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               Aprile
               1945
 Non si sa per quale bizzarria del destino successe
               tutto solo poche ore dopo che quel desiderio proibito
               le era affiorato alle labbra, rigurgitato da
               chissà quale recesso dell'anima, se era
               dall'anima che veniva una richiesta così. E
               posto che lei avesse un'anima. Lo andava mormorando ad
               occhi chiusi, la testa sul petto e le mani giunte
               mentre il parroco salmodiava le litanie della domenica
               in albis e i fedeli infreddoliti lo seguivano
               avventurandosi in ardimentosi distici latini - o che
               almeno sarebbero dovuti sembrare tali. Barlumi di
               fiamma tremolavano dai candelabri in penombra,
               l'incenso si spandeva nell'aria gelida, salendo a
               ondate verso la volta affrescata, fulgida di putti e
               di madonne oranti. La monotonia quaresimale della
               novena pasquale esplodeva in un tripudio scomposto di
               alleluia. E i pensieri di Linda fluttuavano verso
               orizzonti misteriosi, palpitanti di desiderio. Oh
               sì, qualche santo l'avrebbe esaudita.
               Perché no? In fondo anche lei era come tutte le
               altre. Bastava chiudere gli occhi. E non ascoltare le
               voci della gente cattiva. Chi non si può
               benedire non si deve maledire.
	La
               sera dopo, come sempre, fu spedita in montagna, a
               portare da mangiare ai carbonai. 	Linda
               non ha paura della notte né della montagna.
               Conosce i sentieri e vi si arrampica saltellando sulle
               gambe magre come uno stambecco, anche se la notte
               è senza luna. Anche se la luna, come adesso,
               è coperta da nuvole basse e ti devi
               accontentare del riverbero. Dalle nuvole scende una
               pioggerellina fitta fitta. Acqua minuta bagna e non
               è creduta. Menomale che ha messo gli zoccoli,
               che non si rovinano con la pioggia e può
               toglierseli facilmente quando il terreno si fa ripido
               e scivoloso e pazienza se i piedi diventano lividi
               come bistecche. I carbonai sono seduti con la schiena
               alla parete dello stavolo e formano un'ombra nera sul
               muro grigio. Girano appena la testa, senza un sorriso,
               quando la vedono arrivare. Dalla carbonaia esce un
               fumo argentato. Quando riparte ha in tasca qualche
               lira e nella pancia una fetta di lardo e un paio di
               bicchieri di merlot che gli uomini hanno insistito per
               farle bere. La pioggia continua a cadere, fine e
               silenziosa. Così lieve da sembrare sospesa in
               aria. Nella pancia quasi vuota il vino si fa sentire.
               Linda scivola una paio di volte sul terreno vischioso
               ed è contenta quando sente muggire una mucca
               perché sa che il paese è vicino anche se
               l'oscuramento l'ha reso invisibile. Se aprile mette il
               muso fuoco acceso e uscio chiuso. Certo che non si
               aspetta che proprio adesso quel burlone di
               Orcolàt si metta a farle gli
               scherzi.	Un
               bagliore la investe violento e improvviso. Sbatte le
               palpebre, si ripara gli occhi, annaspa, si gira verso
               la luce e riesce ad intravedere una sagoma scura che
               le punta una torcia contro. Nient'altro. Chi
               sei, chi sei? Cosa vuoi? E, mentre quello risponde
               signorina no problema, gut, gut, choro_o, si sbilancia
               e scivola di nuovo a terra. Non sa se deve avere paura
               o no perché, adesso che ci vede un po' meglio,
               ha capito che quello che le sta davanti è uno
               dei mongoli della Catìn. È quello
               giovane con un braccio solo. Quello bello e triste. Sa
               che si chiama Gàrik perché quando va
               dalla Catìn a imbastire vatniki e kosovorotki,
               che sarebbero le giubbe e le camicie dei cosacchi, lo
               incontra spesso e una volta si sono presentati. Fa le
               ronde la notte, a caccia di partigiani, e il giorno lo
               passa a fumare la pipa nella cucina della sarta che
               adesso è una specie di dormitorio in cui
               passano il tempo una mezza dozzina tra adulti e
               bambini. Per terra c'è un po' di tutto: foglie,
               erba, paglia. Ci stendono sopra un tappeto e su quello
               dormono. Sono animali, bestie selvatiche. Puzzano di
               sudore, aglio, verze e cipolla, che i pochi vestiti li
               tengono insieme alla roba da mangiare dentro i
               cassetti e passano le ore ad accarezzare e a
               strigliare i cavalli. Ogni tanto ci salgono sopra e
               fanno trr...trr. Il cavallo parte al galoppo e loro ci
               stanno aggrappati, senza sella, senza briglie. Sono
               talmente bestie che una volta hanno provato a fare la
               stessa cosa con la bicicletta trr...trr.  Che non
               l'avevano mai vista una bicicletta e non sapevano
               cos'era. Trr...trr e uno di loro è quasi finito
               contro un muro. Quanto aveva riso allora! Da farsi la
               pipì addosso.Adesso è lui che ride forte tenendosi la pancia
               con la mano. Il Mancin, lo chiamano. Con quella mano
               sa fare di tutto. Scrive, cavalca, suona un piffero
               dalle note tristi e spara ai partigiani. Quando
               è solo si siede al tavolo lungo che serve per
               tagliare le pezze, tira fuori una specie di taccuino e
               compita mormorando lunghi elenchi di parole. Poi
               solleva la testa dal quaderno, bagna la punta del
               lapis con la lingua e alle lavoranti, ai clienti
               impacciati che entrano con in mano i calzoni da
               rammendare, a tutti quelli che gli passano a tiro
               domanda che nome questo? che nome quello? indicandolo
               con il dito. Le ragazze ridacchiano e dicono questo
               tavolo, quella stufa. Quello che gli dicono lo
               trascrive, ma le parole sembrano diverse in quel suo
               strano alfabeto. Talvolta, per curiosità,
               chiedono e in rusko? Lui sillaba lentamente le parole
               e gliele fa ripetere. Però loro non prendono
               nota come fa lui con il lapis inumidito e cinque
               minuti dopo se le sono già dimenticate.
               Gàrik vorrebbe sapere come si dice pobeda,
               svoboda, rodina, ma non può indicarle con il
               dito perché sono la vittoria, la
               libertà, la terra - madre. E questo gliele fa
               sentire ancora più lontane e inaccessibili. E
               allora si rabbuia e mormora tutto finito, kazaky
               kaputt! guardando fisso negli occhi le ragazze che se
               ne stanno lì impalate senza sapere cosa
               dire.
Signorina, propusk, papir prego! Dice con un inchino.
A
               Linda monta la rabbia a vedere la scena in piena luce:
               lei con le gambe all'aria, i piedi luridi, i vestiti
               inzaccherati, il muso nero di fumo, il sedere
               dolorante e lui che ride e vuole il lasciapassare.
               Allora la paura le passa. Si alza inferocita e gli si
               avventa addosso per morderlo, graffiarlo. Pensa adesso
               mi pesta a sangue, ma lui continua a ridere e si
               difende come può. Quando vede che non reagisce
               lo prende a calci e pensa adesso mi ammazza, ma lui,
               alto, imponente, ride sempre e i suoi denti
               incredibilmente bianchi scintillano nel buio fino a
               che, d'improvviso, tutto si ferma. Da
               lontano è arrivata l'eco di una voce, tante
               voci, che si avvicinano minacciose. Partizany!
               davaj, davaj, andare! Sussurra lui. Poi l'afferra per
               un braccio e la trascina con sé. A pochi passi
               c'è un fienile: quattro mura, un tetto
               sfondato, finestre murate e una porta marcia ma
               sprangatissima che resiste ai suoi calci. Non si vuole
               aprire. Kljuch! le sussurra e lei capisce che vuole la
               chiave. Intanto le voci si avvicinano, voci concitate.
               Qualcuno urla qualcosa, altri tentano una corsa nel
               buio del sentiero. Kljuch!  È una parola!
               Allora si mettono a sollevare tutte le pietre
               lì attorno, a far scorrere la mano dentro gli
               anfratti nel muro di pietra. E davvero lei non
               saprebbe dire perché lo fa. Basterebbe scappare
               nel buio, gridare. I partigiani sono tanti, lui
               è solo. E nemmeno Gàrik, dal canto suo,
               è convinto di quello che sta facendo. In fondo
               è il suo mestiere quello di stanare banditi.
               Una voce gli dice di correre in paese ad avvisare gli
               altri. Ma non lo fa perché ce n'è
               un'altra che viene da chissà dove e gli dice
               che non esistono solo le nobili cause e gli alti
               ideali, quelli che richiedono sacrifici supremi o
               sprezzo di ogni regola, che ti elevano oltre l'umano o
               ti precipitano nell'abisso, a seconda da che parte li
               guardi. Esiste anche l'infimo che è più
               piccolo solo perché è un po' più
               profondo e tante volte non lo si riesce a vedere da
               tanto è lontano. Intanto
               i partigiani hanno cominciato a puntare le torce.
               Pensano che se si trattasse di tedeschi avrebbero
               già sparato. Una certa diffidenza da animali
               braccati li spinge a rimanere ancora acquattati. Poi
               annusano l'aria controvento e sentono un odore
               familiare, l'odore della paura. Allora avanzano
               circospetti gridando alt, fatevi riconoscere! Il
               fascio di luce delle torce oscilla sopra le teste di
               Gàrik e di Linda, sempre più vicino,
               fino a sfiorarli. Mentre continua a sollevare le
               pietre, Linda prega perché non arrivino,
               perché la guerra se ne stia lontana per una
               volta. Lontana da lei. E piange di rabbia
               perché capisce che, invece, tra qualche minuto
               sarà tutto finito: lo ammazzeranno e lo
               lasceranno decomporre in qualche gora o in qualche
               dolina come hanno fatto con quelli che hanno preso
               dopo che i tedeschi e i cosacchi avevano ammazzato il
               Fulmine e il Pacca e li avevano appesi a un cornicione
               con il cartello Banditen! E allora alza le mani per
               farsi riconoscere e dargli il tempo di scappare.
               Già
               li vede mentre le dicono ah, sei tu, corri a casa che
               è meglio, le altre ragazze non vanno in giro a
               quest'ora. È pericoloso. Lei
               alza le spalle e sibila tanto a me nessuno mi prende
               che se qualcuno mi viene vicino lo faccio scappare.
               Ti
               avrebbero preso le piccole figlie del sacro cuore di
               Gesù e di Maria se non fossi tanto insolente e
               sfacciata, dicono. A
               me non interessa andare con quelle, che mi fa anche
               impressione essere la figlia di Gesù e di
               Maria, ribatte. Improvvisamente,
               sotto la centesima pietra compare la chiave, grande e
               lucente come quella del paradiso. Allora la scena si
               dissolve in un attimo e Linda si ritrova dentro,
               accovacciata contro l'angolo del fienile, con il viso
               tra le ginocchia e le mani sulla testa mentre
               Gàrik fa girare piano la chiave nella toppa. Si
               sentono i passi che si avvicinano, poi i colpi secchi
               degli scarponi contro la porta. Ad ogni colpo il cuore
               se ne salta su e giù dallo stomaco alla gola.
               Poi i passi si allontano e si sente solo il muggito
               lontano. Per un tempo interminabile restano fermi e
               muti come statue, concentrati sul proprio respiro.
               Oltre il tetto sfondato, le nuvole si sono alzate
               sfilacciandosi e ha smesso di piovere.Mucca,
               dice lui rompendo il silenzio, korov. Sta
               male, gli risponde Linda. Male, nein gut, niet
               choro_o.E
               si chiede che senso abbia stare lì a cercare di
               spiegare ad un russo che se una mucca chiama in piena
               notte è perché deve sgravarsi o ha fame.
               Linda
               fa il gesto di afferrare qualcosa e gli spiega ha fame
               perché voi zac! cap-carap! E tutto il fieno...
               via! Lui
               sorride e si vedono i suoi denti brillare alla luce
               della luna che filtra tra le assi del
               tetto.
               Nostri cavalli grandi e vuole tanto fieno, tanto,
               ripete sorridendo. Linda,
               che non si è mossa dal suo angolo, lo segue con
               gli occhi mentre si siede vicino a lei e tenta di
               accendersi la pipa. Allora lentamente allunga un
               braccio, gli sfila la scatola dalle labbra e il
               fiammifero dalle dita. Quando le loro mani si sfiorano
               pensa mio dio no, non è possibile. Chi
               può essere quel santo così pazzo da
               presentarmi un uomo così? Un miserabile tra i
               miserabili che non hanno neanche il fazzoletto per
               soffiarsi il naso e se lo soffiano stringendolo con le
               dita. E poi c'è una legge in proposito, una
               legge non scritta ma più ferrea che se l'avesse
               scritta dio in persona. Cosa fanno a quelle che
               beccano con un cosacco?La
               luce del fiammifero rischiara per un attimo i loro
               visi e le dita di lui che sfiorano il corpo di Linda
               percorrendolo dal basso all'alto. Piede, sussurra,
               gamba, pancia, mano, braccio. E poi le sue dita
               arrivano al viso, ma lui non si ferma e continua il
               ripasso. Scandisce ancora bocca, guancia, naso,
               occhio, anche se tra la bocca e l'occhio destro di
               Linda non c'è una guancia ma una macchia rugosa
               e violacea. E poi mormora ochi chernye, anche se la
               macchia ha invaso la palpebra e le ha lasciato solo un
               lungo solco umido, una linea di sangue tra l'occhio e
               quella specie di guancia. Ochi chernye, ochi strastnye!
Ochi
               zhguchie i prekrasnye!
	Quando
               Gàrik la bacia è convinta che il mondo
               stia per finire e invece la terra non si apre, lingue
               di fuoco non escono dai crepacci per ghermirla e
               trascinarla all'inferno. Il cielo non si scatena e
               l'universo non sprofonda. Allora è lei a
               baciarlo e la terra comincia a girare,
               girare...Krutitsja, vertitsja _ar goluboj, krutitsja,
               vertitsja nad golovoj... Gira e volteggia il globo
               terrestre, gira e volteggia sopra le teste, gira,
               volteggia, vuole cadere, rapire vuol la dama il
               cavaliere! Ecco la via, ecco la casa, ecco la dama da
               me amata.Linda
               pensa se proprio il mondo non vuole sprofondare almeno
               se ne resti immobile per un po'...E
               anche noi adesso ci fermiamo per un po'. Da questo
               momento non c'è nulla che il narratore sia
               tenuto a raccontare. Non direbbe niente di più
               e di più bello di quello che il lettore
               può immaginare da sé.
	Quando
               Linda apre la porta di casa non trova la madre ad
               aspettarla. È nella stalla a mungere.
               Pioveva,
               le dice, e mi sono fermata a dormire dai carbonai. Poi
               le consegna i soldi. La madre non dice niente. Non le
               capita mai di avere paura che sua figlia non torni. Se
               è segnata ci sarà un motivo. Bella
               faccia il cuore allaccia, faccia brutta il diavolo ci
               si butta. E con certe protezioni vai tranquilla. Linda
               si carica il piccone in spalla e va da quelli della
               Todt. Gli ufficiali la squadrano da capo a piedi e gli
               viene da ridere a vedere quella Mädchen tutta
               pelle e ossa con il piccone in mano. Ma non ridono
               perché gli adulti sono tutti in montagna o
               chissà dove e con quei quattro vecchietti
               spelacchiati che compongono le squadre le
               fortificazioni non vanno avanti. E allora ben vengano
               anche le ragazze. Se non sono belle, tanto meglio,
               così non distraggono gli altri operai. Ogni
               sera, mollato il piccone, Linda sale in montagna con
               il formaggio per i carbonai e al ritorno, nel fienile
               della prima notte, c'è Gàrik ad
               aspettarla.Finché,
               un giorno di fine aprile, quello che doveva succedere
               succede e, al risveglio, Linda scopre che i cosacchi
               se ne sono andati. Un lungo serpentone umano percorre
               lentamente le arterie della pedemontana verso i
               valichi alpini con l'Austria. Carri, cavalli, soldati,
               donne e bambini affrontano l'ennesima ritirata.
               Destinazione: ignota. Poi
               arriva concitato un ragazzo da un paese vicino a dire
               che il Mut è morto. Qualcuno
               l'ha visto andare incontro ai cosacchi in fuga con i
               suoi tiri da matto. Al solito, gesticolava e grugniva
               come una bestia, racconta. Quelli chissà
               cos'hanno pensato, magari si sono spaventati e lo
               hanno ammazzato. Ho visto uno di loro caricare il
               mitra e sparare. Era senza un braccio,
               credo.Linda
               non vuole sentire niente né pensare a niente.
               Chiude gli occhi e vede la luna scivolare piano tra le
               assi del tetto sfondato. Quando vengono a dirle che li
               hanno presi tutti, quelli che hanno ucciso il Mut, e
               che i partigiani li hanno fucilati lì
               dov'erano, lei vorrebbe morire invece prende il
               piccone e va in cerca di quelli della Todt.  Quando
               vede che non c'è più nessuno, lo chiede
               ai partigiani dov'è che devo
               scavare?Lui le ha lasciato la scabbia, qualche rublo e il suo
               notes delle parole: dozhd, pioggia; vojna, guerra; do
               svidaniya, arrivederci; prosti menya moya lyubov',
               perdonami amore mio; pochemu?
               perché?...
Perché?
               perché? Oh se almeno non l'avesse lasciata
               così sola! Se le avesse lasciato anche un
               bambino! Fino a che non arriva il marchese lei ci
               crede ancora a quel figlio e fantastica su come
               sarà e non sarà. A volte le sembra di
               sentirlo muovere dentro. Poi, quando l'illusione
               svanisce, corre a nascondersi nei campi, si rifugia
               tra le viti che stanno germogliando appena e, per la
               prima volta in vita sua, piange e maledice a voce alta
               il mondo intero e tutti i santi del paradiso. I
               fagiani fuggono via spaventati in un frullio d'ali, le
               lepri corrono a rifugiarsi nelle tane, le volpi
               drizzano le orecchie e annusano l'aria facendo vibrare
               i lunghi baffi. Fino a che, in lontananza, non le
               sembra di scorgere, attraverso le lacrime, i cammelli
               dei cosacchi. Sono tanti, decine, centinaia. Camminano
               morbidi e lenti e si fermano qua e là a
               rosicchiare le foglie dei meli e dei sambuchi. Chiude
               gli occhi e quando li riapre i cammelli sono spariti,
               e anche i singhiozzi. Pensa chi non può
               benedire non deve maledire e riprende la strada di
               casa.Molti anni sono passati da quell'aprile del '45 e
               Linda è tornata tante e tante volte in quel
               fienile di notte e mai da sola. A quei rubli si sono
               aggiunte le poche lire che giovani finiti a fare il
               militare nelle caserme della zona le hanno lasciato e
               che lei non ha mai toccato. Sono giovani malinconici,
               malati di nostalgia e di noia per i quali una macchia
               in più o in meno nel simulacro del loro
               desiderio non fa nessuna differenza. Quando poi ha
               deciso che era arrivato il momento, ha arrotolato le
               banconote e le ha mandate alle figlie del sacro cuore
               di Gesù e di Maria. Per le opere di bene,
               c'è scritto nella busta. Infine, ha preso la
               grande chiave lucente e l'ha gettata nella gora
               più vicina.
Quando,
               l'anno dopo, ha saputo che un istituto per ciechi
               cercava una cuoca, ha comprato il più bel libro
               di cucina in commercio e ha deciso che, se aveva fatto
               l'operaia per la Todt, poteva fare anche la
               cuoca.Oggi si sente vecchia e stanca e vorrebbe smettere di
               lavorare, ma sente anche che la sua vita è
               lì, in quella cucina, tra le mura imponenti
               dell'Istituto per non vedenti G. Tolazzi. Fuori di
               lì, senza il rimbombare dei passi negli immensi
               corridoi, il ticchettio dei bastoni lungo i muri o
               quello del punteruolo nei block notes, senza gli
               arpeggi degli allievi al pianoforte, l'esplosione
               policroma delle aiuole in primavera, l'odore
               inebriante delle robinie e quello aspro di sugo e di
               fritto che filtra dalla cucina, ma soprattutto senza
               le carezze di tutti quei bambini dallo sguardo spento,
               si sentirebbe persa. Ormai non pensa quasi più
               a quel lontano aprile dopo che per tanti anni il
               ricordo doloroso di quei giorni l'ha accompagnata come
               un'ombra stesa sulla sua vita e sulla sua
               capacità di percepirla. Solo ogni tanto, quando
               sa di essere sola, si toglie il grembiule, va verso la
               credenzina con i vetri smerigliati e, da una scatola
               piena cartoline provenienti da tutta Italia, ne sfila
               una sbiadita e consunta. Porta il timbro di Lima, e
               mostra l'immagine in bianco e nero di un paesino
               innevato delle Ande. È datata 1950. Nel testo
               si legge, in cirillico, Zapomni menya ochi chernye,
               Ricordami, occhi neri.
 
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