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               La
               fotografia
 Ho sentito dire che
               i nostri primi ricordi risalgono all'età dei
               tre anni e che fino a quell'età non abbiamo
               memorie. So che non è vero: quando morì
               Erasmo avevo sì e no due anni e mezzo, eppure
               la disperazione di quei giorni mi è rimasta
               inchiodata negli occhi e mi ha aperto una ferita che
               forse non si è mai rimarginata completamente. A
               volte penso che questa mia tristezza senza tregua ed i
               labirinti di paure in cui mi sono sempre dibattuto
               siano germogliati il giorno in cui morì mio
               fratello. Quando
               arrivò mio padre a prendermi a casa di nonna
               Anna io stavo giocando nel cortile. Papà mi
               sorrise e mi arruffò i riccioli, ma intuii che
               era successo qualcosa di terribile. Entrò in
               casa per parlare con i nonni, ma tutto d'un tratto non
               avevo più voglia di giocare e dopo qualche
               minuto lo seguii. Li trovai che piangevano tutti,
               tutti tranne papà: lui era come distante,
               diverso dal solito papà. Non capivo. Gli
               prendevo la mano per rassicurarmi che quell'uomo di
               pietra fosse ancora il mio babbo e lui me la stringeva
               forte, ma senza guardarmi. Bisbigliavano tutti e
               cercavano di parlare un linguaggio segreto che mi
               sfuggiva. Mi ricordo che ebbi paura, per la prima
               volta nella mia vita e nell'incertezza dell'ignoto
               scoppiai a piangere, chiamando la mamma fra lacrime
               inconsolabili; allora la nonna mi prese in braccio e
               mi asciugò le guance con il palmo della mano,
               mentre lei tirava su col naso. Tornammo a casa,
               papà ed io, in silenzio. Faceva freddo.
               Attraversammo la piazza del paese e ricordo che la
               gente ci guardava con un'espressione strana, quasi con
               vergogna, improvvisamente ammutoliti al nostro
               passaggio. Papà camminava rigido, con un passo
               lungo e veloce che mi faceva correre ed inciampare
               continuamente. Mi aggrappavo al suo braccio per paura
               di cadere così lui mi sollevò per aria e
               mi caricò a cavallo sulle spalle. Ci
               incamminammo sul sentiero che portava alla nostra
               cascina lasciandoci alle spalle anche l'ultima casa
               del paese; l'impazienza di vedere la mamma mi gonfiava
               il petto. Papà non diceva una parola; io gli
               circondavo la testa con le braccia e gli stringevo il
               viso con le mani per tenermi in equilibrio, quando
               d'improvviso le sentii bagnate di lacrime
               tiepide. Arrivati a casa
               volai fra le braccia di mia madre per rassicurarmi che
               tutto era bello e sereno e che il mondo era ancora
               quello di sempre. Solo allora vidi Erasmo: stava ad
               occhi chiusi disteso sul tavolo della cucina che era
               stato coperto da un lenzuolo bianco e ricamato. Non
               capivo perché dormisse in un posto tanto
               strano, tutto vestito di bianco e con quei quattro
               candeloni agli angoli. Fissai pieno di ansia la mamma
               che mi teneva stretto fino a farmi soffocare: lei non
               piangeva, ma aveva gli occhi gonfi; quando mi parlava
               le sue labbra tremavano e la voce le usciva incerta
               dalla bocca perdendosi nell'aria. Impaurito mi
               accoccolai sul suo grembo per un periodo
               interminabile, la testa appoggiata sul suo seno e
               finalmente riuscii ad addormentarmi, cullato dal
               battito soave del suo cuore. Mi svegliarono i
               colpi di martello: ero nel letto grande dei miei
               genitori, ero solo, ed ero al buio. Una striscia di
               luce scivolava sottile da sotto la porta che portava
               in cucina. Balzai dal letto e mi ci avvicinai con
               trepidazione. Socchiusi piano la porta e un bagliore
               improvviso mi accecò: intorno al tavolo c'erano
               tutte le persone che conoscevo, tutte tranne mio
               padre. Erano vestiti di nero e le donne pregavano con
               i rosari fra le dita recitando una cantilena monotona
               e triste. Un uomo si nascondeva dietro un panno nero
               che celava una strana macchina sorretta da lunghe
               gambe di metallo. Sentii di nuovo i colpi di martello:
               provenivano dalla stalla. Poi entrò mio padre:
               portava sotto il braccio una cassetta di legno
               inchiodata semplicemente, appena più grande
               delle cassette che riempivamo di frutta da vendere al
               mercato. Alla vista della cassetta la mamma emise un
               urlo soffocato, portandosi un fazzoletto alla bocca.
               Spalancai gli occhi, incapace di muovermi. Tutti
               stavano in silenzio, senza più muoversi: gli
               uomini fissavano il pavimento, le donne piangevano,
               alcune si stringevano intorno alla mamma. Vidi nonna
               Anna avvicinarsi e mettere sul fondo della cassetta un
               cuscino bianco che sembrava di seta. Fu a quel punto che
               successe. La mamma prese fra le braccia il mio
               fratellino addormentato e lo baciò sulla
               fronte, ancora e ancora. Era pallida, sfigurata, le
               sue mani tremavano tanto che temevo facesse cadere
               Erasmo per terra. Non sembrava nemmeno più la
               mia mamma. La vidi posare mio fratello nella cassetta.
               Trattenni il respiro, terrorizzato Anche mio padre
               baciò Erasmo e gli toccò piano le dita
               della manina. Poi, incomprensibilmente, vidi con
               orrore che papà chiudeva la cassa con un
               coperchio e che cominciava ad inchiodarla, battendo
               forte con il martello.«Nooo!!!».L'urlo mi
               uscì feroce dall'anima, pieno di disperazione.
               Mi precipitai nella stanza e mi buttai sulla cassa:
               cercavo di aprirla, graffiavo il legno con le unghie,
               smaniavo per fare in fretta, ma il primo chiodo era
               già ben saldo nel legno. Gridai
               isterico:«Non c'ha
               l'aria, non c'ha l'aria! Aprite, aprite! Erasmo non
               c'ha l'aria!».Mo padre si
               fermò di colpo, incapace di reagire. Mia madre
               corse verso di me, ma per tenermi a bada ebbe bisogno
               dell'aiuto della nonna perché mi svincolavo
               dalla sua stretta e calciavo come un
               matto. Da quel giorno
               iniziai a soffrire di incubi che dovevano
               perseguitarmi per anni. Ancora oggi, ormai vecchio, ho
               terrore dei posti chiusi e se alla sera mangio troppo
               mi sveglio nel mezzo della notte coperto di sudori
               freddi, con un martello che mi batte impietoso nella
               testa. La mattina dopo il
               funerale mia madre mi svegliò prima dell'alba.
               Era quasi Natale ed eravamo sotto zero: la stanza era
               gelida e lunghi coni di ghiaccio pendevano fuori dalla
               finestra. Io non volevo lasciare il rassicurante
               tepore del mio letto ma la mamma mi prese fra le
               braccia e mi portò di corsa davanti al fuoco
               del camino nella cucina per vestirmi.«Dove
               andiamo?». Chiesi con una voce impastata dal
               sonno e stropicciandomi gli occhi.«Andiamo a
               prendere una cosa molto importante: la fotografia di
               Erasmo. Sai, è come un disegno del tuo
               fratellino, ma più bello di un disegno,
               è come se fosse ancora
 Beh, è
               proprio come lui, e lo potremo guardare sempre, ogni
               volta che ce ne viene la voglia. Sarà come se
               stesse qui, a casa con noi».Uscimmo di casa che
               albeggiava e ci incamminammo verso il bosco di pioppi
               che dovevamo attraversare per raggiungere il fiume. La
               prima luce del giorno tingeva il mondo di una luce
               tenue ed azzurrina; il ghiaccio aveva ricoperto campi
               ed alberi di cristallo scintillante e la terra
               scricchiolava sotto i nostri piedi. Eravamo
               imbacuccati con vari strati di maglioni di lana e
               cappotti spessi un dito, ma camminavamo forte per
               combattere quel freddo polare ed il nostro fiato caldo
               che volava al cielo sembrava essere l'unica cosa viva
               nel bosco impietrito dall'inverno. Di tanto in tanto
               guardavo in alto, verso mia madre, ma lei aveva la
               testa ed il viso coperto da una sciarpa di lana scura
               e le si vedevano solo gli occhi chiari ed alcuni
               riccioli ribelli. Ci volle una buona
               mezz'ora prima che raggiungessimo l'argine. Il
               fotografo abitava dall'altra parte del fiume;
               attraversammo il ponte di barche sul Po e il villaggio
               spuntò d'improvviso dietro una curva. Arrivammo
               al negozio che ancora non erano le otto, ma mia madre
               non aveva dormito per il dolore e per l'impazienza di
               ritrovare l'immagine del figlio morto nel trucco
               magico di un cartoncino di carta in bianco e nero.
               Consumata da un'ansia disperata era stata incapace di
               aspettare e si era alzata che era ancora buio, ed
               adesso aspettava l'apertura del negozio con la stessa
               avida anticipazione del condannato a morte che aspetta
               la grazia due ore prima dell'esecuzione. Il fotografo ci
               vide per caso attraverso il vetro appannato della
               finestra della cucina sovrastante la bottega, quando
               era ancora in pigiama e teneva in mano una tazza di
               caffè fumante e zuccherato. Mancava più
               di un'ora all'apertura ma dovemmo fargli pena, seduti
               come eravamo su quel gradino ghiacciato, intirizziti
               dal freddo, soli come due cani randagi. Si
               coprì con il tabarro e scese per aprirci la
               porta. Ci portò nel retrobottega dove la
               fotografia di Erasmo stava ancora appesa ad un filo ad
               asciugare. Mia madre l'accolse senza respirare, con
               una trepidazione infinita e con la santità con
               cui si tocca una reliquia. Ci fu un attimo di assoluto
               silenzio. Di colpo gli occhi della mamma si fecero
               più grandi. Nessuno parlava. Guardai il
               fotografo: il pover'uomo aveva gli occhi lucidi e
               fissava con profonda pietà il volto della
               mamma, che improvvisamente si era illuminato
               d'amore. Lasciammo il
               negozio per tornare a casa, ma appena usciti dal paese
               la mamma si fermò per accarezzare l'immagine
               del suo bambino, facendo attenzione affinché i
               suoi baci non sciupassero la carta. Facevamo trecento
               metri e lei già non resisteva più;
               così ci fermavamo di nuovo e lei ritoglieva
               dalla borsa il ritratto di Erasmo per rimirarselo
               avidamente. Ci mettemmo un tempo infinito per arrivare
               alla nostra cascina. Io morivo di fame, ma prima di
               farmi mangiare la mamma corse a prendere il suo
               ritratto di nozze: aprì la cornice e
               sostituì la sua fotografia con quella di mio
               fratello. La mise poi in bella vista sulla credenza e
               da quel sabato lei non si separò mai più
               da quell'immagine: di sera se la portava in camera da
               letto e ogni mattina la rimetteva in cucina.
               Compì questo rituale tutti i giorni,
               immancabilmente, per tutta la sua lunga vita. Quando
               sessant'anni dopo si ammalò gravemente ed
               entrò in ospedale, non dimenticò di
               portare con sé il suo prezioso
               ritratto. Spirò dopo
               pochi giorni. Una giovane infermiera dai capelli rossi
               e il viso pieno di efelidi mi aiutò a liberare
               il suo comodino. Mi trovai fra le mani la fotografia
               di Erasmo: chi si sarebbe preso cura di quel ricordo
               ora che mamma se n'era andata? Fissavo quell'immagine,
               incapace di riporla nella borsa assieme alle altre
               cianfrusaglie senza valore. Non credo in Dio, ma mi
               ricordo che in quel momento non potei fare a meno di
               chiedermi se la mamma lo avesse finalmente raggiunto,
               il suo piccolo Erasmo: forse adesso non aveva
               più bisogno di quel cartoncino tutto sgualcito.
               Chissà poi perché avevano scelto un nome
               tanto strano per un bambino. La giovane
               infermiera mi si avvicinò, scuotendomi da quei
               pensieri. Rimirò incuriosita quella vecchia
               fotografia d'altri tempi, tutta ingiallita. In un
               primo momento non osò farmi domande, ma visto
               che non mi decidevo a metterla via, non resistette
               alla tentazione e finì per chiedermi
               timidamente chi fosse quel neonato gracile con i
               pugnetti chiusi, che sembrava quasi dormire su quel
               bel cuscino ricamato di seta bianca.
               
               
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