- Lana
e polvere
-
- Ho paura di uscire.
E ho anche fame. Nella pancia un "grgrgr" che
rosicchia lo stomaco. È così da mesi. Lo
stomaco si mette a parlare, io non ho niente con cui
farlo smettere.
- Alzo lo sguardo su
mia zia Luisa. Occhiali tondi e vetro scheggiato, che
le coprono gli occhi fissi sui fili di lana rossa. Le
mani si muovono vecchie a raggomitolare. Dita acrobate
disegnano nell'aria nodi di aria e lana, mentre il
petto le si alza, a volte, in sospiri così
lunghi che potrebbero parlare.
- Sulle mie mani, la
lana punzecchia fastidiosa. Come quei pizzichi che si
fanno con la punta delle unghie. Anche oggi una nuova
matassa da arrotolare. Sciogliere e arrotolare.
Sciogliere e arrotolare. Nella stanza c'è solo
una luce bionda di lampada ad olio, un profumo caldo
di nippoli stropicciati. Il gomito si gonfia, piano
piano. E mentre aspettiamo che la lana prende forma,
le nostre bocche aspettano qualcosa da masticare. A
volte le settimane sono così lente che anche i
crampi dentro la pancia si stancano di fare
male.
- È grazie a
questi gomitoli che mangiamo. Due maglioni per la
farina. Lunghe sciarpe per due taniche di latte. I
cappelli ci assicurano le uova. Il contadino si
riscalda grazie a noi. Noi mangiamo grazie al
contadino. Mamma dice che è così, di
questi tempi. Si sopravvive grazie agli
altri.
- "Forza. Vai a
prendere tua sorella". Dice mia zia. Si porta le mani
dietro la schiena e la sua faccia si aggroviglia in
un'espressione che fa male. "Prima che arrivi tua
madre, sai che si arrabbia".
- Mi alzo e raggiungo
la finestra.
- Ho paura di
uscire.
- Mamma non vuole che
rimaniamo tanto a lungo a giocare fuori. Dice che
quando esco i chicchi di ferro potrebbero esplodere e
arrivarmi sulla faccia. Li chiamiamo così noi
"i chicchi di ferro". Anche se ho capito da tempo che
cosa sono quelle cose dure che esplodono e che vanno a
ficcarsi nella carne. Mia sorella ha perso un occhio,
sei mesi fa. Un chicco di ferro le è entrato
nell'orbita mentre correvamo nel rifugio. Si è
accasciata per terra, l'occhio le è scomparso
in una pozzanghera di sangue. E lei gridava con una
voce brutta che mi fece tappare le orecchie. Come se
le succhiassero via l'occhio con i denti.
- Ora lei è
lì fuori, che saltella con un cucciolo biondo.
Il pelo del cane è incrostato di lercio. Lui si
regge a malapena sulle zampe. Trema tutto. Mia sorella
ha una benda sulla faccia. I capelli le cadono unti
sulla benda e il suo sorriso è senza denti,
quando lei ride fa ridere anche me. Ma non ride
più tanto. Da quando ha perso l'occhio, ha
perso anche la voce. Non parla più. E non
sentirla parlare fa passare la voglia di parlare anche
a me.
- Dalla finestra vedo
le sue dita dei piedi. Sbucano infreddolite da una
scarpa rotta e sono livide di una viola che ha freddo.
Mamma e zia Luisa ci hanno fatto le scarpe con la
pelle di una valigia rubata, ma adesso sono già
tutte usurate. Mamma e zia Luisa non le hanno nemmeno
le scarpe.
- "Quando arriva la
mamma?", chiedo.
- Zia Luisa alza le
spalle. Le fa ricadere giù come se le parole le
entrassero nella pelle e spingessero il suo corpo
verso il pavimento. A volte penso che vorrebbe
accasciarsi sul letto e mettersi a dormire per molto,
molto tempo. Zia Luisa ha il sorriso che non sorride.
Quando lo fa è solo perché vuole
tranquillizzarci.
- Quando la sirena si
mette a gridare, lei ha il compito di prendere me.
Mamma, invece, mia sorella. Allora la zia non dice
niente. Vedo la sua faccia piana di rughe che si fa
ancora più rugosa. Aria impaurita le gonfia la
gola. Quando si mette a correre il sudore le cola
dalla fronte. Comincia a respirare, respiri corti
corti, che hanno un suono ruvido. Quando mi guarda mi
dice: "Forza, corri, non aver paura". E fa quel
sorriso che fa fatica ad appiccicarsi sulla pelle,
solo perché in realtà non ha nessuna
voglia di sorridere. È brutto quando la sirena
si mette a gridare. Il suo, sembra un urlo muto, ma
non lo è. Le mie ginocchia diventano gelatina
molliccia, so che dovrei correre, correre, correre. Ma
la sirena blocca l'aria per prendere fiato. Mia
sorella, intanto, si è allontanata ancora. Ha
raggiunto il pozzo dove al posto dell'acqua c'è
solo una crosta di fango secco che non si scioglie
nemmeno con la pioggia.
- Si è seduta
per terra, in mezzo a quella polvere inzuppata di
sudicio. Il cucciolo le siede sopra ai piedi, mia
sorella gioca con la sua coda.
- Dovrei uscire,
attraversare tutto il cortile, oltrepassare il pozzo,
raggiungere mia sorella. E se le sirene si mettono a
gridare? E se i chicchi di ferro cominciano a pungerci
la pelle? Se lei perdesse l'altro occhio, sarebbe solo
colpa mia.
- Fa paura quello che
vedo. Il cortile è vuoto. C'erano due case, un
mese fa. Quando un pomeriggio uscimmo dal rifugio, non
c'erano più. E avevano lasciato un buco su quel
terreno che mi fece venire voglia di
vomitare
- Al loro posto, come
adesso, c'era solo una collinetta di polvere bianca.
Polvere bianca sul prato, polvere sul pozzo, polvere
sulla punta delle scarpe, polvere su tutto. E qui
tutto, significa niente. Polvere anche tra i capelli,
dentro le dita, tra le ciglia degli occhi e dentro la
gola. E respirare la polvere fa sembrare di respirare
anche la guerra. Dentro alle costole, fin dentro la
pancia. E allora si comincia a tossire e sputare fuori
saliva, polvere e sangue, come se da dentro dovesse
uscire qualcosa di molto più
grosso.
- "Allora", fa zia
Luisa, "che aspetti? Si sta facendo buio".
- "E mamma?
Perché non torna?".
- Ho paura quando
mamma non torna, prima del buio. Anche lei dovrebbe
stare attenta ai chicchi di ferro; non colpiscono solo
la pelle dei bambini. Non fanno attenzione a chi
debbono uccidere. Ma mamma va sempre giù, in
città. Due volte la settimana il contadino la
viene a prendere e insieme vanno nei negozi a comprare
le cose. Ed io, sempre, penso che quella sia l'ultima
volta che guardo la faccia di mia madre.
- È bello,
quando ritorna. Mia sorella ed io siamo sedute a terra
a giocare, mia zia Luisa lavora con i ferri e mamma
entra in casa con i colori tra le braccia. Matasse
verdi, rosse, blu, gialle, azzurre. E la sua faccia
ride di tutti quei colori. Quei momenti mi fanno
credere che la guerra finisca ogni volta. Mia sorella
ed io le aiutiamo a sciogliere e raggomitolare le
matasse. E intanto mamma ci racconta della gente che
vede in città. Ci dice che incontra quelli con
le divise. Ci spiega che la città è
diversa. Anche la nostra casa è
diversa.
- "Come diversa,
mamma?".
- "Come le
costruzioni. Quando le costruisci, a volte possono
rompersi, no?".
- "Sì. Vuoi
dire che la nostra casa è una
costruzione?".
- "Sì, uguale.
E adesso si è rotta".
- Prima di
addormentarmi vedo mamma e zia Luisa parlare a bassa
voce. Le loro mani giocano sui ferri, sopra le trame
di lana, raccolgono, cuciono, creano, raggomitolano,
sfilano. Quando mi sveglio, loro sono ancora
lì, a sudare sui quei giochi di colori di lana.
E le matasse, durante la notte, si sono trasformate in
maglioni già pronti. Cappelli, scarpe, gonne,
calzini, sciarpe. Mamma ne distribuisce qualcuna tra
me e mia sorella. Il resto, è tutto per il
contadino.
- I vetri della
finestra si sono appannati del mio respiro. La sera si
poggia sulla polvere accarezzandola. Ci si infila
dentro e cancella quel suo bianco granuloso. Il
cortile si macchia di una luce bruna che nasconde le
cose che non ci sono. E così fa meno paura.
Vorrei uscire e mettermi a correre. Spalmarmi per
terra e rotolare nel fango e ridere con la bocca piena
di frutta. Saltellare insieme al cucciolo e mia
sorella e farmi rincorrere tra le case e gli alberi,
che adesso non ci sono. So che appena uscirò
tutto quello che non c'è mi cadrà
addosso. E dentro le guance sentirò il sapore
ruvido di quella polvere che ha stancato anche il
cielo.
- Però,
adesso, è proprio ora che vada. Prima di uscire
cerco con lo sguardo mia sorella. Gli occhi si perdono
e non la vedono più. Il cuore gratta. Mi volto
a guardare mia zia e vedo la sua testa afflosciata sul
petto. Il respiro che russa un sonno
stanco.
- Indosso le scarpe
fatte con la pelle della valigia, il cappello di lana
e la sciarpa. Mi precipito fuori.
- L'aria gelata mi
schiaffeggia la faccia. Rimango immobile per un
istante a sentire il freddo, ferma in mezzo al
cortile. Alzo la testa e vedo il cielo intrappolato
dentro ad una cornice di tetti senza tegole, angoli
distrutti, mura sbriciolate, balconi che penzolano le
loro ringhiere come scheletri morti.
- C'è un
silenzio grosso.
- Lo sento dentro al
cervello, fa quasi male. Un silenzio sporco. Pare che
la polvere sussurri. Le mie babbucce affogano nel
letto di melma, subito le dita fanno male di un male
gelato. Il fango si appiccica sulla pelle attraverso i
buchi dei calzini.
- Mi metto a correre
e sputare l'aria. Chiamo mia sorella. Il suo nome esce
dalla bocca per diventare subito polvere.
- Poi sento i guaiti
del cucciolo.
- Mi avvicino al
pozzo e dietro al pozzo una luce piccola di sera
illumina la faccia di mia sorella. Una faccia sporca
che non mi piace.
- "Che c'è?
Stai male?"
- Le corro
vicino.
- Le sue dita escono
dai buchi dei guanti. Piccole, vanno ad accarezzare i
ciuffi di pelo tra le orecchie del cane. Il cucciolo
mi guarda con un muso buono, gli occhi accerchiati da
una pappetta gialla tutta malata. Fa un verso con la
gola che gli trema tra i baffi.
- "Sta
male".
- La voce di mia
sorella è sottile.
- Il mio cuore fa
"flop" dentro al petto. Come il tuorlo d'uovo quando
cade nella farina. E non è perché il
cucciolo sta male. Ma perché la voce di mia
sorella, dopo sei mesi, è ancora più
bella.
- "Sta facendo buio.
Torniamo dentro", dico io.
- Lei fa di non con
la testa. E intanto china il viso. Lo affonda nel
petto. Piange.
- "Mamma sta per
tornare. Abbiamo la farina per fare il pane. Mangiamo.
Non hai fame?".
- "No!".
- Mi accovaccio
affianco a lei.
- Mia sorella mi
guarda con uno sguardo che vorrei abbracciare.
- "Possiamo portarlo
con noi in casa?", dice.
- Osservo il cane. La
sua pelle cade in scaglie bianche. Il cucciolo fa
tremare le palpebre sopra agli occhi. Dalla bocca gli
cola un rivolo di saliva verde. Prendo le mani di mia
sorella nelle mie, non voglio che tocchi più il
cane. Lei ed io non possiamo ammalarci. La mamma si
arrabbierebbe molto.
- "Facciamo
così. Noi entriamo. Ci riscaldiamo. Mangiamo
tutta la roba buona che mamma ci porta. Poi porteremo
qualcosa di quella roba buona anche al tuo
cucciolo".
- Mia sorella tira su
il liquido caldo che le esce dalle narici. La punta
del naso è piccola e rosa. Fa di sì con
la testa. "Va bene", dice. E lo dice con una voce
piccola piccola.
- Ritornando vedo mia
madre entrare in casa.
- Finalmente.
- Il cuore si allarga
rilassato. Anche quella sera lei è tornata.
Nella mano stringe un sacchetto pieno di cose. Cose
che presto andranno ad azzittire quel "grgrgr" che fa
male nello stomaco. Mai madre è qui, questa
sera si mangia, mia sorella ha parlato.
- Anche questo
è stato un giorno che non ci ha fatto
morire.
- Prima di
allontanarmi dal pozzo, mi volto un'ultima volta. Il
cucciolo è fermo. Il suo petto è una
pietra. Immobile, in mezzo alla polvere.
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