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Raffaello Malesci 11° classificato alla sezione narrativa del concorso Marguerite Yourcenar 1996 col racconto:
Cristiano
Fuggì un giorno e Cristiano rimase solo, solo nel minuscolo borgo, accudito da una madre non sua ma ugualmente cara. Fuggì dicevamo, ed era suo padre, un grande pilota, ma questo lo seppe solo in seguito. Da allora condivise una vita strana Cristiano, all'inizio non ci fece caso, ma dopo, dopo notò il suo essere particolare, straniero benché esteriormente amalgamato e lontano dal condividere in sé alcun grumo di falsità. Quando si diradarono precocemente le nebbie dell'infanzia, conobbe violentemente la sua diversità fisica e spirituale. Il suo essere biondo in un paese di mori. Il suo sentire diverso, più profondo, più consapevole. Forse un retaggio di altri mondi, stampati dalla nascita nel suo codice genetico, nel suo patrimonio di esperienze e di suoni primordiali.
Gli pareva di discernere cose diverse rispetto agli altri ragazzi, accenti normalmente nascosti nelle letture comuni e ne era spaventato. Cristiano leggeva e la sua interpretazione era imperativamente singolare, avulsa dalla media dei commenti che ci si poteva attendere da un adolescente. Gli insegnanti se ne stupivano e se ne preoccupavano, forse perché non comprendevano quel librarsi agitato nella mente, quella ricerca affannosa che in loro stessi, pur dopo tanti libri, non era mai affiorata. Solo mamma non dava cenni di preoccupazione, sembrava capire, o meglio, più che capire accettare queste attitudini del figlio.
Ogni volta assentiva con un sorriso mesto, che celava incomprensione dal punto di vista logico ed emotivo, ma rivelava l'indulgenza di chi ha raggiunto la sua pace e il suo equilibrio ad un altro livello e sa di dover rinunciare ad interagire con ricerche che si svolgono su piani differenti. A Cristiano questa remissività non piaceva, anche perché covava sempre il dubbio che, in realtà, la madre fosse arrivata a ciò cui lui anelava, e, in un certo qual modo, le rimproverava una mancanza di aiuto concreto. Purtuttavia non avrebbe potuto fare a meno di lei, del suo amore semplice e sbrigativo ma più intenso proprio perché volto alla praticità. Era un rapporto forte e scarno. Esclusivo all'interno della famiglia, forse perché lei era l'unica in grado di accettarlo: quando lo abbracciava pareva non sentire la sua particolarità, la sua malcelata appartenenza ad altre regioni, alternativamente superiori o inferiori.
Più contrastata era la dialettica con la sorella. Quella sorella così diversa, così poco parente a Cristiano, fortemente antagonista con la pienezza delle sue carni olivastre, dei capelli corvini e degli intensi occhi scuri rispetto alla figura esile di lui, biondo e slavato, timoroso del sole pur così presente in quelle lande isolate. Essa vagava per il giardino, vestita solo di lunghe camicie, ampie e scollate, tagliate con le sue stesse mani, dimentica del pudore ma consapevole del fascino atavico delle proprie movenze. Egli invece non riusciva a staccarsi dall'abitudine di celare il proprio corpo il più possibile. Incurante di un'arsura, di cui pareva non avere cognizione. Quasi non vivesse nell'afa della stessa casa, era sempre abbottonato fino al collo e comunque restio a concedersi sia fisicamente che a parole.
Non c'erano padri nelle loro vite e, a memoria, non ce n'erano stati mai. Dopo, in momenti più adulti della sua evoluzione, Cristiano venne a sapere che suo padre esisteva ma non in questi luoghi, non almeno per ora. Egli era partito tanto tempo fa per cercare la sua vera madre, bellissima e altissima nei vagheggiamenti di quella donna che lui si ostinava ugualmente a chiamare mamma. Lei, l'altra, avrebbe potuto capire pienamente quel figlio irrequieto, lo avrebbe potuto guidare su strade a lui più consone e, forse, più felici. Questo però non fu dato, e, al termine di questi racconti, l'invito ad una dignitosa sopportazione giungeva inevitabile da una filosofia asciugata nel realismo e poco indulgente verso illusioni effimere e fugaci.
Di altri padri non si parlò mai. La sorella non venne accomunata all'eroe partito fra le nuvole, né altri genitori vennero alla luce. La famiglia viveva intorno alla mamma, quella donna sola, che, apparentemente in solitudine, aveva generato una figlia a sua immagine e allevava un ragazzo non suo e giunto da rive antiche e sconosciute.
Vivevano isolati dal paese, da quell'arroccamento di case addormentate e a loro volta distanti, quasi assenti, da qualsiasi città degna di questo nome. Camminava dunque Cristiano, aveva camminato fin da sempre, per andare a scuola ogni mattina e per gli acquisti delle cose terrene, poche e necessarie. Ancora oggi lasciava dietro a sé le solite impronte nella polvere, per raggiungere la bottega di un mestiere che lo racchiudeva nella calma tranquilla di una continuità eternamente simile a se stessa.
Fu un giorno, tornando per il sentiero sassoso e assolato che sentì sopra di sé un rombo imponente che tuttavia gli risuonò improvvisamente familiare e conosciuto. Alzò gli occhi al cielo, vide quella macchina volante e la seppe subito riconoscere. La salutò a braccia levate, in un impeto di gioia che l'abitudine ad una vita morigerata gli aveva da lungo fatto dimenticare. Essa passò, rombante e colorata, e sparve lontana e indifferente.
Ritornò, ansante ed eccitato, e chiese ancora una volta di udire la storia ormai narrata per innumerevoli sere nel freddo invernale della loro grezza casa, assemblata con le pietre coriacee della povertà. La storia di suo padre, scomparso nei cieli alla ricerca di sua madre. Quei genitori che appartenevano ed appartengono tuttora ad un altro mondo, di altezze incommensurabili, di carnagioni chiare, di capelli biondi e di anime apparentemente più terse. Seppe allora della promessa del padre di tornare, di tornare a riprenderlo, una volta ritrovata la donna amata, per condurlo finalmente ad altri lidi, là da dove era venuto, dove erano i suoi simili e dove avrebbe trovato un sostrato di consanguineità.
Il giorno dopo non andò al lavoro. Corse lungo la strada fino al campo, al grande campo da dove aveva appreso essere giunto e ripartito suo padre. Era l'unico spiazzo veramente degno di questo nome in una regione di carruggi e di colline. Immenso e sterminato di erba gialla e rinsecchita. Sassoso eppure liscio, levigato quanto basta, gli avevano detto, perché la macchina alata, potente e delicata, potesse toccare terra.
Decise quel giorno. Decise di porre le basi per ciò che era sua convinzione sarebbe dovuto avvenire. Volle costruire una casa, proprio lì, vicino a quella spianata dalla quale dovevano riaffiorare le sue origini e giungere il suo futuro, alieno dalle angustie di quel paese di gente piccola e mora. La costruì grande, immensa e vuota, vuota per adesso, ma tutta da riempire in un futuro di viaggi, di voli lontani che avrebbero fatto più bello il ritorno a quel nido, a quella terra di ocra brulla, che in fondo ormai era costretto a sentire come sua. Così come sarebbe stata riempita da sua madre, che apparteneva al mare, alta ed evanescente come la spuma delle onde, ma anche da quella donna bruna e terrena che era pur sempre anch'essa sua madre. Non volle accondiscendere ai mugugni di lei, né gli inviti a dimenticare cose troppo remote o a non basarsi su sogni effimeri e di incerta realizzazione. Egli sapeva, sentiva quel ritorno come certo e perciò continuò la costruzione con l'alacrità e la fiducia di chi crede di avere infinite giornate per aspirare a tempi migliori.
Attese a quella crociata con la forza di una fede, l'opera fu presto terminata e lì restò, bianca, arroccata su un pendio di fronte a quel lungo piano sul quale dovevano giungere i suoi sconosciuti abitanti. Tornò al lavoro, alla vecchia abitazione di sempre, a colei che lo aveva allevato e alla sorella, scura, che sempre più assomigliava alla progenitrice. Il tempo scorreva lento e la rassegnazione inondava a piccole gocce l'anima confusa di Cristiano. Egli sentiva la necessità di uscire dalla sua vita astratta, rinsecchita ormai su rami che parevano non voler germogliare. Percepiva continuativamente, via via che gli anni passavano, di non poter appartenere ancora a lungo a quel mondo di cui tuttavia riusciva ad assaporare tutti i lati positivi.
Fu sul finire di una domenica d'estate, quando il sole teneva ancora in ostaggio i movimenti di ogni creatura con l'oppressione dei suoi raggi, che Cristiano udì nuovamente quel suono in lontananza. Si levò dal suo giaciglio riarso e scrutò l'orizzonte. Non vide nulla, ma quel suono inconfondibile frizzava ancora chiaro nell'aria circostante. Urlante si precipitò verso il campo e verso il bianco monumento, su cui era caduta la passività dell'accettazione e che, ora, nel breve volgere di un attimo, tornava a rivivere e non pareva più un'inutile chimera.
Anche la madre e la sorella udirono quel suono e per un istante si guardarono con tristezza prima di precipitarsi ad inseguire colui che stava per sfuggire loro per sempre. Sapevano infatti che, in ogni caso, quel sordo rumore significava la fine di un mondo come lo avevano conosciuto, sia che Cristiano fosse o meno rimasto con loro.
Quando egli giunse al sommo della collina che sovrastava la spianata delle sue speranze dense di immortalità, l'aereo già volteggiava a larghe ellissi sopra la casa, quasi curioso di quelle novità. Era rosso e fragile, produceva un rumore intenso e irregolare ma era proprio l'aereo di cui erano popolati i suoi sogni infantili e giovanili. Si sbracciava violentemente ad ogni suo passaggio, Cristiano, ed il velivolo rispondeva variando il suo assetto di volo come una farfalla che sbatte delicatamente le ali irrigidite da un autunno precoce.
Quando si abbassava in picchiata Cristiano non riusciva a vedere bene la cabina, ma più volte gli parve di scorgere una figura bionda, con i capelli raccolti, sorridente da quelle altezze sconsiderate. Ed accanto a lei un uomo, sicuro alla guida di quel mezzo che gli avrebbe finalmente aperto altri orizzonti rispetto a quelli da tempo conosciuti.
Stava ancora salutando l'ennesimo volteggio radente, quando sentì levarsi dietro alle sue spalle un vento gelido e pungente. Si voltò e vide nuvole scure e immense, stagliarsi alte nel cielo come colonne minacciose subito dietro a due figure in lontananza che stavano affannosamente cercando di raggiungerlo. Erano sua madre e sua sorella, o meglio, la madre e la sorella di un tempo, che ora tornavano, venivano, forse, anche loro a partecipare alla sua gioia, inseguite da quelle nere scogliere brontolanti.
Le due sagome femminili furono illuminate nella loro corsa affannosa dallo squarcio di un fulmine, abbacinante nella sua necessaria crudeltà. Il vento crebbe e le nuvole color catrame avvolsero velocemente la sua vecchia madre per andare incontro alla nuova, sovrastando e opprimendo la casa vuota sul pendio. La pioggia, di solito rara e parca in queste terre, incominciò a martellare la sua rivincita con violenza inaudita.
Il piccolo aereo, non più attento ai gesti disperati di Cristiano, prese a lottare sballottato dal fortunale e sfiorato da lampi luminosi che ne stagliavano la sagoma rossa contro il nero baluginante delle nubi. Cristiano non riuscì più a vedere la donna bionda nella cabina, ma confidava in suo padre, che gli aveva promesso tanto tempo fa, per diritto di nascita, una nuova vita. Lottando con il vento tumultuoso il velivolo compì un altro giro sopra l'altura e si accinse a scendere su quel piano che sembrava essere stato creato appositamente per accogliere quel piccolo marchingegno così prodigo di miraggi.
Pareva oramai a terra, sembrava che le ruote già toccassero i fili d'erba piegati dal peso dell'acqua scrosciante, quando un refolo crudele e beffardo sollevò quella rossa navicella a motore e ne fece inclinare la rotta. Fu scossa e dimenata per poi andare ad infrangersi con un rombo e un'esplosione immensa contro la bianca casa sulla collina. Tutto arse in un istante e la costruzione crollò sui resti di quell'aereo che non avrebbe mai rivelato il suo carico.
Urlò Cristiano, e stava per gettarsi verso quel rogo che bruciava l'archetipo della sua vita, ma fu bloccato. Fermato dal braccio ancora forte di sua madre, la sua vecchia madre, che lo ricondusse indietro con quella stretta pratica, ferma ma dolce, col suo amore calmo e sbrigativo. Lo ricondusse piano, sotto la pioggia. Non disse niente, ma quella mano calda nella sua gli fece capire che, spesso, è necessario saper vivere anche senza speranze.
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