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               Lana
               e polvere Ho paura di uscire.
               E ho anche fame. Nella pancia un "grgrgr" che
               rosicchia lo stomaco. È così da mesi. Lo
               stomaco si mette a parlare, io non ho niente con cui
               farlo smettere.Alzo lo sguardo su
               mia zia Luisa. Occhiali tondi e vetro scheggiato, che
               le coprono gli occhi fissi sui fili di lana rossa. Le
               mani si muovono vecchie a raggomitolare. Dita acrobate
               disegnano nell'aria nodi di aria e lana, mentre il
               petto le si alza, a volte, in sospiri così
               lunghi che potrebbero parlare.Sulle mie mani, la
               lana punzecchia fastidiosa. Come quei pizzichi che si
               fanno con la punta delle unghie. Anche oggi una nuova
               matassa da arrotolare. Sciogliere e arrotolare.
               Sciogliere e arrotolare. Nella stanza c'è solo
               una luce bionda di lampada ad olio, un profumo caldo
               di nippoli stropicciati. Il gomito si gonfia, piano
               piano. E mentre aspettiamo che la lana prende forma,
               le nostre bocche aspettano qualcosa da masticare. A
               volte le settimane sono così lente che anche i
               crampi dentro la pancia si stancano di fare
               male.È grazie a
               questi gomitoli che mangiamo. Due maglioni per la
               farina. Lunghe sciarpe per due taniche di latte. I
               cappelli ci assicurano le uova. Il contadino si
               riscalda grazie a noi. Noi mangiamo grazie al
               contadino. Mamma dice che è così, di
               questi tempi. Si sopravvive grazie agli
               altri."Forza. Vai a
               prendere tua sorella". Dice mia zia. Si porta le mani
               dietro la schiena e la sua faccia si aggroviglia in
               un'espressione che fa male. "Prima che arrivi tua
               madre, sai che si arrabbia".Mi alzo e raggiungo
               la finestra.Ho paura di
               uscire.Mamma non vuole che
               rimaniamo tanto a lungo a giocare fuori. Dice che
               quando esco i chicchi di ferro potrebbero esplodere e
               arrivarmi sulla faccia. Li chiamiamo così noi
               "i chicchi di ferro". Anche se ho capito da tempo che
               cosa sono quelle cose dure che esplodono e che vanno a
               ficcarsi nella carne. Mia sorella ha perso un occhio,
               sei mesi fa. Un chicco di ferro le è entrato
               nell'orbita mentre correvamo nel rifugio. Si è
               accasciata per terra, l'occhio le è scomparso
               in una pozzanghera di sangue. E lei gridava con una
               voce brutta che mi fece tappare le orecchie. Come se
               le succhiassero via l'occhio con i denti.Ora lei è
               lì fuori, che saltella con un cucciolo biondo.
               Il pelo del cane è incrostato di lercio. Lui si
               regge a malapena sulle zampe. Trema tutto. Mia sorella
               ha una benda sulla faccia. I capelli le cadono unti
               sulla benda e il suo sorriso è senza denti,
               quando lei ride fa ridere anche me. Ma non ride
               più tanto. Da quando ha perso l'occhio, ha
               perso anche la voce. Non parla più.  E non
               sentirla parlare fa passare la voglia di parlare anche
               a me.Dalla finestra vedo
               le sue dita dei piedi. Sbucano infreddolite da una
               scarpa rotta e sono livide di una viola che ha freddo.
               Mamma e zia Luisa ci hanno fatto le scarpe con la
               pelle di una valigia rubata, ma adesso sono già
               tutte usurate. Mamma e zia Luisa non le hanno nemmeno
               le scarpe."Quando arriva la
               mamma?", chiedo.Zia Luisa alza le
               spalle. Le fa ricadere giù come se le parole le
               entrassero nella pelle e spingessero il suo corpo
               verso il pavimento. A volte penso che vorrebbe
               accasciarsi sul letto e mettersi a dormire per molto,
               molto tempo. Zia Luisa ha il sorriso che non sorride.
               Quando lo fa è solo perché vuole
               tranquillizzarci.Quando la sirena si
               mette a gridare, lei ha il compito di prendere me.
               Mamma, invece, mia sorella. Allora la zia non dice
               niente. Vedo la sua faccia piana di rughe che si fa
               ancora più rugosa. Aria impaurita le gonfia la
               gola. Quando si mette a correre il sudore le cola
               dalla fronte. Comincia a respirare, respiri corti
               corti, che hanno un suono ruvido. Quando mi guarda mi
               dice: "Forza, corri, non aver paura". E fa quel
               sorriso che fa fatica ad appiccicarsi sulla pelle,
               solo perché in realtà non ha nessuna
               voglia di sorridere. È brutto quando la sirena
               si mette a gridare. Il suo, sembra un urlo muto, ma
               non lo è. Le mie ginocchia diventano gelatina
               molliccia, so che dovrei correre, correre, correre. Ma
               la sirena blocca l'aria per prendere fiato. Mia
               sorella, intanto, si è allontanata ancora. Ha
               raggiunto il pozzo dove al posto dell'acqua c'è
               solo una crosta di fango secco che non si scioglie
               nemmeno con la pioggia.Si è seduta
               per terra, in mezzo a quella polvere inzuppata di
               sudicio. Il cucciolo le siede sopra ai piedi, mia
               sorella gioca con la sua coda.Dovrei uscire,
               attraversare tutto il cortile, oltrepassare il pozzo,
               raggiungere mia sorella. E se le sirene si mettono a
               gridare? E se i chicchi di ferro cominciano a pungerci
               la pelle? Se lei perdesse l'altro occhio, sarebbe solo
               colpa mia.Fa paura quello che
               vedo. Il cortile è vuoto. C'erano due case, un
               mese fa. Quando un pomeriggio uscimmo dal rifugio, non
               c'erano più. E avevano lasciato un buco su quel
               terreno che mi fece venire voglia di
               vomitareAl loro posto, come
               adesso, c'era solo una collinetta di polvere bianca.
               Polvere bianca sul prato, polvere sul pozzo, polvere
               sulla punta delle scarpe, polvere su tutto. E qui
               tutto, significa niente. Polvere anche tra i capelli,
               dentro le dita, tra le ciglia degli occhi e dentro la
               gola. E respirare la polvere fa sembrare di respirare
               anche la guerra. Dentro alle costole, fin dentro la
               pancia. E allora si comincia a tossire e sputare fuori
               saliva, polvere e sangue, come se da dentro dovesse
               uscire qualcosa di molto più
               grosso."Allora", fa zia
               Luisa, "che aspetti? Si sta facendo buio"."E mamma?
               Perché non torna?".Ho paura quando
               mamma non torna, prima del buio. Anche lei dovrebbe
               stare attenta ai chicchi di ferro; non colpiscono solo
               la pelle dei bambini. Non fanno attenzione a chi
               debbono uccidere. Ma mamma va sempre giù, in
               città. Due volte la settimana il contadino la
               viene a prendere e insieme vanno nei negozi a comprare
               le cose. Ed io, sempre, penso che quella sia l'ultima
               volta che guardo la faccia di mia madre.È bello,
               quando ritorna. Mia sorella ed io siamo sedute a terra
               a giocare, mia zia Luisa lavora con i ferri e mamma
               entra in casa con i colori tra le braccia. Matasse
               verdi, rosse, blu, gialle, azzurre. E la sua faccia
               ride di tutti quei colori. Quei momenti mi fanno
               credere che la guerra finisca ogni volta. Mia sorella
               ed io le aiutiamo a sciogliere e raggomitolare le
               matasse. E intanto mamma ci racconta della gente che
               vede in città. Ci dice che incontra quelli con
               le divise. Ci spiega che la città è
               diversa. Anche la nostra casa è
               diversa."Come diversa,
               mamma?"."Come le
               costruzioni. Quando le costruisci, a volte possono
               rompersi, no?"."Sì. Vuoi
               dire che la nostra casa è una
               costruzione?"."Sì, uguale.
               E adesso si è rotta".Prima di
               addormentarmi vedo mamma e zia Luisa parlare a bassa
               voce. Le loro mani giocano sui ferri, sopra le trame
               di lana, raccolgono, cuciono, creano, raggomitolano,
               sfilano. Quando mi sveglio, loro sono ancora
               lì, a sudare sui quei giochi di colori di lana.
               E le matasse, durante la notte, si sono trasformate in
               maglioni già pronti. Cappelli, scarpe, gonne,
               calzini, sciarpe. Mamma ne distribuisce qualcuna tra
               me e mia sorella. Il resto, è tutto per il
               contadino.I vetri della
               finestra si sono appannati del mio respiro. La sera si
               poggia sulla polvere accarezzandola. Ci si infila
               dentro e cancella quel suo bianco granuloso. Il
               cortile si macchia di una luce bruna che nasconde le
               cose che non ci sono. E così fa meno paura.
               Vorrei uscire e mettermi a correre. Spalmarmi per
               terra e rotolare nel fango e ridere con la bocca piena
               di frutta. Saltellare insieme al cucciolo e mia
               sorella e farmi rincorrere tra le case e gli alberi,
               che adesso non ci sono. So che appena uscirò
               tutto quello che non c'è mi cadrà
               addosso. E dentro le guance sentirò il sapore
               ruvido di quella polvere che ha stancato anche il
               cielo.Però,
               adesso, è proprio ora che vada. Prima di uscire
               cerco con lo sguardo mia sorella. Gli occhi si perdono
               e non la vedono più. Il cuore gratta. Mi volto
               a guardare mia zia e vedo la sua testa afflosciata sul
               petto. Il respiro che russa un sonno
               stanco.Indosso le scarpe
               fatte con la pelle della valigia, il cappello di lana
               e la sciarpa. Mi precipito fuori.L'aria gelata mi
               schiaffeggia la faccia. Rimango immobile per un
               istante a sentire il freddo, ferma in mezzo al
               cortile. Alzo la testa e vedo il cielo intrappolato
               dentro ad una cornice di tetti senza tegole, angoli
               distrutti, mura sbriciolate, balconi che penzolano le
               loro ringhiere come scheletri morti.C'è un
               silenzio grosso.Lo sento dentro al
               cervello, fa quasi male. Un silenzio sporco. Pare che
               la polvere sussurri. Le mie babbucce affogano nel
               letto di melma, subito le dita fanno male di un male
               gelato. Il fango si appiccica sulla pelle attraverso i
               buchi dei calzini.Mi metto a correre
               e sputare l'aria. Chiamo mia sorella. Il suo nome esce
               dalla bocca per diventare subito polvere.Poi sento i guaiti
               del cucciolo.Mi avvicino al
               pozzo e dietro al pozzo una luce piccola di sera
               illumina la faccia di mia sorella. Una faccia sporca
               che non mi piace."Che c'è?
               Stai male?"Le corro
               vicino.Le sue dita escono
               dai buchi dei guanti. Piccole, vanno ad accarezzare i
               ciuffi di pelo tra le orecchie del cane. Il cucciolo
               mi guarda con un muso buono, gli occhi accerchiati da
               una pappetta gialla tutta malata. Fa un verso con la
               gola che gli trema tra i baffi."Sta
               male".La voce di mia
               sorella è sottile.Il mio cuore fa
               "flop" dentro al petto. Come il tuorlo d'uovo quando
               cade nella farina. E non è perché il
               cucciolo sta male. Ma perché la voce di mia
               sorella, dopo sei mesi, è ancora più
               bella."Sta facendo buio.
               Torniamo dentro", dico io.Lei fa di non con
               la testa. E intanto china il viso. Lo affonda nel
               petto. Piange."Mamma sta per
               tornare. Abbiamo la farina per fare il pane. Mangiamo.
               Non hai fame?"."No!".Mi accovaccio
               affianco a lei.Mia sorella mi
               guarda con uno sguardo che vorrei abbracciare.
               "Possiamo portarlo
               con noi in casa?", dice.Osservo il cane. La
               sua pelle cade in scaglie bianche. Il cucciolo fa
               tremare le palpebre sopra agli occhi. Dalla bocca gli
               cola un rivolo di saliva verde. Prendo le mani di mia
               sorella nelle mie, non voglio che tocchi più il
               cane. Lei ed io non possiamo ammalarci. La mamma si
               arrabbierebbe molto."Facciamo
               così. Noi entriamo. Ci riscaldiamo. Mangiamo
               tutta la roba buona che mamma ci porta. Poi porteremo
               qualcosa di quella roba buona anche al tuo
               cucciolo".Mia sorella tira su
               il liquido caldo che le esce dalle narici. La punta
               del naso è piccola e rosa. Fa di sì con
               la testa. "Va bene", dice. E lo dice con una voce
               piccola piccola.Ritornando vedo mia
               madre entrare in casa.Finalmente.Il cuore si allarga
               rilassato. Anche quella sera lei è tornata.
               Nella mano stringe un sacchetto pieno di cose. Cose
               che presto andranno ad azzittire quel "grgrgr" che fa
               male nello stomaco. Mai madre è qui, questa
               sera si mangia, mia sorella ha parlato.Anche questo
               è stato un giorno che non ci ha fatto
               morire.Prima di
               allontanarmi dal pozzo, mi volto un'ultima volta. Il
               cucciolo è fermo. Il suo petto è una
               pietra. Immobile, in mezzo alla polvere. |