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                     L'Appuntamento  Di tutto l'ultimo inverno mi ricordo ancora
                  di quella sera... Avevo sistemato alla meglio la cucina.
                  Ripiegato il tovagliolo, lavato i due piatti, il
                  bicchiere e la pentolina.Dopo aver dato un'ultima occhiata alla
                  Titta, che dormiva tranquilla sulla poltrona, avevo
                  preso il vecchio cappotto ed ero uscito di
                  casa.Quella di andar fuori dopo pranzo,
                  più che un'abitudine, era diventata
                  un'effettiva necessità. Un'esigenza
                  vitale.Stare in casa mi deprimeva. Favoriva il
                  vizio che avevo preso di isolarmi dalla
                  realtà, di chiudermi in me stesso; per
                  sprofondare, girovagare e perdermi nel labirinto
                  sempre più intricato del mio "io". Dove
                  molto spesso, i quesiti rimanevano senza risposta e
                  i ricordi si facevano a volte sbiaditi e
                  confusi."Il Professore", mi chiamavano ancora nel
                  condominio, anche se ormai da tanti anni non
                  insegnavo più. Eppure, come mi mancavano gli
                  alunni, la scuola..."Ti devi rassegnare." Diceva sempre la mia
                  cara Lidia. "Ora sei in pensione trovati qualche
                  cosa da fare."E cosa per esempio? Ormai avevo ottant'anni
                  e un cuore vecchio e malato. Era stupido illudersi
                  e fare il "giovanotto".Forse però, pensandoci meglio,
                  qualcosa l'avrei ancora potuta fare. Ma sì
                  dopotutto, perché non... morire,
                  magari.Come aveva fatto lei, del resto, da non
                  molto. Anzi, a volte ci speravo: "Forse non mi
                  sveglierò più, forse questa è
                  l'ultima volta che mi addormento: succede a tanti
                  di morire nel sonno!" Fantasticavo la
                  sera.Invece al mattino, i rintocchi della pendola
                  mi svegliavano alle sei, come al solito. Ed era
                  penosissimo constatare ancora una volta che ero
                  solo e che Lidia se ne era andata per
                  sempre.Solo nel pomeriggio mi sentivo un pò
                  meglio, meno triste, meno vecchio... benché
                  spesso, guardandomi nello specchio dell'ingresso,
                  così imbacuccato nella sciarpa, col cappello
                  calato sugli occhi, non potevo fare a meno di
                  pensare: "Che razza di coglione!" Poi sbattevo la
                  porta, me ne andavo; uscivo.Iniziava così il mio
                  vagabondaggio-urbano-quotidiano. Tra le strade
                  lastricate e le piazze, all'ombra dei palazzi
                  antichi e tra i ruderi; lungo i giardini e le mura
                  etrusche della mia città: Volterra.Il mio vagabondare in ogni modo, pur non
                  avendo una meta precisa, mi portava sempre,
                  comunque, ogni volta, nel solito luogo. Nel Parco
                  del Castello.Quel posto era per me come la calamita per
                  l'ago di una bussola. Anche se nemmeno io ne capivo
                  la ragione. In ogni modo, dal momento che uscivo di
                  casa, sapevo che i miei piedi, passo dopo passo, mi
                  avrebbero portato là. Nel Parco. Già il sole lambiva le colline
                  all'orizzonte, quando in quella fredda sera
                  d'inverno, arrivai in prossimità della mia
                  zona preferita.La tramontana soffiava impetuosa, gelida, e
                  se non fosse stato per la mia testardaggine, forse
                  avrei fatto un bel "dietrofront" e me ne sarei
                  andato. Ma, ero stato famoso tutta la vita per il
                  caratteraccio cocciuto e lunatico; e non avevo
                  nessuna intenzione di smentirmi proprio alla fine
                  dei miei giorni. Così mi strinsi nel
                  cappotto e proseguii fino a raggiungere il punto
                  del Parco che preferivo: un lembo di prato
                  racchiuso da una siepe di piccoli lecci. Al centro,
                  scolorita, una panchina solitaria.Il paesaggio era quello di sempre. La
                  Fortezza, dalle mura color ocra, si ergeva ancora
                  immutata, imponente, nel cielo cristallino e
                  risplendeva nella debole luce rosata del tardo
                  pomeriggio. La città, che si adagiava,
                  allargandosi intorno al Parco, era tutta una
                  successione di tetti e torrioni; bastioni,
                  campanili e macchie di vegetazione.Tutto era identico a come l'avevo visto il
                  giorno prima. Non c'era niente di diverso in quel
                  paesaggio che ormai conoscevo a memoria. Allora
                  come mai, provavo uno strato senso d'inquietudine,
                  una sottile angoscia? In fondo era solo un
                  banalissimo giorno di un banalissimo mese.Mi sedetti sulla vecchia panchina. Proprio
                  dinanzi a me, all'orizzonte, il fenomeno che sempre
                  mi commuoveva stata per avere il suo epilogo.
                  Ancora una volta, il maestoso globo rosso era
                  prossimo a svanire tra le morbide colline toscane.
                  Un altro giorno stava per compiersi, per
                  concludersi. Di nuovo, un altro breve periodo di
                  luce era alla fine. E presto il denso manto viola
                  del crepuscolo avrebbe offuscato ogni
                  cosa.Totalmente immerso nei miei pensieri, non mi
                  ero accorto della donna seduta accanto a me, sulla
                  panchina. Che ci facesse, non lo so. In ogni caso
                  la cosa non mi piacque affatto. Quello lo
                  consideravo il "mio" territorio, il "mio" spazio
                  privato, in cui amavo stare in solitudine e di
                  intrusi non ne volevo. Su questo ero
                  categorico.Non so come si fosse trovata lì. Di
                  certo non l'avevo vista arrivare. Forse,
                  ripensandoci devo aver udito solo un leggero
                  fruscio; quello si, ma null'altro.Innervosito, le detti una sbirciatina di
                  traverso: sembrava giovane, anche se non vedevo
                  bene il suo viso, in parte celato da una maschera.
                  Notai anche, che indossava un abito lungo, scuro;
                  ed i capelli erano nascosti da una strana parrucca
                  stile antico. Quel suo bizzarro abbigliamento
                  però, non mi stupì; sapevo che quello
                  doveva essere l'ultimo giorno del Carnevale.
                  Difatti, dalla Piazza vicina arrivavano musica e un
                  gran baccano.Se ne stette per un bel po' lì,
                  immobile. Seduta al mio fianco senza dire una
                  parola. Mentre rimurginavo fra me e me, sempre
                  più incollerito: "Io, questa non la conosco.
                  Cosa sta a fare qui?, accanto a un vecchio; che se
                  ne vada là in Piazza, con gli altri, a
                  divertirsi; a far baldoria, a festeggiare la fine
                  del Carnevale. Altrimenti a che le serve la
                  maschera?"Stavo ancora elaborando questo mio pensiero,
                  quando inaspettatamente, sentii la sua mano
                  appoggiarsi sulla mia spalla."Ah!, allora ho capito, pensai. Questa vuole
                  solo provocarmi, ormai è evidente. Ma certo,
                  le ragazze d'oggi hanno provato di tutto; tante di
                  quelle esperienze, che sono sempre alla ricerca di
                  qualcosa di nuovo, d'insolito. Perché no,
                  allora. Perché non provarci con il
                  vecchietto? Ma non aveva fatto una buona scelta. Di
                  sicuro non mi sarei fatto schernire da
                  lei."Mi girai per mandarla a quel paese, ma la
                  sua espressione mi ammutolì; perché
                  ravvisai in quegli occhi, stretti a fessura, freddi
                  e vacui. Infossati nelle palpebre grinzose, lo
                  sguardo truce e beffardo di colei che a volte avevo
                  invocato. Non so come lo capii. Fu un impulso
                  penso, l'intuizione di un attimo... quella donna, o
                  quell'essere, o quella cosa, per meglio dire, non
                  si trovava lì per caso. Aspettava
                  me! Ma sì, dopotutto era quello che
                  desideravo; smettere di lottare con la vita ogni
                  giorno, abbandonarmi, addormentarmi: morire. In
                  quel momento estremo, quasi mistico, provai
                  fisicamente tutta la sensazione del mio disagio,
                  della solitudine... della vecchiaia. E quando essa
                  cinse, con un braccio le mie spalle, fu quasi
                  naturale per me rilassarmi: lasciarmi andare.
                  Appoggiare la testa contro il suo petto. Del resto
                  ormai ero solo una vecchio... un vinto.E poi, a conti fatti, avevo vissuto la mia
                  vita, che non era stata poi tanto male. Gli ultimi
                  anni avevo sofferto; è vero, specialmente
                  dopo che Lidia mi aveva abbandonato; ma nonostante
                  tutto, anch'io avevo avuto delle
                  opportunità. Anche a me era stato concesso
                  un lungo periodo di luce. Stavo cedendo, ed essa lo intuì e
                  strinse con più forza il mio corpo. La
                  guardai: il suo volto era distorto in un ghigno
                  trionfante. Come sempre stava vincendo: anche quel
                  giorno avrebbe avuto, ancora una volta, e senza
                  fatica, il suo tetro bottino. Ma il cielo davanti a
                  noi sfolgorava di arancio, rosso e viola:
                  un'esplosione incredibile di energia, luce e
                  colore.Su di me, quello spettacolo suggestivo, ebbe
                  come l'effetto di un balsamo, che mi pervase e
                  rianimò: "No! Non potevo... non volevo
                  morire. Non ancora."Liberandomi a fatica da quel viscido
                  abbraccio, mi alzai. E m'incamminai incerto
                  giù, lungo il sentiero che portava in
                  città. Lei però non si arrendeva, mi
                  stava dietro; sentivo il frusciare del suo abito
                  tra l'erba. Vicinissimo a me.Accelerai per quanto potevo il passo,
                  addirittura provai a correre, incurante del dolore
                  alle gambe. Finché arrivai all'uscita del
                  Parco. Lì, sfinito e col cuore in tumulto,
                  mi fermai a riprendere fiato.Scrutai tra gli alberi e i cespugli, ormai
                  neri nel crepuscolo, ma non la vidi. Non la vidi
                  mai più. Dietro al Palazzo del Comune sorgeva la luna
                  piena e risplendeva luminosa nel cielo limpido.
                  Attraversai la Piazza dei Priori; era deserta. Il
                  Carnevale era finito. Solo un pallido Pierrot mi
                  venne incontro, abbozzò un goffo inchino e
                  poi scomparve nell'ombra di un vicolo.Il vento del Nord si era un poco placato,
                  respirai profondamente, godendo dell'aria fresca
                  della sera; abbottonai il cappotto e decisi di
                  andare a casa. 
 
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