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                  Quel che non
                  muore
 
                Erano trascorse poche ore dal primo pomeriggio,
               da quando sua madre era stata sepolta nel piccolo
               cimitero di collina che guarda al mare, ed ora lei era
               lì, dove aveva promesso di essere, dove da
               tanto tempo non tornava, nella terra dimenticata della
               sua famiglia.La calura di un'estate precoce aveva infuocato
               le zolle che adesso, sotto la brezza di un tramonto
               che si avvicinava,rimandavano ai piedi calzati di leggero, un
               tepore insolito. Maria era sola in un mondo di colori
               assurdi, aggrovigliata in quella matassa di ansia e
               dolore che da anni la stritolava, a volte soffice come
               un presentimento, altre dolorosa come lo stiletto di
               un arcano torturatore."Guarda in faccia il tuo rancore, è
               vecchio come me, è ora che tu lo lasci andare"
               le prime e le ultime parole di sua madre e adesso
               nemmeno lei c'era più, la Dina se n'era andata
               lasciandola alla sua disperata solitudine. E proprio
               lì, "Torna a casa tua, là ti sei persa,
               là ci ritroveremo tutti". In realtà era
               proprio da quel luogo che era sempre fuggita, da quel
               campo di girasoli, dalla quercia incendiata, dal
               mistero.Un brivido le corse su per le braccia mentre un
               soffio di vento muoveva i suoi biondi capelli, dorati
               come il grano maturo, con i fili d'argento di mese in
               mese più numerosi, come le spighe che il
               contadino si attarda a mietere e che si incupiscono ai
               fusti.Salì verso la casa, quella della sua
               infanzia, col recinto di sassi ormai smossi, le
               persiane invecchiate e scrostate dalle intemperie. E
               intorno lo risentì, l'alito di sua madre, il
               suo respiro buono e condiscendente, la sua fiducia.
               "Quando saprai perdonare, troverai la pace", diceva a
               questa figlia inquieta, smarrita a se stessa. Ma il
               perdono, nel cuore arso di Maria, non trovava
               spazio.Eppure voleva che qualcosa cambiasse. Il suo
               presente era come il suo passato, un deserto
               incandescente di magma in statica ebollizione.
               L'acredine aveva infatti ammorbato ogni suo rapporto,
               era la peste che le aveva precluso la serenità
               dell'essere amica, amante, sposa e madre. Aveva eletto
               il suo cinismo calcolato ed intelligente a parafulmine
               della sua vita, ma ciò non era bastato a
               proteggerla da se stessa e dalla solitudine. Solo sua
               madre, l'aveva sempre saputo perché le leggeva
               nel cuore e negli occhi, ed ora l'aveva
               lasciata.Si sedette sconsolata sul muretto di pietra
               mentre le sue narici aspirarono un intenso profumo di
               glicine e gelsomino. Si voltò verso il recinto,
               ma la siepe che divideva dalla proprietà dei
               vicini, non era in fiore e ciò la stupì.
               Allora, il profumo della sua infanzia tornò e
               come mano leggera ma imperiosa, un soffio di vento le
               ordinò di ricordare..., ricordare... anche se
               triste, anche se doloroso. Lentamente, quasi
               sfogliasse una storia illustrata, coi pugni serrati
               pronti a lottare contro qualcosa di oscuro ed
               ineluttabile, ritornò il suo incubo, nitido
               come mai era stato, a spiazzare anni di rimozioni
               forzate e di falsati ricordi.I girasoli in fiore si tinsero ancor più
               d'oro fuso nella luce del tramonto che avanzava, quasi
               ad abbacinarla, a trascinarla in un altro
               tempo...Ricordò la ragazzina correre fra quei
               fiori alti quanto lei, correva serena come a sfidarli,
               ben allineati verso il sole che cominciava a
               nascondersi. Le auree corolle leggermente chine ad
               assorbire riverenti l'ultima energia del giorno,
               mentre lei volava quasi ad allontanarsi dalla notte
               che sentiva alle calcagna.Spostava i grandi fiori con le mani, sentendoli
               morbidamente pungenti, quasi fossero d'accordo a
               frenare la sua corsa, come a volerla assurdamente
               rallentare.Poi, voci concitate ed uno scalpiccio sulla
               terra dura, pestata. L'urlo di sua madre frenò
               in quell'attimo e per sempre, la sua fiduciosa corsa e
               i girasoli le si chiusero attorno. Paralizzata dalla
               paura, aveva atteso di capire. Oltre le corolle
               addormentate li vide avvicinarsi, tre, quattro, coi
               fucili al fianco. Calpestarono gli steli, le tenere
               corolle e la sua acerba femminilità. Avevano
               già caricato suo padre sul camion e lei non lo
               vide più.Impressi nella sua retina, per sempre, i
               girasoli e la fine della sua giovinezza.Il dolore e l'odio crebbero al pari della sua
               solitudine.Sporca, infamata e sola. Non riuscirono a
               scuoterla né il tempo, né le tenere
               parole della madre. Trascinava il suo dramma mese dopo
               mese contemplando le macerie fuori e dentro di lei.
               Non guardava più i girasoli e ad ogni infuocato
               tramonto, si rotolava nel suo dolore.Così un anno dopo era più alta di
               una spanna e più vecchi di un decennio. In una
               mattina livida di maggio, mentre il sole con fatica, a
               tratti cercava di colorare blandamente i gialli fiori
               acerbi nel campo, sentirono bussare alla porta. Non
               interruppero le loro faccende, in campagna, i padroni,
               non si chiudono a chiave. - Entra, Lina. -
               gridò sua madre contro lo sciacquio dell'acqua
               nel lavatoio. Poteva essere solo la vicina, a
               quell'ora. Bussarono di nuovo e di nuovo, gridò
               - Entra, dai, non farmi asciugare le mani. - Nessuno
               varcò quella soglia.Allora, con la calma tipica della gente provata
               e rassegnata, la madre andò alla porta e
               l'aprì.E il mistero le avvolse entrambe. La grande
               quercia annosa a cui la facciata della casa quasi si
               appoggiava, fumava a metà, incenerita dalle
               radici ai rami, così, all'improvviso. Un
               sottile fumo quasi acre o quasi dolce saliva al cielo
               mentre un leggero crepitio confondeva i loro pensieri.
               Il sole si affacciò per un lungo istante tra le
               nubi a dare splendore a quei volti attoniti, a quelle
               argentee ceneri."Dovevo aprire a tuo padre e non l'ho
               fatto!"alla fine della guerra il Ministro
               comunicò che in un giorno imprecisato di quel
               maggio, C. Turati era entrato nel forno crematorio di
               Mathausen. Ma sua madre lo sapeva già, come
               sapeva che Carlo era passato da lei, a salutarla per
               amore, un'ultima volta.Maria, invece, non seppe più nulla.
               Cercò, per molto tempo ancora, nella sua
               razionalità, qualcosa di simile ad un fulmine
               che potesse spingere l'arcano, ma non lo
               trovò.Fuggì da lì, dal dolore e dal
               mistero portandosi dietro entrambi, attraverso gli
               anni e i fallimenti della sua vita per
               l'ostilità di tutto il genere umano che le
               negava ogni benché piccolo atomo di
               felicità. E la traduzione dei suoi stanchi
               anni, ora era lì, in quelle fitte rughe sottili
               che appesantivano lo sguardo di quei magnifici occhi
               azzurri fissi nel tramonto di un'esistenza perduta nel
               rancore.Non aveva mai allentato la presa. L'astio era
               la colla della sua vita e l'aveva invischiata fino
               nell'anima, sottilmente, senza darle tregua. Era
               andata avanti senza respirare, rattrappita nel suo
               mallo spinoso. Adesso era là perché
               l'aveva voluto sua madre.Adesso era stanca. Su quel muretto ormai freddo
               il tempo scivolava piano, come i suoi giorni,
               esasperantemente lenti e sempre uguali. Cattivi.
               Inutili."Devi perdonare. Solo l'Amore può
               sopravvivere, Tuo padre ce l'ha detto, quel dì"
               le sussurrava il vento, con le parole di sua madre,
               vecchie di secoli, ripetute, ripetute... e mai
               ascoltate.D'improvviso il fiato si fece corto, ogni
               certezza si confuse e sopraggiunse la crisi,
               dirompente, inaspettata. In quell'istante, qualcosa
               ruppe la dura corazza e si sentì smarrita, il
               suo cuore si dilatava contro la sua volontà,
               rompeva gli argini portandola chissà
               dove.Allora abbandonò le braccia lungo i
               fianchi, finalmente sfinita, ormai costretta ad
               abbandonare la lotta.Poi di nuovo si impennò, come ad evitare
               una mortificazione alla folle idea di aver sbagliato
               ogni cosa, ancora cercò di ribellarsi al suo
               spirito che tentava una virata."È tutto perduto" si sussurrò
               sgomenta, voltandosi verso la casa della sua infanzia,
               mentre il sole baluginava rosso prima di cedere alla
               notte. Sentiva che l'unica forza che l'aveva tenuta
               viva, stava miseramente crollando. Ne ebbe paura e la
               cercò. Di colpo non riuscì a trovare
               l'odio che conosceva per chi aveva ferito ed
               oltraggiato la sua vita, per chi le aveva strappato
               tutti i sogni. Disperatamente cercò il rancore
               di sempre nel ricordo di quelle ore fra i girasoli
               antichi e, con sgomento, non trovò neppure
               quello. Rinfocolava il ricordo cercando di alimentare
               il vecchio astio, ma dentro non c'era più
               nulla, solo un grande vuoto privo di sentimenti. Una
               tabula rasa su cui incidere il rinnovato miracolo
               della quercia. La sua catarsi.E finalmente si arrese. Le tornò in
               mente un vago ricordo di suo padre e sentì
               presente anche sua madre in quel momento, a
               sostenerla. Qualcuno la indusse a pensare che solo
               ricominciando da loro, poteva salvarsi. Il sentiero
               che l'avrebbe riportata a se, passava tra rovi e
               gelsomini, per tornare sempre alla grande quercia,
               alle sue amorevoli radici.Allora il grande albero ondeggiò le sue
               fronde sul mezzo tronco secco accarezzando lieve il
               muro scaldato dal sole, Maria si strascinò fino
               alla porta e lì, contro quel legno vetusto,
               lasciò che le lacrime vecchie di secoli, la
               spurgassero di tutto il veleno cullato come un figlio,
               per tanti sofferti anni.Accarezzò la quercia con dolorosa
               malinconia. Era l'albero della vita vera, l'albero di
               sua madre, della sacrificata esistenza di suo padre e
               in quell'attimo eterno, si riappropriò del suo
               vivere e della sua terra.I girasoli assopiti nella bassa luce della
               sera, dondolandosi mollemente nella brezza, e
               sbirciando la scena da lontano, sussurrarono al mondo
               e a quell'antica ragazzina che ancora li avrebbe
               sfidati: "Ricorda, solo l'Amore è quel che non
               muore".  |