinò all'ingresso del parco, ammirando dall'alto della scalinata la vista dell'area deserta.
Un sottile brivido le si infilava su per la schiena, il vago timore che lui avesse potuto prevederla, e anticiparla, e rubarle le note. Ma, sollevata, vide felice che nulla era cambiato. La riconosceva l'altalena su cui si dondolava sempre dopo la scuola, smaniosa di toccare le nuvole e costantemente richiamata dalla mamma, che ripeteva: "È tardi, andiamo!", ma per lei era sempre presto, troppo presto. E più in fondo ecco la grande fontana di fronte alla quale trascorreva innumerevoli pomeriggi, affascinata dall'allegra danza degli zampilli d'acqua.
Stava per scendere i gradini, quando d'un tratto si bloccò: il tempo per commuoversi, accarezzando da vicino ogni angolo del passato, sarebbe venuto poi; ora non poteva che lanciare un'occhiata materna, rivedere di sfuggita lo spartito, tutto lo spartito... non poteva soffermarsi molto. Anche la nonna controllava ogni notte che lei dormisse tranquilla, ma, rimboccate le coperte, subito si allontanava: anche lei ora sfiorava appena e poi si ritraeva, benché desiderasse restare.
Si stupì di associare la propria immagine a quella della vecchia nonna, lei che era stata per l'ultima volta su quei gradini a vent'anni... e un brivido di colpo la scosse, più gelido del vento stesso.
Camminava spedita, ascoltando i propri passi sonanti sul selciato, senza riuscire a distinguere bene quelli del suo inseguitore: forse, sperava, s'era già arreso di fronte alla sua tenacia, alla sua forza, al suo coraggio, a lei che si stava faticosamente arrampicando su uno spiraglio di luce, a lei che presto sarebbe arrivata in cima.
Si voltò nuovamente, bloccandosi di colpo: non c'era nessuno e tutt'intorno era silenzio, a parte i lamenti continui del vento. Riprese la sua faticosa marcia, avvicinandosi alla scuola e al lungo viale alberato che portava a casa, abbassando gli occhi, per proteggerli forse dalla polvere danzante nell'aria, forse da un'emozione troppo forte. Contò i propri passi e, sempre fissando il selciato, giunse ai piedi arrugginiti del grande cancello d'entrata, che da piccola aveva provato a scavalcare, un giorno che il tempo a scuola pareva non passare più. Esitava a sollevare gli occhi, timida, timorosa, proprio come anni ed anni prima, quando si presentava puntuale lì davanti ogni mattina.
Sorrise, vedendosi ancora così bambina, così lontana dall'immagine della nonna, e sollevò coraggiosa lo sguardo di fronte a sé, pronta ad infliggere il colpo mortale al suo persecutore.
Le campane stavano ancora suonando un numero imprecisato di rintocchi quando, soffocato nella notte, l'urlo di un guerriero colpito a sorpresa dal nemico che stava per finire. Oltre il cancello vedeva, come nello specchio, un altro castello di sabbia, su cui il vento continuava insensibile a soffiare, ormai quasi totalmente spazzato via nell'aria. A terra restava ancora qualche cumulo di pietra, mentre uno sfavillante cartello annunciava il progetto di costruzione di un vasto complesso condominiale. Di fronte a sé il buio, il vuoto... come nel suo futuro. Della vecchia scuola non restavano che l'imponente cancello ed il muro di cinta, misere spoglie d'un cadavere seppellito nella memoria.
Riprese a sudare freddo, il cuore in sussulto, il volto contratto in una strana smorfia di dolore e di terrore: lui era lì, e rideva, lo poteva sentire. Lei cercava di appigliarsi al suo passato, ai ricordi di scuola, mentre lui abbatteva tutto impietoso, divertito nel vederla vacillare senza scampo.
Ladro! Le stava rubando anche il passato: non soddisfatto di soffocarla nel presente, si apprestava a togliere ossigeno anche alla fiamma dei ricordi, per lasciarla al buio. Non sopportava la vista di quello spazio vuoto, di quei pochi resti a terra straziati: al mare costruiva sempre castelli di sabbia, ma solo negli ultimi giorni di villeggiatura, quand'era certa che se ne sarebbe andata prima di vederli agonizzanti come antiche rovine.
Si voltò di colpo per pulirsi gli occhi di tanto scempio e fissò dinanzi a sé il lungo viale alberato, le mani nei capelli, le lacrime agli occhi. E lui rideva, e le sussurrava all'orecchio: "Io ti precedo, io corro più veloce di te, più veloce del vento!". Pareva uno di quei bambini che la sfidavano nella corsa usciti da scuola, scommettendo una caramella come premio per il vincitore. Ma qui il premio non era una semplice caramella: il premio era lei.
"Ci si ferma di fronte a casa mia, in fondo al viale!", diceva sempre agli sfidanti, quando già stava per lanciarsi nella corsa.
"Ci si ferma di fronte a casa mia, in fondo al viale!", ripeté quella notte al suo nuovo sfidante e, sentendoselo nuovamente respirare sul collo, prese a correre velocissima, come una foglia spinta dal vento, granello di sabbia di un grande castello leggero nell'aria. Lei correva, correva, correva, ma lui era più veloce, lo era sempre stato. Si accorgeva, mentre l'aria gelida le tagliava la faccia, che il suo persecutore aveva sempre giocato in velocità, imbattibile. Lei si era solo illusa di poter correre più veloce di lui, gli aveva ordinato di fermarsi, come altre vittime sicuramente avevano fatto, ma lui, sordo carnefice, non ascoltava mai nessuno e correva, correva forsennatamente, fingendo di rallentare, accelerando il passo. Anche lei ora stava correndo, ma mai come lui. Sarebbe stata sconfitta, non avrebbe tagliato il traguardo per prima. E un giorno lui avrebbe ritirato il premio.
Giunse in fretta in fondo al viale, ansante, sfinita, sconfitta. Non ricordava bene la vecchia casa: rivedeva la facciata ridente sul grande giardino, qualche stanza, ma nulla più. Non l'avrebbe mai ricordata: lui l'aveva già cancellata, trascinata con sé nella sua lunga, lunghissima marcia. Non si stupì di trovare al posto dello snello edificio giallo una squadrata e triste palazzina grigia senza giardino: già se l'aspettava, in fondo aveva perso la corsa, lui l'aveva sempre preceduta con le sue gambe puntute. Non provava rabbia, non ne aveva la forza, solo paura. Lei aveva sempre avuto paura del buio, ed ora s'era spenta ogni luce.
Si sedette lungo il viale, troppo affaticata per muovere ancora qualche passo. Non le restava che arrendersi: ogni castello prima o poi crollava. Per di più un castello di sabbia.
Silenzio.
Solo ancora il crudele carnefice bisbigliare: "Don, don, don".
 
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