- Tratto
dal libro "Sussurri dal
passato"
(Mama editore)
-
- La vita non
è già più mia.
- Fugge da me,
vecchio pazzo, malato di mille mali,
perché,
- seppur l'abbia a
lungo amata, ormai non riesco che a ricordarla.
- Là fuori,
oltre i campi arati dei miei giorni,
- altri stanno
aspettando che arrivi con il suo vestito da sposa
di pizzo bianco.
- Nulla sapranno
di me, di lei, di noi,
- e avranno il
plagio di credere di essere stati i primi a
possederla
- o gli unici a
capirla o gli ultimi a perderla.
- Mi lascia,
concedendomi ugualmente la purezza di questo
istante
- in cui le
immagini del nostro passato si dileguano, senza
lacrime di rimpianto,
- nella notte
della morte.
- ...
- Sto piangendo,
Gianpilu. Ho il cuscino e la mia vecchia
faccia
- inondati di
lacrime, e ti abbraccio, come allora,
- sulla panchina
nel cortile del collegio.
- ...
- Oh, Gianpilu,
come potevo sapere che la morte ti
aspettava
- là dove
mare e cielo si confondono,
- là dove
le impronte delle nostre vite si separavano
e,
- profumata di
salsedine, ti avrebbe portato via da me per tutti
questi anni.
- ...
- Sabbia tra le
dita furono i giorni, i nostri giorni trascorsi a
passeggiare
- sulla sterminata
distesa della spiaggia, a sfidare il vento,
- a cercare
conchiglie, a nasconderci dietro le
dune,
- a seguire il
volo dei gabbiani, a ridere di noi,
- dei nostri
calzoni arrotolati fino alle ginocchia,
- delle nostre
scarpe all'improvviso barche riportate a riva dalle
onde del mare.
- ...
- Gianpilu
posò la testa sulle ginocchia e lo sentii
ridere della disperazione
- dei suoi
pensieri.
- ...
- ... Non ebbi
tempo per capire. Vidi le labbra di Gianpilu
aprirsi
- al fluire del
suo stesso sangue, i suoi occhi accendersi di una
speranza assurda
- e la vita
fuggirgli.
- ...
- In una
città che aveva fretta io, drogato di ieri,
vedevo ancora
- il volo dei
gabbiani sulla spiaggia deserta.
- Talvolta qualche
moneta pioveva nel mio cappello.
- Con un cenno del
capo ringraziavo la mano sconosciuta.
- Aspettavo il
giorno in cui la mia vita avrebbe cessato di
trascinarsi
- sui marciapiedi
e le guglie del Duomo si sarebbero frantumate
- nei miei occhi
vitrei.
- Nulla sapevano
di me i barboni tra i quali mi mescolavo la
sera
- per dormire sui
gradini della stazione,
- dove Gianpilu
era l'unico angelo in quell'inferno di carta
straccia
- e di bottiglie
vuote.
- Ma in un tardo
pomeriggio di dicembre, Lucio Cassani, amico di mio
padre
- nonché
suo consulente, gridò forte il nome che
portavo
- e il fantasma
del conte Alberto Della Croce si inabissò
nelle acque del Naviglio.
- ...
- Nel silenzio
della notte scivolano i rintocchi del
campanile.
- E' mezzanotte:
l'ora degli amanti e degli ubriachi.
- E' l'ora che
precede la mia fine.
- ...
- La mia presenza,
poiché inconsueta, nell'osteria del paese
suscitò inizialmente
- una specie di
falsa indifferenza, o forse riverenza, non
so:
- i giocatori di
carte cercavano di contenere gli scatti irosi in
ridicoli sussurri,
- i giovani amanti
rimandavano al buio dei portoni i baci e le carezze
audaci
- e il gestore si
preoccupava di chiudere il colletto della
camicia
- prima di
raggiungermi al tavolino per
l'ordinazione.
- Ma dopo alcune
sere mi accorsi che la mano sorniona
dell'abitudine
- aveva steso il
suo velo opaco su di me e finalmente vidi
occhi
- che non mi
vedevano più.
- Così,
liberato dal guinzaglio del disagio, potevo correre
a perdifiato
- fra le nebbie
dell'ubriachezza, fermarmi all'improvviso per
- fiutare le
tracce dei momenti più cari sul terreno
umido di lacrime
- del passato e,
come per incanto, ritrovare negli anfratti della
mente,
- con il profumo
dei ginepri, qualche parola che avevo dimenticato.
- <<Ah,
memoria puttana!>> gridavo, pazzo di una
gioia illusoria.
- Ma, mentre
stringevo ancora nel palmo della mano il prezioso
ricordo ritrovato,
- ecco,
inevitabilmente alzarsi in volo l'uccello nero
della morte e
- intrappolato nei
suoi terribili artigli, vedevo spegnersi il destino
di Gianpilu.
- Allora la gioia
diveniva la più atroce delle
sofferenze
- e io potevo
soltanto abbandonarmi ad un pianto silenzioso,
privo di sogni.
- Oh, no, non si
curavano di me i giocatori di carte, i giovani
amanti,
- il gestore
dell'osteria. Mi lasciavano là,
- seduto al solito
tavolino di ferro laccato di rosso,
- a delirare, a
maledire il destino, a disprezzare me
stesso
- per non essere
stato in grado di salvare la vita a Gianpilu.
- Sollevando il
capo dall'ennesimo bicchiere, scorgevo il bastardo,
- fermo sotto la
luce dei lampioni, deformato nelle spirali delle
nebbie,
- che mi aspettava
dietro comando della premurosa Angelina per
ricondurmi a casa.
- E io tornavo a
lui come un padre miserabile e ubriacone.
- ...
- <<Mamma...>>
- Giaceva sul
letto, come rapita da un sonno improvviso.
- La guardavo e
scoprivo per la prima volta sul suo viso il lavorio
corrosivo del tempo.
- Non restava che
una vaga traccia della bellezza
posseduta.
- Era penoso
intuire l'incredula tristezza con la quale doveva
aver assistito
- al cedimento
della carne, il pianto segreto al quale si era
sicuramente abbandonata e,
- tuttavia, era
confortante ricordare la forza con la quale aveva
resistito
- agli attacchi
della rassegnazione, la perseveranza cosmetica alla
quale
- si era
aggrappata per ricreare sulla pelle sfaldata dalla
vecchiaia
- una luce di
giovinezza.
- ...
- Mangiavo di
rado, suscitando l'apprensione di Angelina che mi
inseguiva
- nelle stanze del
mio dolore con pietanze prelibate per
- stuzzicare un
appetito svogliato.
- Mi nascondevo
nelle cantine, dove la grande e accurata riserva di
vini
- rappresentava
ancora il vanto di un nonno mai conosciuto.
- Stappavo una
bottiglia dopo l'altra, affogavo in un mare di
ricordi,
- gridavo tutto il
male che mi dilaniava il cervello e finivo per
addormentarmi
- coperto dal mio
stesso travaglio di stomaco.
- Al risveglio
tornavo da Angelina e piangevo sul suo petto
l'infanzia
- che mi era stata
negata. Lei sapeva cullare il pianto, mi asciugava
il volto rugoso,
- mi teneva la
mano mentre mi conduceva in bagno, mi faceva
immergere nell'acqua
- profumata di
estratti alle erbe che lei stessa preparava e,
cantando dolcemente,
- mi lavava, mi
tagliava le unghie, mi radeva, mi pettinava i
capelli giý lunghi
- legandoli dietro
la nuca con un nastro nero.
- Mai le
fuggì dalle labbra un lamento di stanchezza,
mai si concesse una lacrima disperata.
- Con inesauribile
pazienza e umiltà accettò lo scherzo
di un destino
- che le aveva
riservato, sul finir della vita, la vergogna di far
da madre
- ad un vecchio
conte impazzito.
- Il bastardo mi
aspettava sul molo, felice di lanciare la sfida
malandrina
- che consisteva
nel confrontare i getti della nostra orina.
- Immancabilmente
era lui il vincitore e insieme ridevamo delle mie
senili difficoltàý.
- Poi correvamo a
giocare alla guerra con i soldatini di
legno
- che Angelina
aveva risvegliato dal sonno nei solai e
rispolverato per noi.
- Studiavamo
attacchi a sorpresa, ci spellavamo le dita nella
foga di abbattere
- le rispettive
truppe, ma quando sul campo immaginario restavano
soltanto
- due soldatini
nemici, ci guardavamo negli occhi lucidi di triste
follia
- e io lasciavo
cadere quel pezzetto di legno sotto un fuoco
simulato
- senza opporre
alcuna resistenza, perché in fondo l'ultimo
mio vivo desiderio
- era di
soccombere.
- ...
- Il tempo si
consuma in eterno. Eppure io non potrò
vedere la luce del nuovo giorno
- accarezzare il
fianco della montagna. Questo cuore che per
un'inspiegabile ragione
- trovò la
sua forma e il suo inizio di esistenza con un
battito solitario
- dentro il ventre
di mia madre, per la stessa inspiegabile ragione si
fermerà
- e i ricordi
affioreranno come ossa fra le zolle ormai aride dei
miei giorni.
- E io non
sarò più.
- ...
- Si spegne in un
rantolo la mia voce.
- Sorrido
disperato. Nel corso dei miei anni non mi sono
concesso,
- neppure per uno
scarno istante, il piacere di apprezzare quella
magica pulsazione
- di corde vocali
sprigionata nella gola. Mi rammarica il pensiero di
averla sepolta
- con
indifferenza, come un vestito smesso o un regalo
privo di alcuna importanza affettiva,
- quando era
ancora viva e poteva tuonare minacciosa, o
volteggiare felice,
- o trascinarsi
malinconica, o correre gioiosa negli anfratti del
tempo.
- Tardiva la mente
si appresta a rievocare il ricordo della
onnipotente luce
- che mi invase le
pupille quando nacqui, mentre le mani ricercano
inutilmente
- la straordinaria
articolazione di cui erano capaci.
- Tra le rughe
stagnanti del mio volto riaffiora l'immagine, ormai
sbiadita,
- di quella
giovinezza che credevo eterna e mi faceva forte e
nulla presagiva
- della vecchiaia
che mi avrebbe atteso lontano da chi amavo, fra le
braccia della morte.
- ...
-
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