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               L'altra
               parte del vetro 	Uscire
               fuori mi sembrò l'unica possibilità.
               Avevo però da superare ancora quella marea di
               corpi in movimento e il fiato sembrava mi mancasse,
               ormai. Tentavo di appigliare lo sguardo su qualcuno
               dei volti che mi circondavano. Non mi riusciva. Era
               come se i contorni di ogni cosa si fossero sfocati,
               dilatati, deformati. Non potevo riconoscere più
               nulla, come in apnea, sott'acqua ad occhi aperti.
               Tiravo su col naso e nel frattempo il mio corpo sudato
               e stanco continuava a muoversi come in automatico. Mi
               facevo penosamente strada tra mani umide e braccia
               scoperte e calde. Sguardi in attesa di raccogliere il
               mio, forzatamente puntato altrove. A passi lenti
               lisciavo il bancone del bar, legno scuro e lucido.
               Inciampavo negli sgabelli pieni di borse e giacche e
               gambe incrociate e molli. 	Osservavamo
               insieme il tramonto, di là dall'orizzonte.
               Muti. Aspettavamo che la brezza calma dell'estate
               serotina ci facesse rabbrividire i corpi scoperti.
               Prendevi del vino bianco e lo versavi in una caraffa
               piena di pesche tagliate a fette. -
               Lasciamolo macerare -, ed andavamo insieme a lavarci
               la salsedine dalla pelle, bruciante per il troppo
               sole. L'odore della citronella bruciata si spandeva
               nella stanza bianca e crepata e ancora un po' di luce
               entrava dalle feritoie lunghe e rettangolari poste in
               alto sulla parete. Ti sentivo canticchiare mentre ti
               rasavi la barba ancora tenera e mi provavo a rimettere
               a posto i letti tirando la copertura di tela turchese,
               troppo piccola per coprire bene le lenzuola fiorate un
               po' lise dell'infanzia. Non avevo specchio ma bastava
               il tuo sguardo a farmi sentire bella e sicura di me,
               pronta per affrontare un'altra splendida serata estiva
               tra le luci dell'isola e l'odore del mare. Il nostro
               ristorante ci aspettava: una terrazza affacciata sulla
               tranquillità della notte, sperduta tra incroci
               di viottoli e pendenze arrampicate e tavole
               apparecchiate con tovaglie rappezzate e bicchieri
               spaiati e sporchi e seggiole arrugginite e bucatini al
               sugo di coniglio e patate fritte e il sorriso della
               cuoca senza denti e l'occhio storto del vecchio
               proprietario. -
               Un po' di vino - e il liquido intiepidito scivolava
               nei bicchieri blu assieme alle pesche oramai macerate
               e poi nelle bocche schiuse e sulle lingue umide e nel
               profondo della gola e al centro dei corpi snelli e
               lisci. Il leggero sciabordio delle onde accompagnava
               l'incedere della notte. Era allora che potevamo
               sorriderci in silenzio, sicuri che l'isola fosse
               nostra, che il mondo fosse nostro, che il futuro
               sarebbe stato nostro, che saremmo vissuti per sempre,
               immuni dalla morte, dalla paura, dal tempo e dalla
               corruzione e dall'invecchiamento. Era allora che
               potevamo prenderci per mano ed andare incontro alla
               notte come una persona sola, stesso cuore, stesso
               cervello, stessa luce negli occhi. 	Uscire
               fuori mi sembrò l'unica possibilità. Per
               sopravvivere al dolore. Per riprendere il fiato che
               mancava. Per sentirmi di nuovo vivo. Dovevo farmi
               strada. Prima che le lacrime prendessero a scivolarmi
               dalle palpebre aperte. Prima che quel groppo in gola
               finisse per sciogliersi in un grido distruttivo.
               Dovevo uscire fuori. E tiravo e scostavo e spingevo ma
               un poco pure ballavo e sorridevo. E la guardavo. A
               pochi passi da me. Ed era bella. Ed io non l'avevo
               voluta. E mi amava con lo sguardo e con le parole e
               con le mani. E io. Non l'avevo voluta. Si muoveva
               dolcemente, corpo tra i corpi, come una molla scoccata
               dalla musica. Era bella. E mi amava. E io non.
               Dovevo
               uscire fuori. Prima di bere un altro rum. Prima di
               mettermi a gridare quanto era bella e quanto mi amava
               e che ero un vero e proprio idiota a lasciarmela alle
               spalle così, senza nemmeno provare. Ma, in
               fondo, provare cosa? Che come ogni storia sarebbe
               finita? La spintonai e le feci perdere l'equilibrio.
               Fui sulla porta a vetri. Afferrai la maniglia e mi
               trovai, d'un tratto, fuori, completamente ubriaco e
               solo. Il vicolo sembrava ancor più stretto di
               quanto riuscissi a ricordarmi. Alzai lo sguardo a
               cercare il cielo. L'unica cosa che mi riuscì di
               vedere fu una specie di striscia nera tra un
               caseggiato e l'altro. Né stelle, né
               luna, né nuvole. Solo quella striscia nera che
               sembrava diventare sempre più sottile. Mi
               strinsi nella giacca. Il vento di quella fine di marzo
               era gelido e sollevava a tratti polvere e cartacce sul
               selciato consumato e sconnesso. Mi voltai. A guardarla
               ancora una volta muoversi tra la folla. La musica mi
               arrivava ovattata e come lontana dall'altra parte del
               vetro. Era bella. E mi amava. E forse mi avrebbe
               capito ed ascoltato ed avvolto con un abbraccio dolce
               e caldo. Appoggiai la fronte al vetro e strinsi gli
               occhi forte. Ormai ero fuori. Chiusi la giacca mentre
               il vento ghiacciato mi sferzava il viso e me ne andai
               tra i budelli dei vicoli solitari e scuri, per
               perdermi ancora una volta, io che non mi ero mai
               ritrovato. 	Allora
               pensavo che nulla avrebbe potuto scalfirci. Non mi
               sembrava che esistesse alcun ostacolo, cieca che ero,
               neppure quando l'anello di turchese mi cadde di mano e
               si spaccò in tre parti. Ti affaticavi a
               rimetterlo insieme con la colla e lo conservo ancora,
               così, tutto rattoppato, chiuso in una scatola
               insieme alle tue fotografie, al vino bianco con le
               pesche ed alla luce che entrava dalle feritoie
               proiettando sulle pareti ombre rovesciate nella calura
               dei pomeriggi estivi. L'estate mi sembra così
               lontana adesso che le sagome spoglie degli alberi le
               disegna la luce gialla e opaca di un vecchio lampione
               di ferro battuto. Cammino con le mani infilate nelle
               tasche del cappotto ed il fiato che esce dalla bocca
               disegna bianche ombre che si sperdono nel buio. La
               lana della sciarpa mi solletica il collo e il cappello
               mi stringe forte la fronte. Se sollevo lo sguardo
               quasi quasi scorgo qualche stella sparuta che si fa
               strada in questo inutile pomeriggio d'inverno. Sono
               sola. E le foglie secche scricchiolano sotto le mie
               scarpe. Tu non sei con me. Sono stanca di camminare
               senza meta. Tornerò. A casa. A piedi.
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