| 
                
               
               
                  Diritto di
                  vivere  Dormiva
               davanti alla Chiesa, da mesi, anni forse. E chi lo
               poteva dire con sicurezza? Avanti a quella chiesa
               consacrata ma, quasi sempre chiusa, andavano a dormire
               tanti barboni o esseri sbandati, che non avevano casa,
               famiglia ricordi, nulla: tutto cancellato, come quando
               si passa una spugna su di un tavolo macchiato e di
               ogni macchia sparisce tutto, come se non ci fosse mai
               stata. A parlargli era un'impresa, perché non
               rispondevano o si ritraevano impauriti o seccati o
               diffidenti. Non chiedevano nulla, non volevano nulla.
               Volevano essere soli e basta. Non si facevano neppure
               aiutare e se qualcuno offriva loro qualcosa, gli
               giravano le spalle. Spesso puzzavano di vino, oltre al
               tanfo che avevano addosso, quanto si, ma era naturale,
               quasi. La solitudine non ti riempie le giornate
               sempre, e tante volte non basta più. Quel
               barbone però, era ormai fisso, da anni. Si era
               ritagliato il suo posto tra la porta e il primo
               gradino che portava alla chiesa. Con lui non c'era
               ritagliato il suo posto tra la porta e il primo
               gradino che portava alla chiesa. Con lui non c'era mai
               nessuno. Anche gli altri barboni erano andati via e
               avevano preferito altri posti o non gradivano la sua
               compagnia, chi sa. Di notte dormiva sotto i cartoni,
               di giorno stava steso a dormicchiare, sempre al
               medesimo posto oppure si faceva la sua
               «passeggiata» come diceva il giornalaio che
               era all'angolo, di fronte al semaforo. La passeggiata
               suddetta consisteva in pochi passi, tra la chiesa e
               l'edicola dove, una volta giunto, si fermava un attimo
               e ritornava indietro. Infine si appollaiava su un
               gradino della chiesa e guardava la gente o le macchine
               che scorrevano senza posa, fra gli scatti del
               semaforo: rosso, verde, verde, rosso. forse non vedeva
               niente o forse lo incuriosiva tutto quel traffico che
               pareva un fiume che scorre al mare. Ma la sua
               espressione era sempre la stessa, anche perché
               era difficile che si riuscisse a vedere qualcosa della
               sua faccia, tra la barba e il cespuglio di capelli,
               grigi, neri e marroni come se avessero voluto
               scegliere, nella varietà delle tinte, anch'essi
               la libertà. Nessuno sapeva chi fosse e da dove
               venisse, niente di niente. Non parlava, non dava
               confidenza ad alcuno, non chiedeva nulla. La sera, al
               massimo, andava a rovistare nel cassonetto dove
               finivano i rifiuti della pizzeria che era di fronte
               alla Chiesa. Così, per pietà e per
               dargli un pasto decente o quasi, don Gennaro il
               pizzaiolo, diceva ai camerieri di lasciare, nel
               suddetto cassonetto, un cartone con una pizza intera,
               in maniera che almeno si sfamasse un poco, soprattutto
               d'inverno, quando il vento taglia la faccia e si
               respira aria di neve. Ogni mattina, davanti a lui
               passava don Peppino, col suo carrettino-negozio,
               ovvero una specie di carriola su cui conservava tutta
               la sua mercanzia: pettini, lacci di scarpe, cinture,
               spazzole, bastoncini per grattarsi le spalle e altro.
               Si tirava dietro la carriola ambulante e andava ad
               esporre la sua merce qualche vicolo più avanti,
               tra una rientranza di un muro perimetrale di palazzi
               diversi e tra un negozio di biancheria e uno di
               vestiti. Passava sempre alla stessa ora, con ogni
               tempo, in ogni stagione, uguale da anni: un volto
               senza età, quasi senza espressione. Anch'egli
               parlava poco e dava poca confidenza, persino ai
               clienti, ma lo consideravano quasi come un orologio e
               dicevano - Sono le sette, è passato don Peppino
               - Sull'ora non si sbagliava mai, quasi l'avesse
               stampata nella testa. E neppure si assentava mai come
               se fosse refrattario ad ogni malattia e perfino
               all'età. Era don Peppino dei «lacci di
               scarpe» e basta. Col tempo aveva fatto tutt'uno
               con i palazzi e la strada e nessuno ci badava
               più: una cosa fra le cose. Ma se fosse mancato
               se ne sarebbero accorti tutti, come quando cade un
               palazzo e ci si accorge che esiste o esisteva ancora.
               Don Peppino parlava poco ma, passando nel suo tragitto
               quotidiano davanti alla chiesa di via Costantinopoli,
               salutava stranamente il barbone. - Salute barbò
               - gli diceva e non si capiva se alludesse allo stato
               sociale di lui o all'immagine che offriva, somigliante
               ad un cane barbone, tutto arruffato e sporco. E
               stranamente, a lui rispondeva il barbone, dicendo -
               salute
 buon giorno
 - Qualche volta, che
               non aveva voglia o era più turbato del solito o
               bisognoso di solitudine, gli volgeva le spalle
               borbottando - Diritto alla vita, diritto alla
               vita
 - Le prime volte don Peppino, era rimasto
               come interdetto, poi si era fatto una ragione. Chi sa
               che aveva passato, qual poveretto, per dire
               così o forse erano solo brandelli di ricordi
               che affioravano nella sua mente, chi sa, ma erano
               fatti suoi. Però quella frase gli frullava nel
               cervello, quando la udiva e gli restava dentro, come
               qualcosa che somigliava ad un disagio o ad una pena o
               semplicemente che non si riusciva a capire. Del resto
               tutta la vita stessa non si capiva bene e una frase in
               più o in meno non aggiungeva o toglieva niente.
               Don Peppino,
               lo conoscete? Ma con voi parla? - gli chiedevano il
               pizzaiolo o l'edicolante, talvolta, facendo segno al
               barbone. - Don Peppino scuoteva la testa, quasi
               scontroso: quel saluto era un fatto tra lui e il
               barbone, altri non ci dovevano entrare. Gli pareva, se
               aveva fatto chiacchiere o pettegolezzi, di tradire la
               sua fiducia. - Perciò tirava diritto con il suo
               carrettino e non ascoltava nessuno. Però ci
               pensava, mentre incartava i pettinini e i lacci di
               scarpe ai suoi clienti. - Una volta o l'altra mi fermo
               - si diceva - e - gli dico qualche cosa, forse mi
               risponde -; Ma poi non si decideva mai e lasciava
               andare e continuava a tirare diritto con il suo
               carrettino sbilenco, sotto la pioggia e le raffiche di
               vento, se era di inverno, sotto il sole cocente, se
               era di estate. Gli bastava che egli fosse lì,
               sotto i suoi cartoni, a sognare chi sa che cosa, nel
               suo mondo che si era scelto da anni. Non lo smuoveva
               neppure l'odore acre di colla e di solventi che usciva
               dal negozio di restauratore di mobili, che era accanto
               alla Chiesa e tanto meno il rumore arrogante del
               clacson della auto e dei motorini che sfrecciavano
               lungo l'incrocio o ruggivano nell'attesa che cambiasse
               il rosso del semaforo. Al massimo, quando la via
               appariva più tranquilla, verso notte, o
               nell'ora sonnolenta del pomeriggio, prima
               dell'apertura dei negozi, riprendeva ad andare su e
               giù sul marciapiede, piano piano, fermandosi a
               guardare le figurine dei pastori o gli orologi antichi
               che si intravedevano dalla saracinesca traforata del
               negozio di antiquariato che veniva dopo quello dei
               restauri. Guardava un poco le porcellane dipinte, gli
               orologi che battevano le ore con il pendolo, le
               bambolotte di carta pesta e poi riprendeva a
               camminare: con lo sguardo che scivolava sulle cose,
               senza vederle. Poi si sedeva sui gradini, come un orso
               polare, tutto peli, che gli si arruffavano ovunque,
               come una massa uniforme e senza senso.Una volta, il
               garzone del pizzaiolo gli aveva offerto un bicchiere
               di vino, ma tenendosi alla lontana, perché non
               si poteva mai sapere e aveva detto ridendo, rivolto
               agli altri - Questo capisce solo il vino - Volete
               vedere? - Il vino, questi qui, lo capiscono tutti!
               -Lui l'aveva
               guardato un momento, con quello sguardo che scivolava
               sulle cose senza vederle e poi aveva allontanato la
               mano che gli porgeva il bicchiere, senza parlare.
               Aveva girato le spalle ed era ritornato alla sua tana,
               sotto i cartoni che si era tirato sino agli occhi,
               quasi non volesse vedere nessuno.- Lasciatelo
               stare, aveva detto don Peppino, che andava a
               conservare il suo carretto con la mercanzia, nel
               bugigattolo del portiere di un palazzo, che richiedeva
               «l'affitto» anche se era un buco che
               riusciva a contenere soltanto il carrettino, essendo,
               nell'antichità, quello che si diceva «un
               luogo di decenza» ovvero uno sversatoio multiuso
               con un foro al centro, ora coperto da un'asse di
               legno. Il cosiddetto «luogo» era
               condominiale ma il portiere lo «affittava»
               con buona pace di tutti, anche perché non
               serviva più, neppure ai topi, ora che il buco
               era stato otturato.- Lasciatelo
               stare - Vuole stare quieto - Chi sa che ha passato
               -- Tutti li
               abbiamo passati i nostri guai - aveva osservato il
               garzone - Questo era vero, ma lui ne aveva passato
               qualcuno in più, forse. La dose non era mai
               uguale, comunque. E la sopportazione neppure. Ma
               questo don Peppino non lo disse - Sarebbe stato troppo
               lungo e non era il caso di andare oltre. E poi ognuno
               aveva le idee sue, che non era disposto a cambiare,
               almeno non sempre, per non dire mai.Anche don
               Aurelio, il vice parroco della Chiesa, tante volte
               aveva tentato di parlare con il barbone, detto anche
               «pelliccia» perché, appunto
               somigliava ad un orso arruffato. Ma non ci era stato
               nulla da fare. Alle domande del prete non aveva
               risposto, come del resto faceva sempre con tutti e
               aveva rifiutato perfino il cibo o qualche indumento
               che questi gli offriva. Voleva star solo e basta e
               vivere in quella «tana» che considerava
               ormai la sua casa, almeno per il momento, tra la porta
               della Chiesa e i gradini che portavano alla stessa.
               Altro non chiedeva. Solo da don Peppino, una volta,
               aveva accettato una sigaretta ed era stato tutto. Se
               l'era gustata seduto sul gradino che dava sulla
               strada, piano piano, quasi con golosità,
               aspirando larghe boccate di fumo. E a don Peppino che
               lo guardava incoraggiante, aveva detto, con una voce
               rauca, perché non avvezza più a parlare,
               - Diritto, diritto alla via; - Poi aveva scosso la
               testa e se ne era risalito in alto, sdraiandosi
               davanti alla porta e tirandosi i cartoni sino gli
               occhi.Non ci perdete
               più tempo - diceva l'edicolante a don Peppino,
               mentre esponeva i giornali: Non capisce niente
 E
               poi vuole stare solo - Don Peppino se ne andava non
               persuaso, con le sue idee in testa che però non
               diceva a nessuno. Tanto non lo avrebbero capito, come
               non capivano quel povero cristo, che qualcosa voleva
               pure dire con quella frase, chi sa. Forse era un modo
               suo per chiedere aiuto o conforto o fare una denunzia
               agli uomini e alla vita stesa, che certamente non
               dovevano essere stati tanto teneri con lui, altrimenti
               non si sarebbe estraniato così, li avrebbe
               cercati, semplicemente, anche per litigare soltanto,
               come facevano solitamente gli uomini.La notte,
               specialmente in inverno, la vita doveva essere ben
               dura, però, e per il freddo e per la solitudine
               e la paura di aggressione di ogni sorta perché
               di notte iniziava un'altra vita, che apriva una
               parentesi del tutto diversa dalla precedente e tra
               l'una e l'altra cadeva come un sipario, a dividerle,
               tanto che neppure le strade parevano le stesse e si
               riempivano di ombre anche se c'erano ancora le luci ad
               illuminarle. Ma d'estate non andava meglio,
               tutt'altro: d'estate si usciva di più e la
               violenza era sempre la stessa, forse anche più
               aggressiva. Pure, barbone o «pelliccia» lo
               lasciavano stare, prima perché puzzava troppo e
               poi perché non aveva niente, assolutamente,
               solo gli stracci da troglodita, sempre gli stessi, che
               indossava chi sa da quanto tempo. Perfino le donne,
               quelle che giravano la notte, lo lasciavano stare o
               gli offrivano le sigarette, quando lo trovavano
               sveglio. Ma lui si schermiva e le scansava e le
               fissava con quello sguardo che scivolava sulle cose
               senza vederle e diceva anche a loro ma a bassa voce la
               frase che diceva a don Peppino - Diritto alla
               vita
 - e le più giovani, allora
               scoppiavano a ridere - Ma è pazzo? dicevano ed
               era peggio di un insulto gridato in faccia. Qualcuna
               più anziana faceva spallucce - Lasciatelo stare
               - Non vi ha fatto niente - È un povero diavolo
               - Poi sciamavano tutte verso le macchine da dove
               provenivano i richiami e barbone rimaneva lì, a
               pensare, sul poggiolo dell'ultimo gradino della Chiesa
               e fissava la strada vuota, in pace. Nell'aria rimaneva
               il profumo insolente delle donne, che però
               sembrava fargli compagnia. Talvolta
               passava la barbona che dormiva sotto i portici della
               galleria che si apriva alle spalle della Chiesa. Era
               un barbona vecchia o vecchissima: l'età non si
               capiva perché gli stenti e la vita randagia
               potevano anche averle dati tutti quegli anni, come un
               marchio precoce ed incancellabile. Girava con un
               sacchetto di plastica appeso ad un braccio, una gonna
               variopinta a fiori e i capelli bianchi che diventavano
               di oro alle punte, un oro sporco però, come una
               tintura mal fatta. Anche lui non parlava, camminava
               per ore, percorrendo tutta la città,
               instancabile, col sacchetto di plastica al braccio e
               la gonna variopinta che le danzava attorno alle gambe.
               Lei e «pelliccia» si ignoravano, come tutti
               i barboni, del resto: vite parallele, che scorrevano
               simili soltanto all'apparenza ma che erano lontane
               anni luce, mondi separati per sempre.Negli ultimi
               tempi la notte erano accaduti e accadevano episodi
               sempre più inquietanti, spesso sfrecciavano
               come impazzite macchine di teppisti o balordi o di chi
               sa che cosa, che passavano con il loro carico umano
               vociante, che volevano litigare o divertirsi o dar
               fastidio alla gente, comunque. Assaltavano anche quei
               pochi bar o i ritrovi che trovavano ancora aperti,
               più per il gusto di distruggere e seminare
               terrore che per denaro. Naturalmente tenevano anche a
               questo perché poi era immancabile lo scasso
               alla biglietteria, alla cassa, alle macchinette
               distributrici e a qualunque cosa potesse contenere
               denaro. Ora l'edicolante chiudeva prima, la sera, e i
               camerieri e i lavoranti della pizzeria stavano sul chi
               vive e guardavano spesso la strada, pronti ad
               intervenire o a chiamare qualche volante in
               perlustrazione. Le macchine correvano come animali
               impazziti e sgommavano nel silenzio della notte, con
               il loro carico umano che spesso finiva per schiantarsi
               da qualche parte e bruciare la vita in un fumo che
               durava poco, troppo poco, anche se era il fumo di una
               vita giovane, che aveva sognato chi sa che
               cosa.Qualcuna di
               esse, talvolta, si fermava al semaforo ma non per
               rispettare il rosso che indicava, che quello che
               semplicemente ignorato, bensì per dare fastidio
               a barbone, che dormiva sotto i suoi cartoni oppure si
               aggirava come uno spettro attorno alla Chiesa,
               inseguendo i suoi incubi notturni.Lo chiamavano
               sacco di «immondezza» e ridevano oppure gli
               offrivano le sigarette ma solo per scherno, per vedere
               se era buono ad afferrarle in aria, come si fa con i
               cani, quando gli si getta qualcosa o facevano la
               proposta di «dagli fuoco», tanto per
               divertirsi un poco, se la notte era noiosa. Ma infine
               lo lasciavano stare o perché si annunciava la
               sirena di una volante che li metteva subito in fuga o
               perché non c'era gusto a tormentarlo,
               così svaporato e taciturno, senza reazione
               alcuna. E poi puzzava troppo e faceva senso perfino a
               guardarlo, una miseria totale di uomo, buono soltanto
               per il camion della spazzatura che triturava i rifiuti
               e faceva piazza pulita di essi.Una volta
               però, o anzi più volte, si erano
               avvicinati anche i «volontari» della notte,
               quelli che raccattavano per la strada i rifiuti come
               lui e li trattavano come persone normali e gli
               offrivano un pasto o un panino, specialmente
               d'inverno, o una coperta per ripararsi dal freddo. Li
               chiamavano per nome, se essi lo ricordavano e lo
               dicevano, oppure non chiedevano nulla, se mostravano
               che non volevano dare confidenze, neppure a quelli che
               volevano aiutarli. Ma Barbone non si apriva neppure
               con loro e rifiutava ogni cosa e girava loro le spalle
               e correva a rintanarsi sotto i suoi cartoni.
               Così, gli lasciavano il panino o la vaschetta
               con il pasto sui gradini dell Chiesa o accanto ai
               cartoni dove era rintanato.Una notte
               accadde un fatto che rivoltò tutto il
               quartiere: avevano sparato ad un uomo, che era morto
               lì, proprio davanti alla Chiesa, ucciso si
               diceva, da una banda rivale per la spartizione dei
               «traffici» della zona o per uno
               «sgarro» commesso. Era caduto proprio
               davanti a quella Chiesa antica che forse, in tanti
               secoli o anni, pur avendo assistito a tanti e analoghi
               delitti, un omicidio così non l'aveva visto
               mai. Perché i sicari, a quel morto, gli avevano
               quasi staccata la testa, con quelle pistole a
               silenziatore, che non facevano rumore ma che
               frantumavano la vita. Naturalmente nessuno aveva
               sentito nulla, nessuno aveva visto nulla: testimoni:
               zero, del resto la fine di quell'uomo nessuno la
               voleva fare. E poi, erano fatti «loro», che
               si erano liquidati «in famiglia» e «in
               famiglia» dovevano rimanere. Erano venute le
               forze dell'ordine, in numero cospicuo, a presidiare la
               zona e a fare indagini, oltre che, a raccogliere i
               rilevamenti del caso, ma non erano approdate ad
               alcunché. È vero che era notte e a
               quell'ora, presumibilmente, tutti dormivano ma
               qualcosa, qualcuno, avrebbe potuto o dovuto pure
               vedere o udire. E invece niente: come se il morto si
               fosse sparato da solo.Napoli e il
               rione parevano ormai diventati un deserto, quella
               notte, un deserto senza alcuna forma di vita vivente.
               Anche il pizzaiolo, che faceva a quell'ora le pulizie
               nel locale, assieme ai suoi lavoranti, ma, come aveva
               specificato, nell'interno del negozio, nel locale
               più riparato, aveva sentito o visto nulla e
               nulla poteva dire. Se qualcuno era morto requie
               all'anima sua, ma egli non sapeva niente. Dei
               possibili passanti non si era presentato nessuno e
               nessuno, del resto, si aspettava che si presentassero.
               L'unico possibile testimone poteva essere Barbone ma
               non era il caso di farci alcun affidamento. Lo
               interrogarono, comunque, per scrupolo di coscienza e
               per dovere di servizio, non che sperassero alcun che.
               E infatti Barbone non capiva, non rispondeva e tanto
               meno sapeva nulla o mostrava di sapere nulla: tremava
               tutto e non si riusciva neppure a parlargli. Le forze
               dell'ordine lo atterrivano del tutto, almeno
               così si pensò e lo resero più
               sfasato ancora, completamente fuori di
               sé.Cercò
               perfino di interrogarlo il Commissario, sui gradini
               della Chiesa, rassicurandolo e trattandolo con
               pazienza e dicendogli che non doveva temere nulla.
               Volevano sapere da lui soltanto se avesse visto
               qualcosa, o qualcuno che sparava al morto. Ma egli
               taceva, rinserrandosi tra i suoi stracci come un
               animale ferito e fuggendo a rintanarsi in qualche
               angolo, balbettando la solita frase che però
               ora gli usciva smozzicata e monca «La vita
               la vita» sembrava che soltanto quel brandello di
               parole gli rimanesse nel cervello e che ogni altra
               cosa, seppure ci fosse mai stata, gli fosse
               sfuggita.Lo lasciarono
               stare anche se il commissario rimase pensoso, forse
               perché sentiva pena per lui o perché
               inseguiva un suo pensiero lontano, che non lo
               persuadeva.Barbone era
               diventato più selvatico ancora e non rispondeva
               neppure più al saluto di don
               Peppino.Spesso spariva
               pure per qualche giorno e poi riappariva e riprendeva
               il suo posto, davanti alla Chiesa, ma era sempre
               scorbutico e come malinconico. Socievole non era mai
               stato e tanto meno allegro, ma ora appariva più
               scontroso, diffidente, come se avesse paura di tutto e
               di tutti. Ora ogni suono di clacson lo metteva in
               agitazione e sembrava un animale braccato, sempre
               pronto a scappare, in vista del
               pericolo.Poi una
               mattina d'inverno, di quelle che sanno di aria di neve
               e che sembrano tagliare la faccia per via del vento,
               fu trovato morto, sotto i cartoni. Non se ne accorsero
               subito perché credevano che dormisse, come
               sempre. Ma poiché non si muoveva da ore, cosa
               inusitata per lui che, comunque, usciva almeno per
               sgranchirsi le gambe, specialmente se faceva freddo,
               andarono a vedere che cosa gli fosse successo e
               perché non si muoveva.Pareva
               intatto, come se fosse passato dal sonno alla morte
               senza accorgersene. Ma quando lo rivoltarono, gli
               ritrovarono un foro nel polmone e una macchia di
               sangue rappreso sulla schiena. Gli avevano sparato,
               chi sa chi e chi sa quando. Poi lo avevano trascinato
               sui gradini della Chiesa e coperto sotto gli stracci e
               i cartoni, per dare ad intendere che dormisse. Si
               rivoltò in un momento tutto il quartiere:
               accorse l'edicolante, il pizzaiolo; accorsero i
               negozianti, tutti quelli che lo conoscevano e lo
               vedevano sempre lì, da anni. Accorse don
               Peppino che chiuse in anticipo il «suo
               negozio» e volle aspettare la
               «Volante», che era stata avvertita ma si era
               impantanata nel traffico, che sembrava impazzito per
               via del morto che qualcuno, pietosamente, aveva
               coperto con un telo ovvero con una tovaglia dei tavoli
               della pizzeria.Accorse pure
               don Aurelio che benedisse la salma e recitò le
               preghiere dei morti, con accanto don Peppino che
               rispondeva con il capo chino e si teneva il berretto
               di lana tra le mani. Gli altri seguivano la cerimonia
               distrattamente e gli automobilisti di passaggio, fermi
               nel traffico, si sporgevano a chiedere «Ma che
               è stato?» - «Hanno sparato ad
               uno
» -le risposte si
               perdevano nel suono assordante dei clacson, che
               parevano impazienti di riprendere la corsa, come gli
               uomini: c'era il lavoro che attendeva, c'erano gli
               impegni, la famiglia, i divertimenti, la vita insomma
               e un morto qualsiasi, un morto, comunque, non poteva
               certo fermare tutta una città: era
               un'indecenza! Solo a Napoli accadevano simili
               sconcezze! Qualcuno gridava, altri litigavano in quel
               traffico che pareva un animale cieco, sfrenato e senza
               meta.Solo don
               Aurelio e don Peppino pregavano, recitavano le
               preghiere dei morti, quietamente. Poi rimase solo don
               Peppino: gli altri tornarono a lavorare e don Aurelio
               corse in Chiesa a dire la Messa.Don Peppino
               stava ritto avanti al cadavere, con il berretto in
               mano e la testa sul petto: gli faceva compagnia. Non
               se la sentiva di lasciare solo, li, con un cane,
               mentre le macchine avevano ripreso a correre,
               indifferenti, e il semaforo smistava il traffico, come
               sempre. Sentì, dalla sirena, che era arrivata
               finalmente la Volante. Tutti i curiosi furono
               allontanati; furono interrogati i possibili testimoni
               ma anche questa volta, come del resto la prima,
               nessuno aveva visto niente. Lo avevano trovato morto
               sotto i cartoni e basta. Arrivò pure il furgone
               che avrebbe dovuto caricare il cadavere e portarlo
               all'obitorio, dopo gli opportuni
               accertamenti.Sul selciato,
               quando lo rimossero, restò una piccola macchia
               scura che qualcuno ricoprì con la
               segatura.Tolsero i
               cartoni davanti alla Chiesa e don Aurelio fece pulire
               i gradini: il traffico riprese a scorrere normalmente
               e la vita pure.Don Peppino
               ritornò a casa, piano piano. Non se la sentiva
               di riprendere il lavoro per quel giorno, e poi, ormai
               la giornata era perduta e, a quell'ora, e con il
               freddo che faceva, clienti ne sarebbero venuti
               veramente pochi, per non dire nessuno. Un'acqua gelata
               cadeva dal cielo: - «È neve
               squagliata!» - osservò qualcuno ritandosi
               il bavero fino agli occhi. Già, era neve
               squagliata, una neve che cancellava ogni cosa, anche
               la macchia che ricopriva il selciato, davanti alla
               Chiesa, anche Barbone di cui nessuno si sarebbe
               ricordato più tra qualche tempo. Don Peppino
               camminava rasente al muro, col berretto calato sugli
               occhi, scansando i passanti, che avevano fretta e lo
               urtavano nella corsa, senza neppure accorgersene o
               scusarsi. Nessuno lo aspettava, a casa. Si sarebbe
               preparato un po' di brodo o di latte caldo: aveva
               freddo, un freddo che gli penetrava sino alle ossa. Si
               sentì solo, più solo del solito.
               L'indomani non avrebbe rivisto Barbone al solito
               posto, non lo avrebbe rivisto mai più.
               «Diritto alla Vita» diceva.Si, ma a quale
               vita? Chi sa quale vita intendeva o sognava o fuggiva
               e, pure quel sogno o quell'illusione o quel desiderio,
               gli avevano spento. Oppure lo avevano liberato da un
               peso, Chi sa.Solo ora,
               forse, conosceva la pace, finalmente.Chi sa se
               forse domani non avrebbe trovato un altro barbone: il
               posto vuoto lo avrebbe occupato qualche altro come
               lui. Non lo lasciavano mai vuoto per troppo tempo.
               Forse il nuovo Barbone sarebbe stato più
               socievole dell'altro. Chi sa.Don Peppino
               sollevò gli occhi al cielo che si era
               rasserenato, come ripulito dal vento che aveva
               spezzato via le nuvole: domani, forse, ci sarebbe
               stato il sereno, lo sapeva almeno. Con l'acqua, con la
               pioggia, tutto si complicava e si sentiva di
               più la malinconia.«Addio
               Barbone» - pensò - . Era un saluto, come
               glielo rivolgeva la mattina e lui neppure rispondeva
               oppure gli faceva un cenno, come per fargli capire che
               lo aveva sentito. Si sentì più consolato
               e disse anche egli, tra sé, quella frase che
               poteva non poter dir nulla o dire tutto, chi sa. -
               Diritto alla vita, diritto a vivere -. Perché
               la vita non si sceglie di vivere. Si vive e
               basta.Guardò
               di nuovo il cielo così azzurro e terso e si
               sentì quasi intenerito, finché gli occhi
               si riempirono di lacrime, che gli solcarono la faccia,
               lentamente.Piangeva per
               sé, per Barbone, per la vita, per quella
               solitudine infinita che ognuno si porta dentro come
               una compagnia che si condivide sino alla
               morte.  |