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Paola Gamberoni
Paola Gamberoni è nata il 30 dicembre 1963 a Varese e risiede a Vedano Olona (Va). E' impiegata e ha svolto il suo lavoro presso agenzie immobiliari, di pubblicità e in studi notarili. Riceve una menzione speciale dal Presidente del Forum Franciscanum di Caslino d'Erba, nel trentennale 1947-1977 (in occasione del 14° concorso scolastico 1976-1977). Ha scritto articoli a vario tema pubblicati sulla Gazzetta Ticinese negli anni 1985/1986; inoltre ha redatto la prefazione del libro di poesie Emozioni e altre (Lalli Editore) del poeta varesino Paolo Carazzolo. E' autrice dell'opera prima Sussurri dal passato (Mama editore) per la quale ha ricevuto una menzione del merito in occasione della X Edizione del premio letterario internazionale organizzato dall'Agenzia Letterario Mondolibro di Roma. Nel concorso letterario Il Club dei Poeti 2008, organizzato dall'Associazione Culturale Il Club degli autori si è classificata al 2° posto con il racconto La vecchia torre.
Paola Gamberoni, Scrittrice, con il racconto «
La vecchia torre» si è classificata seconda all'edizione 2008 del Premio Il Club dei Poeti.
Tratto dal libro "Sussurri dal passato" (Mama editore)
 
La vita non è già più mia.
Fugge da me, vecchio pazzo, malato di mille mali, perché,
seppur l'abbia a lungo amata, ormai non riesco che a ricordarla.
Là fuori, oltre i campi arati dei miei giorni,
altri stanno aspettando che arrivi con il suo vestito da sposa di pizzo bianco.
Nulla sapranno di me, di lei, di noi,
e avranno il plagio di credere di essere stati i primi a possederla
o gli unici a capirla o gli ultimi a perderla.
Mi lascia, concedendomi ugualmente la purezza di questo istante
in cui le immagini del nostro passato si dileguano, senza lacrime di rimpianto,
nella notte della morte.
...
Sto piangendo, Gianpilu. Ho il cuscino e la mia vecchia faccia
inondati di lacrime, e ti abbraccio, come allora,
sulla panchina nel cortile del collegio.
...
Oh, Gianpilu, come potevo sapere che la morte ti aspettava
là dove mare e cielo si confondono,
là dove le impronte delle nostre vite si separavano e,
profumata di salsedine, ti avrebbe portato via da me per tutti questi anni.
...
Sabbia tra le dita furono i giorni, i nostri giorni trascorsi a passeggiare
sulla sterminata distesa della spiaggia, a sfidare il vento,
a cercare conchiglie, a nasconderci dietro le dune,
a seguire il volo dei gabbiani, a ridere di noi,
dei nostri calzoni arrotolati fino alle ginocchia,
delle nostre scarpe all'improvviso barche riportate a riva dalle onde del mare.
...
Gianpilu posò la testa sulle ginocchia e lo sentii ridere della disperazione
dei suoi pensieri.
...
... Non ebbi tempo per capire. Vidi le labbra di Gianpilu aprirsi
al fluire del suo stesso sangue, i suoi occhi accendersi di una speranza assurda
e la vita fuggirgli.
...
In una città che aveva fretta io, drogato di ieri, vedevo ancora
il volo dei gabbiani sulla spiaggia deserta.
Talvolta qualche moneta pioveva nel mio cappello.
Con un cenno del capo ringraziavo la mano sconosciuta.
Aspettavo il giorno in cui la mia vita avrebbe cessato di trascinarsi
sui marciapiedi e le guglie del Duomo si sarebbero frantumate
nei miei occhi vitrei.
Nulla sapevano di me i barboni tra i quali mi mescolavo la sera
per dormire sui gradini della stazione,
dove Gianpilu era l'unico angelo in quell'inferno di carta straccia
e di bottiglie vuote.
Ma in un tardo pomeriggio di dicembre, Lucio Cassani, amico di mio padre
nonché suo consulente, gridò forte il nome che portavo
e il fantasma del conte Alberto Della Croce si inabissò nelle acque del Naviglio.
...
Nel silenzio della notte scivolano i rintocchi del campanile.
E' mezzanotte: l'ora degli amanti e degli ubriachi.
E' l'ora che precede la mia fine.
...
La mia presenza, poiché inconsueta, nell'osteria del paese suscitò inizialmente
una specie di falsa indifferenza, o forse riverenza, non so:
i giocatori di carte cercavano di contenere gli scatti irosi in ridicoli sussurri,
i giovani amanti rimandavano al buio dei portoni i baci e le carezze audaci
e il gestore si preoccupava di chiudere il colletto della camicia
prima di raggiungermi al tavolino per l'ordinazione.
Ma dopo alcune sere mi accorsi che la mano sorniona dell'abitudine
aveva steso il suo velo opaco su di me e finalmente vidi occhi
che non mi vedevano più.
Così, liberato dal guinzaglio del disagio, potevo correre a perdifiato
fra le nebbie dell'ubriachezza, fermarmi all'improvviso per
fiutare le tracce dei momenti più cari sul terreno umido di lacrime
del passato e, come per incanto, ritrovare negli anfratti della mente,
con il profumo dei ginepri, qualche parola che avevo dimenticato.
<<Ah, memoria puttana!>> gridavo, pazzo di una gioia illusoria.
Ma, mentre stringevo ancora nel palmo della mano il prezioso ricordo ritrovato,
ecco, inevitabilmente alzarsi in volo l'uccello nero della morte e
intrappolato nei suoi terribili artigli, vedevo spegnersi il destino di Gianpilu.
Allora la gioia diveniva la più atroce delle sofferenze
e io potevo soltanto abbandonarmi ad un pianto silenzioso, privo di sogni.
Oh, no, non si curavano di me i giocatori di carte, i giovani amanti,
il gestore dell'osteria. Mi lasciavano là,
seduto al solito tavolino di ferro laccato di rosso,
a delirare, a maledire il destino, a disprezzare me stesso
per non essere stato in grado di salvare la vita a Gianpilu.
Sollevando il capo dall'ennesimo bicchiere, scorgevo il bastardo,
fermo sotto la luce dei lampioni, deformato nelle spirali delle nebbie,
che mi aspettava dietro comando della premurosa Angelina per ricondurmi a casa.
E io tornavo a lui come un padre miserabile e ubriacone.
...
<<Mamma...>>
Giaceva sul letto, come rapita da un sonno improvviso.
La guardavo e scoprivo per la prima volta sul suo viso il lavorio corrosivo del tempo.
Non restava che una vaga traccia della bellezza posseduta.
Era penoso intuire l'incredula tristezza con la quale doveva aver assistito
al cedimento della carne, il pianto segreto al quale si era sicuramente abbandonata e,
tuttavia, era confortante ricordare la forza con la quale aveva resistito
agli attacchi della rassegnazione, la perseveranza cosmetica alla quale
si era aggrappata per ricreare sulla pelle sfaldata dalla vecchiaia
una luce di giovinezza.
...
Mangiavo di rado, suscitando l'apprensione di Angelina che mi inseguiva
nelle stanze del mio dolore con pietanze prelibate per
stuzzicare un appetito svogliato.
Mi nascondevo nelle cantine, dove la grande e accurata riserva di vini
rappresentava ancora il vanto di un nonno mai conosciuto.
Stappavo una bottiglia dopo l'altra, affogavo in un mare di ricordi,
gridavo tutto il male che mi dilaniava il cervello e finivo per addormentarmi
coperto dal mio stesso travaglio di stomaco.
Al risveglio tornavo da Angelina e piangevo sul suo petto l'infanzia
che mi era stata negata. Lei sapeva cullare il pianto, mi asciugava il volto rugoso,
mi teneva la mano mentre mi conduceva in bagno, mi faceva immergere nell'acqua
profumata di estratti alle erbe che lei stessa preparava e, cantando dolcemente,
mi lavava, mi tagliava le unghie, mi radeva, mi pettinava i capelli giý lunghi
legandoli dietro la nuca con un nastro nero.
Mai le fuggì dalle labbra un lamento di stanchezza, mai si concesse una lacrima disperata.
Con inesauribile pazienza e umiltà accettò lo scherzo di un destino
che le aveva riservato, sul finir della vita, la vergogna di far da madre
ad un vecchio conte impazzito.
Il bastardo mi aspettava sul molo, felice di lanciare la sfida malandrina
che consisteva nel confrontare i getti della nostra orina.
Immancabilmente era lui il vincitore e insieme ridevamo delle mie senili difficoltàý.
Poi correvamo a giocare alla guerra con i soldatini di legno
che Angelina aveva risvegliato dal sonno nei solai e rispolverato per noi.
Studiavamo attacchi a sorpresa, ci spellavamo le dita nella foga di abbattere
le rispettive truppe, ma quando sul campo immaginario restavano soltanto
due soldatini nemici, ci guardavamo negli occhi lucidi di triste follia
e io lasciavo cadere quel pezzetto di legno sotto un fuoco simulato
senza opporre alcuna resistenza, perché in fondo l'ultimo mio vivo desiderio
era di soccombere.
...
Il tempo si consuma in eterno. Eppure io non potrò vedere la luce del nuovo giorno
accarezzare il fianco della montagna. Questo cuore che per un'inspiegabile ragione
trovò la sua forma e il suo inizio di esistenza con un battito solitario
dentro il ventre di mia madre, per la stessa inspiegabile ragione si fermerà
e i ricordi affioreranno come ossa fra le zolle ormai aride dei miei giorni.
E io non sarò più.
...
Si spegne in un rantolo la mia voce.
Sorrido disperato. Nel corso dei miei anni non mi sono concesso,
neppure per uno scarno istante, il piacere di apprezzare quella magica pulsazione
di corde vocali sprigionata nella gola. Mi rammarica il pensiero di averla sepolta
con indifferenza, come un vestito smesso o un regalo privo di alcuna importanza affettiva,
quando era ancora viva e poteva tuonare minacciosa, o volteggiare felice,
o trascinarsi malinconica, o correre gioiosa negli anfratti del tempo.
Tardiva la mente si appresta a rievocare il ricordo della onnipotente luce
che mi invase le pupille quando nacqui, mentre le mani ricercano inutilmente
la straordinaria articolazione di cui erano capaci.
Tra le rughe stagnanti del mio volto riaffiora l'immagine, ormai sbiadita,
di quella giovinezza che credevo eterna e mi faceva forte e nulla presagiva
della vecchiaia che mi avrebbe atteso lontano da chi amavo, fra le braccia della morte.
...
 
 
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Agg. 17-11-2008