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               Il
               rivale (Ospedale
               Psichiatrico di T. 18 agosto 1964 - Cella
               d'isolamento) «Tommaso, mi
               sente? Sa dove si trova adesso? Tommaso, mi risponda:
               capisce cosa le sto chiedendo?» La voce è
               così lontana... Mi giunge come un'eco nella
               notte penetrando cristallina il buio profondo in cui
               sono affondato. Ma io non voglio aprire gli occhi, ho
               paura della luce. La lampadina è proprio sopra
               la mia testa e mi abbaglia trafiggendomi come una
               spada. No. Non voglio aprire gli occhi. Non voglio
               sentire questa voce. Cerco di girarmi nel letto e di
               nascondere la testa sotto il cuscino, ma nello scatto
               sento un dolore ai polsi e mi accorgo di non riuscire
               più a piegare le gambe. «Slegatemi
               maledetti!!! Slegatemi!!!! Voglio uscire. Chi siete?
               Cosa volete da me? Slegatemi!!!!» Sbarro gli occhi,
               assalito dall'affanno e dalla paura. La voce che mi
               chiamava da lontano è lì, davanti a me.
               È di una donna alta e bionda: indossa un camice
               bianco ed ha i capelli raccolti sulla nuca. Cosa vuole
               da me? Urlo e mi dibatto ma le cinghie di cuoio mi
               fanno male e allora io urlo più forte. Vedo che
               la donna estrae frettolosamente una siringa e una
               fiala. «Cos'è
               quella roba? Vada via, vada via le dico. Non voglio
               niente. Assassini!!! Slegatemi! Voglio andare a casa.
               Assassini... Assassini!» Sento l'ago che mi
               entra nel braccio, veloce e leggero come la puntura di
               un insetto. Qualche secondo, ed è di nuovo la
               pace. Mi risveglio che
               è pieno giorno. Ho tanta sete e la bocca
               impastata. Mi sento sporco e incredibilmente stanco.
               Sono ancora legato e le fasce di cuoio sui polsi mi
               fanno male. Le mie braccia sono rosse ed ho delle
               fiacche vicino alle stringhe. Mi sento bagnato... Oh
               Dio mio! Devo essermi pisciato addosso!!! Dio mio, la
               vergogna, la vergogna...Mi guardo intorno:
               la stanza è piccola e alta come una torre. Le
               pareti sono vecchie e sgretolate e negli angoli la
               calcina è imbevuta di umidità e muffa.
               Non c'è niente, tranne il mio letto ed un
               tavolo di ferro bianco. La finestra è ridicola,
               minuta e tanto in alto che dietro le sue sbarre si
               vede solo cielo: un cielo azzurro e delle nuvole
               bianche che si rincorrono nel vento, che fuggono
               leggere davanti ai miei occhi opachi e gonfi. Ho una
               tale confusione in testa. Come sono finito
               qui? All'improvviso mi
               vieni in mente, mia piccola Giulia. Dove sei amore
               mio? Perché mi hai lasciato? Vienimi a prendere
               Giulia: io ho tanta paura. Non lasciarmi solo. Come
               hai potuto dimenticare tutto quello che c'è
               stato fra di noi? Come ha potuto farmi tanto male?
               Perché tradirmi con un porco
               simile? Di colpo l'immagine
               di Giulia e Paolo insieme mi riempie la testa ed il
               cuore: siamo in cucina. Lei è ai fornelli e lui
               le si avvicina dal dietro. La sua mano scivola sui
               suoi capelli, poi sul suo collo. Segue leggera il
               profilo delle sue spalle e le stringe amorosa il
               braccio, mentre le sue labbra si posano dolci vicino
               al suo orecchio... Sì, quello
               lo ricordo bene, e adesso sento il vomito salirmi su
               dallo stomaco per la rabbia. Maledetto bastardo!!! Me
               l'hai portata via. Era mia, solo mia! Tu non la
               conosci. Che ne sai tu di lei? Niente, un bel niente!
               Tu sei solo un porco. Non sei degno di
               toccarla! Giulia, mia piccola
               Giulia... Io ti conosco da sempre, da quand'eri
               bambina. Dio come t'ho amato! Che ne sa lui di com'eri
               da piccola? Che ne sa lui delle nostre corse nei campi
               verdi; di quando salivamo sul trattore e giocavamo a
               fare i contadini? Lui non sa di quando cadevi e ti
               sbucciavi le ginocchia e poi piangevi sconsolata
               correndo da me. Io ti ripulivo dal sangue e ti baciavo
               le ferite per farti passare il male. Poi ti asciugavo
               le lacrime con il palmo della mano, mentre tu
               già sorridevi felice, pronta a seguirmi in capo
               al mondo, ovunque avessi voluto portarti. «Tommaso, che
               farai quando sarai grande?» «Andrò
               in città e farò un mucchio di soldi. Poi
               tornerò a prenderti su una macchina rossa e
               lunga 10 metri. Sai, di quelle americane con i vetri
               scuri ed i sedili in pelle!» «Davvero
               tornerai a prendermi? Non ti dimenticherai di
               me?» «Ma certo che
               no, stupidina! Come potrei dimenticarmi di te?
               Tornerò e poi ti
               sposerò» Tu ridevi di nuovo,
               tranquilla e felice al mio fianco. Dovevi avere 8 o 9
               anni. Ed io 11 o 12. Eravamo sempre insieme, da
               mattina a sera. Ricordi Giulia? Tutti i giorni
               facevamo insieme la strada sull'argine che portava a
               scuola e durante la ricreazione nel cortile tu non
               giocavi mai con le tue compagne. Venivi da me e ci
               scambiavamo sempre la merenda perché tua madre
               si ostinava a darti pane e formaggio e tu quel
               formaggio proprio non lo sopportavi. «Sa di
               pecora: di cacca di pecora!» mi dicevi
               ridendo.Com'eri bella:
               così esile e chiara che veniva voglia di
               stringerti al petto fino a stritolarti. D'estate al
               fiume ti scottavi sempre e dopo un paio d'ore al sole
               ti si pelava il naso. Anche quand'eri più
               grande era lo stesso; così finito il bagno te
               ne andavi all'ombra dei castagni a studiarti i libri
               di latino e ti impiastravi il naso con una pomata
               bianca che ti copriva metà faccia. «Sembri una
               della tribù dei pellirossa, ma guarda che
               disastro sei!!» ti dicevo serio. «Mica tutti
               hanno una pelle d'asino come te, che sembri un
               arabo!» Allora facevo finta
               di arrabbiarmi e ti correvo dietro. Finivo per
               catturarti e ti trascinavo a terra con me a lottare
               sull'erba tenera. Sentivo il tuo soffice corpo
               svincolarsi dalla mia stretta mentre ridevi e gridavi
               come un cucciolo felice, ed io ti tenevo stretta a me,
               sempre più stretta, con il mio viso nascosto
               nei tuoi capelli biondi e respiravo ad occhi chiusi
               quel tuo profumo soleggiato ed estivo: era un profumo
               che sapeva di giovinezza, un miscuglio dell'aroma del
               tuo corpo, di acqua di fiume e di creme solari. Era il
               tuo profumo, solo tuo. Non l'ho mai più trovato
               in nessun'altra donna. Tu gridavi «lasciami
               disgraziato, lasciami!» ma ridevi, ed io mi
               perdevo nel calore di quel tuo corpo d'adolescente,
               con il mio viso affondato nei tuoi capelli soffici e
               biondi, mentre il tuo respiro affrettato cantava una
               canzone alla mia anima. Poi mi ricordo che di colpo
               sentii il tuo seno pieno di donna schiacciato sotto di
               me e mi resi conto improvvisamente che ti eri fatta
               grande, che quegli occhi di bambina mi guardavano
               adesso con un'espressione diversa: seri e maturi.
               Turbato ti lasciai andare, senza più trovare il
               coraggio di guardarti o di stringerti golosamente
               contro il mio corpo...Poi un giorno
               arrivò lui, a separarci per sempre. Da un
               giorno all'altro non avevi più tempo per me.
               «No, Tommaso, devo studiare oggi. No, Tommaso,
               stasera non posso. No, Tommaso mi spiace. Sarà
               per un'altra volta». Che stupido ero!
               All'inizio pensavo veramente che tu non potessi, che
               fosse perché avevi gli esami di maturità
               ed aspettai pazientemente che tutto tornasse come
               prima, ma con un nodo in gola. Intanto tutti i miei
               amici avevano la ragazza e mi prendevano in
               giro. «Allora
               Tommaso: che, vuoi rimanere vergine fino a 40 anni o
               è che non ti piacciono le
               donne?» Ridevano e non
               sapevano che aspettavo te, solo te. Ma tu passasti
               l'esame ed ancora non avevi tempo per me. Poi un
               giorno mia madre disse con noncuranza che ti eri
               fidanzata con uno di città: uno studente di
               medicina con i soldi. «Beata lei! -
               commentò mia madre - andrà a vivere in
               un appartamento con i caloriferi e l'ascensore e
               avrà anche una serva per aiutarla a fare da
               mangiare e a pulire il culo ai figli! Qui avrebbe solo
               finito per lavorare in campagna!» Uscii sbattendo la
               porta e corsi a casa tua: «È vero
               quello che dicono in paese? È vero che sposi
               quel finocchio di città?» «Tommaso, non
               essere stupido! Paolo non è un finocchio e tu
               dovresti essere felice per me. E non guardarmi
               così: siamo adulti adesso. Doveva succedere
               prima o poi. Anche tu t'innamorerai qualche giorno di
               questi ed io sarò felice di venire al tuo
               matrimonio. Tommaso, ma cos'hai? Perché mi
               guardi così? Mi fai paura...» Uscii sbattendo la
               porta e in quel momento ti odiai fino all'anima e
               promisi a me stesso che non avrei mai più
               pensato a te. Sei mesi dopo ti sposasti e io non venni
               al matrimonio. Non potevo, Giulia. Proprio non potevo.
               Mia madre non capiva e cercava di convincermi e di
               comprendere quello che stava succedendo: «Ma insomma,
               Tommaso! Gli zii ci sono rimasti così male che
               non c'eri al matrimonio. Ho dovuto dire che eri
               ammalato, che ti spiaceva tanto non esserci! Ma
               com'è possibile che non volessi venire al
               matrimonio di tua cugina? Ma se eravate inseparabili
               da piccoli! Suvvia, valla a trovare. Giulia era
               così dispiaciuta... Chiedeva continuamente di
               te e si vedeva che ti cercava con lo sguardo durante
               tutta la cerimonia. Sembrava così triste... Mi
               ha detto che devi andare a trovarla nella sua nuova
               casa, al più presto». Ci venni a trovarti
               e Paolo mi strinse anche la mano, quel verme. Tu ti
               affaccendavi a preparare la cena ed io non dissi una
               parola. Dio, com'eri bella Giulia: il tuo corpo era
               più pieno: eri diversa, più donna,
               più sicura di te. Qualcosa ti aveva cambiato.
               Eri tutta accaldata ed un velo di sudore ti copriva la
               fronte. Paolo parlava e parlava. Io lo guardavo e
               pensavo solo a come lo abbracciavi di notte nel letto,
               a come ti accoccolavi nelle sue braccia prima di
               dormire. Lui parlava e parlava e io lo odiavo con
               tutto me stesso, sempre di più. Ti fissai: eri
               nervosa. Facevi cadere tutto a terra e ti eri fatta
               pallida. Guardai Paolo e gli chiesi di
               botto: «e dimmi
               Paolo, ti ha raccontato Giulia di tutto il bene che ci
               volevamo noi due da bambini? Di tutto il bene che ci
               siamo sempre voluti? E tu, Giulia, dì, glielo
               hai raccontato di quando ci promettevamo di stare
               sempre insieme: di quando ti abbracciavo e tu mi
               dicevi che volevi essere mia moglie?»«Dai, Tommaso
               non fare lo scemo... Eravamo solo bambini. Erano le
               promesse di due bambini! Non fare così
               adesso...» Mi guardavi
               implorante, bianca come uno straccio. Paolo si
               fermò con il bicchiere a mezz'aria senza sapere
               cosa aggiungere, o che attitudine prendere. Ci fu un
               attimo di silenzio pesante come il piombo. Poi disse
               allegramente: «Beh, il
               passato è il passato Tommaso. Perdonerò
               la mia mogliettina per il suo crudele tradimento di
               tanti anni fa e perdonerò anche te: in fondo
               siamo parenti adesso! Alla tua,
               cugino!» Ridemmo tutti e
               tre, ma quella notte non riuscii a dormire pensandovi
               insieme a fare l'amore, quando tu dovevi stare con me,
               solo con me! Puttana!! Sei una puttana Giulia! Eppure
               io ti amo, quanto ti amo amore mio!... Da quando ti
               sposasti non riuscivo più a dormire o a
               mangiare. Ero corroso dalla gelosia che mi divorava
               vivo. Mia madre piangeva e voleva che andassi dal
               medico. Diceva che ero strano, che non ero più
               suo figlio. Dopo qualche mese persi il lavoro in
               fabbrica e cominciai a bere come un pazzo. Passavo
               tutto il giorno al bar a scolarmi bottiglie di grappa
               e di cognac e a pensarti felice, mentre scopavi con
               quel mollusco. Bevevo fino a vomitare, fino a perdere
               conoscenza e ritrovarmi all'alba addormentato sotto
               qualche lampione di un posto che nemmeno conoscevo.
               Era un dolore senza tregua, che mi distruggeva il
               fegato e la vita. Un giorno ti vidi apparire in
               piazza. Era agosto e faceva un caldo boia. Stavo al
               bar, seduto all'ombra e con le mosche che mi
               perseguitavano. Tu scendesti dalla corriera ed io
               sentii improvvisamente il cuore farsi polvere. Eri
               incinta di lui, di quel porco. Ti avvicinavi a me con
               un sorriso teso, con quel passo da papera che hanno le
               donne incinta. «Ciao,
               Tommaso. Tua madre mi ha telefonato. Dice che non stai
               bene, che ti stai rovinando la vita... Mi ha pregato
               perché venissi a parlarti. Piangeva tanto,
               poverina. Dice che Dio la sta castigando per un
               peccato che non ha commesso. Tommaso, ma mi
               senti?» «Che ci fai
               qui, puttana? Sei venuta a farmi vedere che stai per
               avere il suo bastardo?» Vidi il tuo viso
               impallidire di colpo, mia piccola Giulia. La tua bocca
               sparì sotto una smorfia di dolore. Già
               mi ero pentito di quello che avevo appena detto. Avrei
               voluto chiederti perdono, dirti che ero un vigliacco,
               che ti amavo... era solo che non potevo sopportare di
               vederti gonfia di un figlio che quell'uomo ti aveva
               piantato nella pancia! Però era troppo tardi.
               Vidi solo che i tuoi occhi erano bagnati di lacrime,
               che mi stavi lasciando per correre via sotto il peso
               della gravidanza. Sparivi nell'afa appiccicosa di quel
               giorno d'agosto, allontanandoti in quella lurida
               piazza di paese. Ed io? Io ti guardavo senza fare
               niente.La colpa era sua,
               solo sua. Era tutta colpa di Paolo! Adesso sono qui,
               legato a questo maledetto letto. Sento la chiave
               girare nella toppa della porta. È lei, la donna
               in camice bianco. Cosa vuole ancora da me? Giro la
               faccia dall'altra parte e guardo le nuvole al di
               là delle sbarre della finestra. Che cosa strana
               sono le nuvole: acqua che vola, vapore che fugge dal
               mondo. Anime candide che corrono lontano dal male che
               ci attanaglia la vita, a noi uomini. Fuggono dalla
               nostra sofferenza, o chissà, forse solo
               perché noi gli facciamo schifo. Dove
               finirà mai quella nuvola? Forse cadrà
               come pioggia sul tuo balcone Giulia, e tu sarai triste
               pensando a me. Capirai tutto e correrai qui, a
               chiedermi perdono per tutto il male che mi hai
               fatto... «Tommaso, come
               sta? Va meglio?» «Vada via, non
               voglio parlare. Voglio Giulia, solo lei. La chiami la
               prego, io devo, devo parlarle...» «Tommaso, mi
               ascolti: si ricorda di quello che è successo
               ieri sera? Si ricorda di quello che ha fatto quando
               andò a casa di sua cugina?» Sì,
               sì: ora mi ricordo... ma tu sta' zitta adesso!
               Ero ubriaco fradicio. Quasi non mi reggevo in piedi.
               Avevo così vergogna di me stesso, Giulia.
               Volevo chiederti perdono. Volevo che tu ti
               dimenticassi delle cose orribili che ti avevo detto in
               piazza. Come avevo potuto farti così
               male? Ti telefonai, ma tu
               eri arrabbiata con me e non volevi sentire ragioni.
               Scoppiai a piangere come un bambino, farfugliandoti
               fra le lacrime che mi vergognavo, che ti volevo tanto
               bene e avevo bisogno di dirtelo, di inginocchiarmi
               davanti a te e di implorare il tuo perdono. Alla fine
               tu mi dicesti di sì, che potevo venire a cena a
               casa tua, ma solo a patto che non facessi storie,
               perché Paolo non lo avrebbe sopportato questa
               volta. Ti ringraziai piangendo, baciando e ribaciando
               il telefono nero del bar, mentre intorno si era fatto
               un gran silenzio e mi guardavano tutti. Suonai il tuo
               campanello a fatica, tremando dall'emozione e pieno
               d'alcol fino alle ossa. Quando Paolo aprì la
               porta gli caddi addosso. Lui mi sollevò e mi
               aiutò a sedermi al tavolo. Tu eri talmente
               tesa... Avevi un'espressione triste e gli occhi pieni
               di lacrime. Chissà: forse era solo pena che ti
               facevo. Forse l'amore era solo nel mio cuore, o nel
               fondo di una bottiglia di grappa. Andasti in cucina
               con la scusa di togliere l'arrosto dal forno e lui ti
               seguì premuroso per cercare di consolarti. Ti
               seguì quel finocchio. Vi vidi in cucina,
               insieme, complici contro di me. Lui si avvicinava dal
               dietro. La sua mano scivolava sui tuoi capelli, poi
               sul tuo collo. Seguiva leggera il profilo delle tue
               spalle e si stringeva amorosa sul tuo braccio; mentre
               le sue labbra si posavano dolci vicino al tuo
               orecchio... Fu allora che l'ira
               esplose dentro di me, incontrollabile, più
               forte di un uragano. Fu allora che mi precipitai in
               cucina come un pazzo. Afferrai il forchettone
               dell'arrosto e urlando mi buttai contro Paolo. Ricordo
               solo le tue grida, Giulia... ricordo che ti buttasti
               sopra di me, che urlavi di smetterla, per l'amore di
               Dio, per l'amore che sentivo per te. Ma io non potevo
               salvarlo. Era tutta colpa sua. Ci aveva diviso, aveva
               distrutto il nostro amore. Io dovevo liberarti di lui,
               di quel bastardo che tenevo fermo sotto di me, che
               voleva un figlio dal tuo corpo!!... Lui ebbe solo il
               tempo di gridare qualche parola: «Giulia,
               allontanati! Scappa Giulia...» Fu troppo: alzai il
               braccio verso il cielo, poi lo abbassai con furia e
               gli piantai il forchettone dell'arrosto nel collo.
               Glielo conficcai dentro, con rabbia infinita, fino a
               che sentii che si piantava dall'altra parte, nel legno
               del pavimento, inchiodandolo per sempre sotto di me.
               Ormai non si muoveva più, ma io continuavo a
               spingere, forte, spingevo sempre più forte,
               mentre tu urlavi inorridita e gridavi il suo nome e ti
               buttavi sul suo viso che adesso sprizzava sangue dalla
               gola e dalla sua bocca aperta come da una fontana. Era
               finita. Adesso era davvero finita. «Tommaso, mi
               sente? A cosa sta pensando? Si ricorda cosa successe
               ieri sera a casa di Giulia? Tommaso, mi
               risponda...» Riapro gli occhi e
               piango in silenzio: è un pianto senza suono. Le
               lacrime mi scendono lucide sulle guance. Ma cosa vuole
               questa donna da me? Giro la testa verso la finestra e
               guardo le nuvole bianche e leggere che volano nel
               cielo terso dell'estate: chissà mai dove
               andranno a finire... |