Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
 
Fabrizio Griffa

L'albero di carta

 
I grilli cantavano quella notte ed era un canto melodioso, una ninna-nanna che cullava il riposo della terra, delicato come un dolce sussurro che ti entra sotto pelle. Non c'erano nubi ad oscurare il chiarore delle stelle e la luna era lassù, sola nel cielo, a vegliare i pensieri di tutti coloro che , alzando la testa, si fermavano ad ammirarla. Quell'enorme luna che prima che arrivi il giorno, in silenzio si cala dietro le alte montagne nascondendo la sua bellezza, per un altro giorno ancora, così per anni, così da sempre.
Nell'aia c'era pace, nemmeno il leggero vento, con la sua brezza, sembrava volesse far troppo rumore per non rovinare quel quadro incantato.
Le luci della cascina erano spente, tranne quella della cucina, dove Leandro sedeva ancora sulla vecchia sedia a dondolo che costruì suo padre.
Erano forse le undici, o mezzanotte, o addirittura più tardi. Leandro odiava il tempo e nessun orologio era mai entrato nella sua mente, nessun minuto o secondo avevano mai scandito gli istanti della sua vita, nessun ritardo lo aveva mai preoccupato e quando fu solo, fermò anche l'unico orologio di casa e lo mise in soffitta per sempre insieme alle tante cose da dimenticare.
"Il tempo esiste soltanto per chi non ha tempo, o per chi ha troppa fretta di vivere".
La tavola era ancora apparecchiata. Il vino, ormai caldo, era lì, tra il piatto dell'insalata lasciata a metà e un tozzo di pane scuro, quello casereccio. Quella sera non ebbe molto appetito, anche se la giornata era stata lunga e parecchio faticosa. Le mani secche e callose gli dolevano "maledette zappe !", ma il sonno non lo chiamava ancora.
Sulla superficie marmorea del tavolo giaceva ancora il giornale con il titolo a grandi caratteri "VINCE LA DESTRA !" e poi sotto articoli, miliardi di piccole parole, solo inchiostro su carta che all'indomani sarebbe già servita per accendere la sua stufa.
Leandro con indifferenza lo guardò ancora una volta senza leggere, poi
si accomodò sulla sua sedia a dondolo ed incominciò a pensare.
Leandro amava pensare.
Quando sopraggiungeva la sera, lui si rilassava sulla sedia a dondolo ed incominciava uno dei suoi viaggi immaginari. Era uno dei suoi momenti più belli, l'unico modo di sentirsi veramente libero, in qualunque posto fosse. Quel viaggio era tutto suo. Il pensiero era così il suo tesoro più grande, forse l'unico tesoro da difendere con la vita. Lui infatti lo proteggeva come se fosse l'ultimo baluardo per non cadere nelle mani della monotona realtà. Lo proteggeva dalle influenze politiche, dalla storia, dalle pressioni di esuberanti idealisti, perché con quel pensiero era nato e cresciuto, era diventato un uomo e mai si sarebbe fatto condizionare.
La sedia dondolava, ma il suo movimento era quasi impercettibile, solo il cigolio del legno di noce lo faceva intuire. Quella era la culla dei suoi pensieri e la bambagia dov'erano custoditi.
La finestra che dava sul cortile era aperta, e lasciava entrare, a piccole folate, quell'aria fresca e ristoratrice delle calde serate di luglio.
Leandro spesso alzava la testa per godere di quel piccolo istante di piacere, poi tornava a portare il capo tra le mani e PENSAVA.
Dopo la morte dei genitori era rimasto solo in quel cascinale così grosso, costruito per famiglie numerose, come lo erano quelle di un tempo. Dove i figli vivevano con i genitori, i nonni e gli zii che non avevano avuto molta fortuna in amore o che per scelta di vita erano rimasti liberi. Lui era figlio unico e i figli unici, se non si sposano, sono costretti prima o poi alla solitudine. Leandro però non si sentiva solo, anzi diceva di avere molta compagnia. I suoi compagni di vita erano i libri.
Leggeva per intere giornate quando la pioggia si abbatteva su quella regione e pioveva talmente forte, che non si poteva assolutamente lavorare la terra. Così Leandro si immergeva in un libro e si dimenticava di mangiare. Leggeva di tutto, romanzi, saggi, avventure, libri antichi senza copertina impolverati e ingialliti, storie di paese. Leggeva tutto ciò che catturava la sua attenzione. Fu così che un giorno, in uno di questi vecchi libri, ritrovò la storia dell'"ALBERO DI CARTA".
Un albero talmente grande da contenere la storia di chi riusciva a trovarlo. Ogni istante, ogni emozione, ogni avventura, ogni sospiro. Tutto scritto come in un enorme libro senza pagine, tutto impresso come se fosse la più grande storia mai raccontata. Era il libro della vita.
Non era facile trovarlo, o meglio, non erano gli uomini a trovare lui, ma era lui a chiamare a se, le persone che meritavano questa fortuna.
Quanta gente partì alla sua ricerca, e furono centinaia tra scrittori, poeti, giornalisti, o semplici avventurieri.
Tornarono tutti.
Tutti quanti senza averlo mai trovato.
Non erano stati chiamati. Puoi bussare a lungo ad una porta, ma se il padrone di casa non vuole aprirti, devi prima o poi tornare indietro.
Non erano le persone giuste, non erano stati scelti. Il caso non c'entra. L'albero conosceva i cuori puri delle persone, conosceva i nomi di coloro che un giorno sarebbero arrivati alle sue radici, conosceva il giorno in cui quello o quell'altro avrebbero avuto una chiamata. Lui conosceva TUTTI.
Questa storia aveva colpito la sua immaginazione sin dalla prima volta che la lesse, ed ogni volta che riprendeva quel libro, la sua convinzione mutava sempre più in certezza. "Quell'albero esisteva davvero !" e non solo in quella favola per bambini di tanti anni fa, anche perché la realtà spesso gioca a nascondersi nel mondo delle favole.
La notte sognava di sentirsi chiamare, e nel sonno partiva e camminava, camminava fino ad arrivare in cima ad un'enorme collina. Lì c'era l'albero che lo attendeva. L'albero sul quale avrebbe scritto la sua storia, l'albero che avrebbe raccolto le sue emozioni più nascoste, ogni piccolo istante dimenticato dalla frenesia del mondo, i suoi sogni e tutte le parole che aveva incontrato nelle strade della sua vita.
Certe notti non dormiva neppure per aspettare quella chiamata e al mattino, nei campi, la stanchezza si faceva sentire.
Trascorsero gli anni, i capelli ingrigirono, ma la fiducia non era mai morta dentro di sé: "Prima o poi.....".
Lui attendeva. Attendeva pazientemente.
Leandro aveva "superato i cinquantacinque anni da circa dieci anni". Così diceva ridendo, e il tempo, quel maledetto tempo, che vola più veloce di un falco, aveva scavato con mani da scultore le rughe della vecchiaia sul suo volto, come un grosso pezzo di creta sempre fresco, da ritoccare ogni tanto.
Il suo passo era più lento, la sua vista meno brillante, ma era sempre lo stesso Leandro. Può cambiare la corteccia, ma l'albero è sempre lo stesso, può cambiare il colore della buccia, ma il frutto all'interno è sempre lo stesso.
 
Quella sera era diversa dalle altre. Si avvertiva qualcosa di strano, come se il mondo avesse fermato quell'enorme orologio che ha dentro di se, e avesse detto "zitti tutti !, ho bisogno di ascoltare..". Solo i grilli si facevano sentire. Le galline nel pollaio erano stranamente silenziose, i conigli, sparsi nel cortile, non si muovevano, e nemmeno i gufi, col loro canto monotono, si sentivano nel bosco vicino. Solo i grilli. Un enorme concerto di grilli, come in un teatro che ha per palcoscenico la vita e come spettatore il mondo. Potresti essere lì miliardi di volte e ogni volta lo spettacolo si ripete. Ogni volta diverso da quello precedente. Non esistono repliche.
Leandro si alzò dalla sedia e andò verso la porta. L'aprì come se avesse udito qualcosa, ma vide soltanto il buio dell'aia. Rimase sull'uscio per un po', con la porta socchiusa ad annusare l'aria della campagna. Si ricordò di quando la mamma lo chiamava all'imbrunire e lui, per scherzo, si nascondeva per farla preoccupare. Poi sbucava dai nascondigli più impensati e rideva.
Un giorno, dopo la scuola, andò a giocare nei campi di granoturco, quelli che arrivavano fino al fiume. Oltre lo steccato di legno che delimitava il campo di suo padre, scoprì un piccolo stagno pieno di rane. Leandro aveva il vestito nuovo, quello che la mamma gli aveva regalato per il suo compleanno. Un vestito comprato in città, in quel negozio vicino al droghiere. Quel negozio nuovo dove c'era quella ragazza dai capelli come il fuoco. Quella che dicevano fosse irlandese. Leandro, cercando di catturare una rana piuttosto furba e veloce, cadde nella fanghiglia e si sporcò. Era un guaio grosso. Chi lo avrebbe detto a Dolores ?
Per cercare di rimediare, si spogliò e mise il vestito al sole, così che si asciugasse e il fango si seccasse.
Quando fece buio, tornò a casa e si nascose dietro la cuccia di Pedro, il vecchio cane del babbo ormai cieco e attese che la madre partisse alla sua ricerca.
" Leandrooooo !, ...........Leandrooooooo !!".
Aspettò finché la voce urlante della mamma fosse così lontana da non sentirla più. Entrò velocemente in casa, corse nel bagno e cercò qualcosa che potesse nascondere le macchie evidenti di fango secco.
Prese del borotalco, quello che le donne conservano per le giornate importanti, e lo rovesciò generosamente sulla camicia bianca, poi, non potendo raggiungere la spazzola del bagno che stava sul mobile, usò lo spazzolino da denti del babbo. Chissà se quel piano era il risultato di anni di studio, oppure agì per istinto, ma non pago del risultato, spalmò ancora del dentifricio sulle ultime macchie rimaste. Il bianco era così tornato a splendere sul suo vestito. Raggiante come il sole, si lavò le mani e la faccia. In quel momento però, la madre rientrò. Ancora adesso Leandro ricordava quell'urlo così grande uscire da un corpicino così minuto come quello di Dolores, ma soprattutto ricordò ancora l'impronta delle cinque dita sul suo fondoschiena. Un senso di calore lo pervase come allora.
Chiuse la porta, si avvicinò al tavolo e bevve un sorso di vino. Il giornale con il suo titolo a grandi caratteri era sempre lì su quel tavolo freddo. Questa volta non lo degnò nemmeno di uno sguardo. Spense la luce della lampada e l'oscurità inghiottì ogni cosa. Si avviò verso la sua camera camminando nel buio. Entrò. Il camicione bianco della notte lo attendeva, come tutte le sere, sul letto, i vestiti li ripiegò con cura sulla sedia, come sempre succedeva. Appena appoggiò la testa sul cuscino, sentì una voce che lo chiamò:
"Leandro !".
Rimase fermo nel letto ad ascoltare. Forse era solo la sua immaginazione. Dopo pochi secondi ancora quella voce:
"Leandro !".
"Chi e ?".
Accese la lampada sul comodino, ma nella stanza non c'era nessuno. Poi ancora:
"Leandro, Leandro !".
"Chi sei ?".
"Io sono colui che ti aspetta.........vieni".
"Sei l'albero ?.......dimmi....sei l'albero ?".
"Vieni !".
Aspetti per lunghi anni qualcosa che tu sai che ti cambierà la vita. Credi fino all'ultimo respiro che tutto ciò un giorno succederà. Provi ad immaginare la tua reazione, poi vivi in pace con te stesso, perché sai che se accade, tu sei pronto. Ti senti incredibilmente sicuro di te, sai che non sbaglierai. Hai previsto tutto. Tutto quanto, ma non hai previsto che questa cosa possa accadere veramente.
Quando capita, ti trovi impreparato, come tutti del resto, perché il prevedibile nella vita, spesso diventa imprevedibile. Siamo tutti figli di San Tommaso. Sostenitori delle cose certe, credenti delle cose che non toccano la nostra realtà, e increduli di fronte a tutto ciò che stravolge il nostro modo di vivere. Tu sei lì, bloccato come un fesso, e tutto quello che avevi previsto può andare a farsi fottere. Sei lì fermo come un cretino e ti dici "E' successo !" e per mezz'ora non riesci a dire altro. Vorresti urlare di gioia, piangere, correre come un pazzo, cantare, raccontarlo a qualcuno, ma non lo fai, perché tu sei lì, bloccato come un cretino e dici solo "E' successo".
Leandro si bloccò come un cretino e per mezz'ora si disse "E' successo !"
Capita a tutti almeno una volta nella vita. Succede quando incontri la donna che hai sempre sognato di amare. Lei è lì a due passi da te, potresti fermarla, dirle che non esiste nel mondo un fiore così bello, così profumato. Poi lei va via, e tu rimani bloccato così per mezz'ora come un cretino, senza aver detto nemmeno una parola, senza aver saputo nemmeno il suo nome; succede quando vinci una somma di denaro in qualche lotteria, "Hai vinto!,.....hey, dico a te.....Hai vinto!!", e tu per mezz'ora sei bloccato come un cretino, tutti festeggiano per te, tu no; Succede quando finisce la guerra, e tu sei lì, nella trincea scavata nella terra, puzzolente di muffa e umidità, "E' finita, è finita !", tu non ci credi, piangi, ridi, poi piangi ancora, e sei maledettamente bloccato per mezz'ora come un cretino, appoggi il fucile, ma lasci ancora il colpo in canna.
Succede a tutti almeno una volta nella vita.
Leandro fu chiamato così, in una sera in cui solo i grilli cantavano.
Si immaginava una voce che arrivasse come un tuono, uno squarcio nella notte, invece arrivò come un sussurro nel cuore, delicata e dolce come il suono del flauto, perché quello, era il risveglio dell'anima. Si alzò dal letto. Estrasse dall'armadio un bauletto, e aprendolo, il suo olfatto fu investito dal forte odore di naftalina. Prese l'abito che c'era all'interno, uno di quegli abiti che si indossano alle feste, nelle occasioni importanti, per i matrimoni. Lui lo aveva acquistato in previsione di questo avvenimento. Erano anni che anche lui attendeva, piegato in quel baule, il momento di liberarsi. Adesso toccava anche a lui. Si affrettò a vestirsi nuovamente perché non voleva perdere ulteriore tempo. Prese del denaro nascosto sotto la cassapanca, era tutto ciò che aveva, e nel taschino infilò una matita nuova. Mise le scarpe più comode, spense la lampada ed uscì. Non si fermò a pensare a ciò che stava facendo. Aprì la porta e si incamminò nell'oscurità della campagna.
Non gli importò nulla della casa che stava lasciando, della sua terra incustodita, dei suoi animali. Partì.
Quando volti le spalle a qualcosa che ti ha accompagnato fino a quel momento, perché ti senti di prendere una strada diversa, non tornare indietro, non pensare se ciò che fai è giusto o sbagliato. "E' fatta !". E' positivo che tu abbia preso una decisione.
Non tutti ci riescono, o hanno il coraggio di farlo. E' una questione di scelte. La vita è tutta una scelta.
Un continuo bivio, e quando decidi per una strada, sicuramente incontrerai un altro bivio, e poi un altro ed un altro ancora.
Per saper scegliere, basta fidarsi un po' più di se stessi, ed ascoltare meno i pareri e i consigli di chi al bivio non c'è mai arrivato, o è ancora lì che deve decidere quale strada prendere. Quanti sono pronti a decidere per gli altri, pronti a dire: "hai sbagliato !", "io avrei fatto così......", "...se ascolti me....", poi li trovi seduti ad aspettare il futuro, con le loro indecisioni, con le incertezze della loro vita, al bivio di una strada, dove il futuro magari non passerà mai.
Leandro partì. Non si voltò.
L'aria si era ammansita, non scuoteva più gli alberi del bosco, la terra era calda, come il cuore di un braciere ancora vivo, il cielo era tempestato di miliardi di piccole gocce di luce, e la luna illuminava il cammino di chi, quella notte, decideva il suo futuro.
Leandro non si voltò.
Fu tentato alla prima curva, poi pensò che la sua casa era sicuramente già stata inghiottita dalla notte. Era già parte del passato, come le stelle del cielo. Era IL PASSATO.
Camminò senza sosta lungo la strada che porta al paese. Vi entrò. Lo attraversò. Passo dopo passo, passo dopo passo, senza affanno, passo dopo passo. Era un regolare susseguirsi di passi, come se fossero secondi scanditi da un orologio umano.
Quando fece giorno, lui era già lontano. Lontano da quel bivio dove prese la sua decisione. Dietro di sé un piccolo mondo certo, davanti un mondo infinito da scoprire e una vita nuova da vivere.
La giornata non era così dolce come faceva sperare la sera prima. Alcune nuvole oscuravano il sole, che, ogni tanto, faceva capolino, per poi ritornare a nascondersi nel loro panciuto abbraccio. Leandro continuava, passo dopo passo, perché sapeva che quella era la strada giusta. Le scarpe impolverate, ma sempre pronte per un nuovo passo, e dietro di lui, tante piccole impronte che tracciavano un cammino.
Tutto intorno si sentiva il profumo della terra, quel profumo di vita che riconosci solo quando ti senti parte della natura. Quando ti senti in lei, come se lo fossi stato da sempre. Avverti i suoi respiri, la sua forza, e il tuo cuore batte come il suo, si fonde nel suo.
Il paese era laggiù, ormai dietro la collina. Leandro vi era passato di notte.
Quel paese, che di giorno è un susseguirsi di persone in movimento, tanti volti che si incrociano, uomini e donne che si salutano, affari che si concludono, schiamazzi di ragazzini che giocano e litigano, calessi che transitano e treni che fischiano. Una recita che si ripete. Sempre uguale. Cambiano gli attori, i costumi, ma sempre recita è. La notte, invece, si trasforma in un luogo tetro, inanimato, diventando lo spettro del giorno. Le luci sono spente, ma la recita non c'è.
Nessuno notò il suo passaggio.
Leandro si fermò per qualche minuto davanti alla chiesa di S. Bernardo. Di giorno, è la casa aperta ai fedeli che entrano per salutare il Signore, per pregarlo e ringraziarlo. Di notte, invece è chiusa, nascosta nel buio e nell'indifferenza. La casa del Signore chiusa. Chiusa come chiudono i negozi, le scuole, le trattorie.
Quale sacerdote, si fiderebbe a lasciare una chiesa aperta di notte ?
Nessuno probabilmente, perché è un dato di fatto. Le chiese, di notte, sono chiuse. Nessuno però si è mai chiesto il perché ?
Leandro non era un praticante, ma credeva in Dio, e sapeva ringraziarlo, quando lavorava nei campi, prima di sedersi a tavola, quando arrivava la primavera con i suoi primi germogli sugli alberi da frutto. Lo sentiva dentro di sé, e anche se non partecipava alle funzioni religiose della domenica, si sentiva comunque un credente. Per lui ogni giorno era santo, ogni giorno era il giorno del Signore.
Lo sentiva dentro, come quella sera sentì quella voce che gli disse:
"Vieni !".
 
 
"Leandro !, Leandro !......"
"Ciao Josè !".
"Leandro, che ci fai qui....fuori dal paese, col vestito da festa......oggi è solo martedì".
"Sto andando a trovare un amico".
"Dove......in città ?".
"Si !, ha bisogno di vedermi, mi ha chiamato ed io ho risposto".
"Niente di grave spero".
"No, anzi.....oggi è un bellissimo giorno per me".
"Ma ci stai andando a piedi ?".
"Si, farò due passi.......".
"Leandro, stai mica scherzando ?, ci metterai due giorni ad arrivare in città a piedi.......".
"Cosa sono due giorni di cammino, in confronto a tutti i passi inutili che facciamo in una vita intera".
"Niente !, ma è da incoscienti, anzi si rasenta la follia pensare e soprattutto fare una cosa simile....... perché andare in città a piedi, quando esiste il treno, che è così comodo, l'hanno inventato apposta".
"No, preferisco andarci con i miei piedi".
"Dai Leandro finiscila di scherzare, salta su che ti ci porto io alla stazione, col calesse".
"No Josè, ti prego di non insistere, e ti giuro che non sto scherzando, né sono diventato pazzo, è una cosa che mi sento di fare da solo....lasciami andare".
"Ma che stai dicendo amico mio, non posso mollarti qui a dieci chilometri dal paese, e a cento dalla città".
"Josè, ti prego di lasciarmi, non posso arrivare in ritardo......proprio adesso !".
"......adesso cosa ?.....Leandro, credo che tu non stia molto bene, vieni con me, ci andrai domani in città, ti ci porto io col treno, ci andiamo insieme......ora torniamo in paese.....e domani andremo in città con il treno".
"Possibile che tu non riesca a capire che io sto benissimo, non ho bisogno di nient'altro che di essere lasciato in pace.....qui,...su questa strada...... domani potrebbe essere già troppo tardi.....non sono pazzo, credimi. Josè, lasciami andare.....addio".
"Leandro !.......Leandro !.......aaaah....accidenti !".
Josè diede una frustata e il cavallo partì, doveva assolutamente raggiungere il paese al più presto. Leandro continuò il suo cammino in direzione opposta, passo dopo passo, passo dopo passo, senza affanno...
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