Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Rossella Milone
Con questo racconto è risultata seconda classificata nella sezione narrativa del Premio Vittorio Tolasi - Orzinuovi 2002
Lana e polvere
 
Ho paura di uscire. E ho anche fame. Nella pancia un "grgrgr" che rosicchia lo stomaco. È così da mesi. Lo stomaco si mette a parlare, io non ho niente con cui farlo smettere.
Alzo lo sguardo su mia zia Luisa. Occhiali tondi e vetro scheggiato, che le coprono gli occhi fissi sui fili di lana rossa. Le mani si muovono vecchie a raggomitolare. Dita acrobate disegnano nell'aria nodi di aria e lana, mentre il petto le si alza, a volte, in sospiri così lunghi che potrebbero parlare.
Sulle mie mani, la lana punzecchia fastidiosa. Come quei pizzichi che si fanno con la punta delle unghie. Anche oggi una nuova matassa da arrotolare. Sciogliere e arrotolare. Sciogliere e arrotolare. Nella stanza c'è solo una luce bionda di lampada ad olio, un profumo caldo di nippoli stropicciati. Il gomito si gonfia, piano piano. E mentre aspettiamo che la lana prende forma, le nostre bocche aspettano qualcosa da masticare. A volte le settimane sono così lente che anche i crampi dentro la pancia si stancano di fare male.
È grazie a questi gomitoli che mangiamo. Due maglioni per la farina. Lunghe sciarpe per due taniche di latte. I cappelli ci assicurano le uova. Il contadino si riscalda grazie a noi. Noi mangiamo grazie al contadino. Mamma dice che è così, di questi tempi. Si sopravvive grazie agli altri.
"Forza. Vai a prendere tua sorella". Dice mia zia. Si porta le mani dietro la schiena e la sua faccia si aggroviglia in un'espressione che fa male. "Prima che arrivi tua madre, sai che si arrabbia".
Mi alzo e raggiungo la finestra.
Ho paura di uscire.
Mamma non vuole che rimaniamo tanto a lungo a giocare fuori. Dice che quando esco i chicchi di ferro potrebbero esplodere e arrivarmi sulla faccia. Li chiamiamo così noi "i chicchi di ferro". Anche se ho capito da tempo che cosa sono quelle cose dure che esplodono e che vanno a ficcarsi nella carne. Mia sorella ha perso un occhio, sei mesi fa. Un chicco di ferro le è entrato nell'orbita mentre correvamo nel rifugio. Si è accasciata per terra, l'occhio le è scomparso in una pozzanghera di sangue. E lei gridava con una voce brutta che mi fece tappare le orecchie. Come se le succhiassero via l'occhio con i denti.
Ora lei è lì fuori, che saltella con un cucciolo biondo. Il pelo del cane è incrostato di lercio. Lui si regge a malapena sulle zampe. Trema tutto. Mia sorella ha una benda sulla faccia. I capelli le cadono unti sulla benda e il suo sorriso è senza denti, quando lei ride fa ridere anche me. Ma non ride più tanto. Da quando ha perso l'occhio, ha perso anche la voce. Non parla più. E non sentirla parlare fa passare la voglia di parlare anche a me.
Dalla finestra vedo le sue dita dei piedi. Sbucano infreddolite da una scarpa rotta e sono livide di una viola che ha freddo. Mamma e zia Luisa ci hanno fatto le scarpe con la pelle di una valigia rubata, ma adesso sono già tutte usurate. Mamma e zia Luisa non le hanno nemmeno le scarpe.
"Quando arriva la mamma?", chiedo.
Zia Luisa alza le spalle. Le fa ricadere giù come se le parole le entrassero nella pelle e spingessero il suo corpo verso il pavimento. A volte penso che vorrebbe accasciarsi sul letto e mettersi a dormire per molto, molto tempo. Zia Luisa ha il sorriso che non sorride. Quando lo fa è solo perché vuole tranquillizzarci.
Quando la sirena si mette a gridare, lei ha il compito di prendere me. Mamma, invece, mia sorella. Allora la zia non dice niente. Vedo la sua faccia piana di rughe che si fa ancora più rugosa. Aria impaurita le gonfia la gola. Quando si mette a correre il sudore le cola dalla fronte. Comincia a respirare, respiri corti corti, che hanno un suono ruvido. Quando mi guarda mi dice: "Forza, corri, non aver paura". E fa quel sorriso che fa fatica ad appiccicarsi sulla pelle, solo perché in realtà non ha nessuna voglia di sorridere. È brutto quando la sirena si mette a gridare. Il suo, sembra un urlo muto, ma non lo è. Le mie ginocchia diventano gelatina molliccia, so che dovrei correre, correre, correre. Ma la sirena blocca l'aria per prendere fiato. Mia sorella, intanto, si è allontanata ancora. Ha raggiunto il pozzo dove al posto dell'acqua c'è solo una crosta di fango secco che non si scioglie nemmeno con la pioggia.
Si è seduta per terra, in mezzo a quella polvere inzuppata di sudicio. Il cucciolo le siede sopra ai piedi, mia sorella gioca con la sua coda.
Dovrei uscire, attraversare tutto il cortile, oltrepassare il pozzo, raggiungere mia sorella. E se le sirene si mettono a gridare? E se i chicchi di ferro cominciano a pungerci la pelle? Se lei perdesse l'altro occhio, sarebbe solo colpa mia.
Fa paura quello che vedo. Il cortile è vuoto. C'erano due case, un mese fa. Quando un pomeriggio uscimmo dal rifugio, non c'erano più. E avevano lasciato un buco su quel terreno che mi fece venire voglia di vomitare
Al loro posto, come adesso, c'era solo una collinetta di polvere bianca. Polvere bianca sul prato, polvere sul pozzo, polvere sulla punta delle scarpe, polvere su tutto. E qui tutto, significa niente. Polvere anche tra i capelli, dentro le dita, tra le ciglia degli occhi e dentro la gola. E respirare la polvere fa sembrare di respirare anche la guerra. Dentro alle costole, fin dentro la pancia. E allora si comincia a tossire e sputare fuori saliva, polvere e sangue, come se da dentro dovesse uscire qualcosa di molto più grosso.
"Allora", fa zia Luisa, "che aspetti? Si sta facendo buio".
"E mamma? Perché non torna?".
Ho paura quando mamma non torna, prima del buio. Anche lei dovrebbe stare attenta ai chicchi di ferro; non colpiscono solo la pelle dei bambini. Non fanno attenzione a chi debbono uccidere. Ma mamma va sempre giù, in città. Due volte la settimana il contadino la viene a prendere e insieme vanno nei negozi a comprare le cose. Ed io, sempre, penso che quella sia l'ultima volta che guardo la faccia di mia madre.
È bello, quando ritorna. Mia sorella ed io siamo sedute a terra a giocare, mia zia Luisa lavora con i ferri e mamma entra in casa con i colori tra le braccia. Matasse verdi, rosse, blu, gialle, azzurre. E la sua faccia ride di tutti quei colori. Quei momenti mi fanno credere che la guerra finisca ogni volta. Mia sorella ed io le aiutiamo a sciogliere e raggomitolare le matasse. E intanto mamma ci racconta della gente che vede in città. Ci dice che incontra quelli con le divise. Ci spiega che la città è diversa. Anche la nostra casa è diversa.
"Come diversa, mamma?".
"Come le costruzioni. Quando le costruisci, a volte possono rompersi, no?".
"Sì. Vuoi dire che la nostra casa è una costruzione?".
"Sì, uguale. E adesso si è rotta".
Prima di addormentarmi vedo mamma e zia Luisa parlare a bassa voce. Le loro mani giocano sui ferri, sopra le trame di lana, raccolgono, cuciono, creano, raggomitolano, sfilano. Quando mi sveglio, loro sono ancora lì, a sudare sui quei giochi di colori di lana. E le matasse, durante la notte, si sono trasformate in maglioni già pronti. Cappelli, scarpe, gonne, calzini, sciarpe. Mamma ne distribuisce qualcuna tra me e mia sorella. Il resto, è tutto per il contadino.
I vetri della finestra si sono appannati del mio respiro. La sera si poggia sulla polvere accarezzandola. Ci si infila dentro e cancella quel suo bianco granuloso. Il cortile si macchia di una luce bruna che nasconde le cose che non ci sono. E così fa meno paura. Vorrei uscire e mettermi a correre. Spalmarmi per terra e rotolare nel fango e ridere con la bocca piena di frutta. Saltellare insieme al cucciolo e mia sorella e farmi rincorrere tra le case e gli alberi, che adesso non ci sono. So che appena uscirò tutto quello che non c'è mi cadrà addosso. E dentro le guance sentirò il sapore ruvido di quella polvere che ha stancato anche il cielo.
Però, adesso, è proprio ora che vada. Prima di uscire cerco con lo sguardo mia sorella. Gli occhi si perdono e non la vedono più. Il cuore gratta. Mi volto a guardare mia zia e vedo la sua testa afflosciata sul petto. Il respiro che russa un sonno stanco.
Indosso le scarpe fatte con la pelle della valigia, il cappello di lana e la sciarpa. Mi precipito fuori.
L'aria gelata mi schiaffeggia la faccia. Rimango immobile per un istante a sentire il freddo, ferma in mezzo al cortile. Alzo la testa e vedo il cielo intrappolato dentro ad una cornice di tetti senza tegole, angoli distrutti, mura sbriciolate, balconi che penzolano le loro ringhiere come scheletri morti.
C'è un silenzio grosso.
Lo sento dentro al cervello, fa quasi male. Un silenzio sporco. Pare che la polvere sussurri. Le mie babbucce affogano nel letto di melma, subito le dita fanno male di un male gelato. Il fango si appiccica sulla pelle attraverso i buchi dei calzini.
Mi metto a correre e sputare l'aria. Chiamo mia sorella. Il suo nome esce dalla bocca per diventare subito polvere.
Poi sento i guaiti del cucciolo.
Mi avvicino al pozzo e dietro al pozzo una luce piccola di sera illumina la faccia di mia sorella. Una faccia sporca che non mi piace.
"Che c'è? Stai male?"
Le corro vicino.
Le sue dita escono dai buchi dei guanti. Piccole, vanno ad accarezzare i ciuffi di pelo tra le orecchie del cane. Il cucciolo mi guarda con un muso buono, gli occhi accerchiati da una pappetta gialla tutta malata. Fa un verso con la gola che gli trema tra i baffi.
"Sta male".
La voce di mia sorella è sottile.
Il mio cuore fa "flop" dentro al petto. Come il tuorlo d'uovo quando cade nella farina. E non è perché il cucciolo sta male. Ma perché la voce di mia sorella, dopo sei mesi, è ancora più bella.
"Sta facendo buio. Torniamo dentro", dico io.
Lei fa di non con la testa. E intanto china il viso. Lo affonda nel petto. Piange.
"Mamma sta per tornare. Abbiamo la farina per fare il pane. Mangiamo. Non hai fame?".
"No!".
Mi accovaccio affianco a lei.
Mia sorella mi guarda con uno sguardo che vorrei abbracciare.
"Possiamo portarlo con noi in casa?", dice.
Osservo il cane. La sua pelle cade in scaglie bianche. Il cucciolo fa tremare le palpebre sopra agli occhi. Dalla bocca gli cola un rivolo di saliva verde. Prendo le mani di mia sorella nelle mie, non voglio che tocchi più il cane. Lei ed io non possiamo ammalarci. La mamma si arrabbierebbe molto.
"Facciamo così. Noi entriamo. Ci riscaldiamo. Mangiamo tutta la roba buona che mamma ci porta. Poi porteremo qualcosa di quella roba buona anche al tuo cucciolo".
Mia sorella tira su il liquido caldo che le esce dalle narici. La punta del naso è piccola e rosa. Fa di sì con la testa. "Va bene", dice. E lo dice con una voce piccola piccola.
Ritornando vedo mia madre entrare in casa.
Finalmente.
Il cuore si allarga rilassato. Anche quella sera lei è tornata. Nella mano stringe un sacchetto pieno di cose. Cose che presto andranno ad azzittire quel "grgrgr" che fa male nello stomaco. Mai madre è qui, questa sera si mangia, mia sorella ha parlato.
Anche questo è stato un giorno che non ci ha fatto morire.
Prima di allontanarmi dal pozzo, mi volto un'ultima volta. Il cucciolo è fermo. Il suo petto è una pietra. Immobile, in mezzo alla polvere.
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Ins. 12-02-2003