- Genova,
23 gennaio 1997
È mezzanotte e sto aspettando che l'acqua della
mia doccia diventi più tiepida. Da quando ho
lasciato Ginevra e Giovanni, non mangio più,
non ho alcuno scopo di vita. Oggi peso trentotto
chili. Mi manca ogni forza, non riesco a camminare,
paralizzata, come un verme schiacciato a terra e
vistosamente deformato, che si dibatte. Senza una
parola. Senza un lamento. Davanti a me ho il vuoto del
linguaggio, il Nulla, la Morte. Ma ora sento che entra
in me la verità nuda, pura, eterna. L'acqua
scorre sempre.
- Genova,
30 gennaio 1997
Indubbiamente sono in ospedale: gli occhi aperti a
stento mi rivelano questa sorpresa. Dal mio petto
parte un tubicino, che sbocca in una sacca piena di
liquido biancastro, sospesa a un alto tubo. Non ci
sono dubbi: una flebo.
- Provo a chiamare
un'infermiera ma, forse a causa di un altro condotto
che esce dal mio naso, non riesco ad articolare nessun
suono. Allora tiro il camice di un medico vicino a me
che, con un sorriso e una voce rauca, mi dice:
- «Sei nel
reparto di rianimazione dell'ospedale Galliera.
Qualche giorno fa, sei entrata in coma. Stai
tranquilla, ora sei fuori pericolo! Ti abbiamo salvata
per miracolo, curandoti come un malato cardiaco.
Soffri di anoressia, vero? Spero tu tragga
insegnamento da questa brutta
esperienza».
- Lo guardo allibita.
Quando rinunciavo al cibo ero attratta dalla morte, ma
non capivo veramente di perdere il bene prezioso della
vita.
- Genova,
2 febbraio 1997
La mia mente
è attraversata da una fitta schiera di ricordi
confusi, da cui mi distoglie una voce:
- «Francesca,
come stai?» .
- È mia madre,
venuta a farmi visita insieme a
papà.
- «Come sei
pallida! Guarda, ti ho portato un fard» aggiunge
la mamma, sempre così preoccupata delle
apparenze.
- Poi prosegue:
«Dopo questa dolorosa vicenda, non vogliamo
più cadere in errore. Appena ti sarai rimessa
in forze, non vivrai più sola e tornerai ad
abitare con noi a Bologna».
- Se poco fa ero
pallida, ora non oso immaginare il colore del mio
viso. Guardo mio padre, sperando di trovarvi maggiore
comprensione. Dalle sue labbra escono invece le
parole:
- «Faremo
proprio così».
- «Ma quando ero
a Strasburgo, a Liegi, a Roma, a Rapallo, in Corsica,
a Nizza stavo bene fisicamente. Se di recente a
Ginevra e a Genova mi sono riammalata, è
perché mi sentivo sotto il vostro
controllo» cerco di spiegare, parlando con
fatica, a causa del sondino che mi arriva fino in
gola.
- È inutile,
povera Francesca, non sprecare il tuo fiato. Ascolta
papà:
- «Non ci
convincerai mai! Lo facciamo per il tuo bene. Non
vogliamo mica riapparire sui
quotidiani».
- «Sui giornali?
E perché?» chiedo.
- «Prima di
entrare in coma all'hotel Astro, hai lasciato la
doccia aperta. Gli albergatori, la notte, sentendo
provenire dalla tua stanza il prolungato rumore
dell'acqua che scrosciava, prima hanno bussato, poi
hanno cercato di entrare col passe-partout, ma
è stato inutile: la serratura era chiusa da
dentro, con la chiave nella toppa. Allora hanno
chiamato i vigili del fuoco, che hanno forzato
l'uscio. È intervenuta anche la polizia e
dunque del fatto sono venuti a conoscenza i
giornalisti, che ci hanno intervistato. Sono apparsi
molti articoli su di te, anoressica in coma, sulla
cronaca sia di Genova che di Bologna».
- «Me li
portate, la prossima volta che ci vediamo?»
domando.
- «Se ci tieni
tanto
- dice mia madre, che aggiunge: - Tutto
è accaduto di notte».
- Ecco
ora si
riaffaccia alla mia memoria una leggenda dolomitica,
antichissimo mito solare, che appresi a
Canazei
Sì, sono Soreghina, "filo di
sole", che muore dolcemente a mezzanotte per un suo
perduto amore...Ed è stata l'acqua che mi ha
salvato.
- Costernata, non
riesco neppure più a guardare i miei genitori e
il mio sguardo smarrito poggia nel vuoto. Il fatto di
aver toccato la morte da vicino non mi ha spaventata;
ciò che ora mi terrorizza è l'idea di
vivere nuovamente con mamma e papà. Per fortuna
ora se ne vanno, alleviando un poco il mio
dolore.
- La mia mente viene
allora inondata da una marea di flashback, relativi ai
periodi trascorsi con i miei. Il tubicino che esce dal
mio naso somiglia un po' ai baffi, che dovetti portare
da bambina per far piacere al dentista e ad Anna
Maria. L'immobilità a cui sono costretta in
questo letto mi fa tornare in mente il mio
fastidiosissimo busto per la scoliosi. Mi rivedo
anoressica quando, all'età di venti anni,
abitavo con mia madre e mio padre. Ho vissuto il
controllo sul cibo come la capacità di dominare
la carne e la materia, a favore dello spirito. Se
volessi cercare i colpevoli come si fa per un delitto,
sia i miei genitori soffocanti che tutta la nostra
società materialista, asservita alle cose, sono
responsabili della mia entrata in coma.
- Genova,
3 febbraio 1997
«Ormai
sei fuori pericolo, quindi ti trasferiamo nel reparto
psichiatrico di quest'ospedale».
- È un medico,
a cui chiedo:
- «E
perché proprio lì?».
- «Perché
sei anoressica. Più che nel fisico, sei
invalida nella psiche».
- Lo guardo con un
sorriso: quasi quasi provo piacere nel definirmi
malata mentale. Un malato è un diverso: amo
ostentare la mia diversità. Eh già, sono
pochi ormai quelli che come me amano la parola e
odiano la cosa, la materia, il corpo.
- Con una lettiga un
infermiere mi trasferisce nell'altro reparto dove, nel
prendermi in braccio per adagiarmi su un letto,
esclama:
- «Sei leggera
come una piuma!».
- Mi viene spontaneo
tradurre mentalmente la frase in francese: Tu es
légère comme une plume! Non penso alla
leggerezza della piuma dell'uccello, ma a quella della
plume per scrivere e della letteratura. Tragica
leggerezza.
- Genova,
8 febbraio 1997
Ora riesco a
parlare e camminare, tirandomi dietro con fatica il
flacone della flebo, appeso a un'asta munita di ruote.
Nel reparto psichiatrico, con il passare dei giorni
faccio amicizia con gli altri degenti. Numerosi sono i
tentati suicidi: la ragazza disperata perché il
fidanzato l'ha lasciata, la casalinga estremamente
depressa, il padre di famiglia disoccupato. Mi sembra
di essere finita nel settimo cerchio dantesco, tra i
violenti contro se stessi. Anche i golosi,
però, l'Alighieri li colloca all'Inferno. Ma
qui siamo vivi. Fra di noi scherziamo e sorridiamo: il
sorriso di coloro che hanno voluto morire, hanno
tentato e sono stati salvati.
- La mia compagna di
stanza si chiama Marta, è drogata e un giorno
mi mostra un libricino dal titolo Ecstasy -
allargamento della coscienza - restringimento dello
stomaco, un opuscolo informativo per la
liberalizzazione delle sostanze stupefacenti,
accompagnata a un loro uso consapevole e
cosciente.
- «Ti sei mai
fatta uno spinello?» mi chiede Marta.
- Le rispondo:
«No. Anch'io, però, quando non mangio sono
come un tossicodipendente che si inietta il veleno
fatale, senza capire del tutto che si sta annientando
e senza sapere se vuole morire. Comunque, non mi
drogherò mai: preferisco i paradisi artificiali
aperti dalla letteratura».
- Genova,
10 febbraio 1997
Oggi
finalmente mio padre mi ha portato i quotidiani che
gli avevo chiesto. Adesso mi va proprio di
leggerli
Dunque, vediamo
Alla prima riga
di un articolo che mi riguarda ed è apparso su
«la Repubblica», mi accorgo subito di un
errore commesso dal giornalista, quando leggo che ho
«un ottimo rapporto con i genitori». Non si
possono esprimere giudizi su di un individuo, se non
lo si conosce benissimo. Mi viene in mente un motto
degli indiani d'America, che ho letto nel libro Va'
dove ti porta il cuore della Tamaro: «Prima di
giudicare un uomo cammina per tre lune nei suoi
mocassini». Viste dall'esterno, molte vite come
la mia sembrano irrazionali, pazze: finché si
sta fuori è facile fraintendere le persone e i
loro comportamenti. Soltanto da dentro, dal mio cuore,
soltanto arrancando tre lune con i miei stivalacci, si
possono comprendere le mie motivazioni.
- Il servizio del
giornale è accompagnato dalla foto di una
modella dall'esile silhouette. Vicino sta scritto:
«L'ossessione di un corpo perfetto, una molla che
può far scattare l'anoressia». La mia
inappetenza, invece, non somiglia a quelle che
aumentano di numero dopo le sfilate di moda, imponenti
immagini di bellezza femminile il più delle
volte distorte, al limite dello scheletrico: una
concezione estetica che sta mietendo le sue vittime,
ma non mi sfiora.
- Leggendo il pezzo
de «la Repubblica» mi accorgo di nuovo che
è stata proprio la mia doccia a salvarmi dalla
morte. Quell'acqua che amo tantissimo simboleggia la
forza del mio inconscio: anche quando non mangiavo,
non ho mai cessato di berla. È sì fonte
di vita, ma pure distruttrice. Le acque
dell'interiorità, da cui ci lasciamo
trasportare, arrecano pericoli: possono agitarsi,
nascondere squali, trasformarsi in neve, ghiaccio,
valanghe incombenti e minacciose. La mia anoressia
è stata un'esplosione del represso, una slavina
di protesta. Lo scenario che si prospetta è
simile a quello di uno dei più famosi film
catastrofici che io ricordi: Valanga, la pellicola del
regista Corey Allen. Storia di una palla di neve che,
piano piano, scendendo a valle si trasforma in un
disastro ambientale di proporzioni inaudite e investe
una stazione sciistica. Morti ovunque. Macerie.
-
- In un articolo
apparso sul «Corriere mercantile» di Genova
si afferma che, quando sono stata rinvenuta in stato
di incoscienza all'hotel Astro, ero «seduta su
una sedia, non in grado di parlare, immobile come un
automa». Quel robot che Anna Maria, durante la
mia pubertà e adolescenza, aveva voluto fare di
me.
-
- In un altro
servizio pubblicato su «la Repubblica» e
intitolato Da dodici anni in lotta con l'anoressia,
leggo:
- «È
cominciato dodici anni fa, d'estate, - racconta la
madre. - Eravamo andati in vacanza a Milano Marittima.
Mia figlia aveva diciassette anni, era soltanto una
ragazza formosa, certo non si può dire grassa.
Mi disse che voleva mettersi a dieta e iniziò a
mangiare soltanto delle bistecche con insalata
scondita. Fosse stata una come tante, dopo un po'
avrebbe ceduto. Lei invece ha sempre avuto una
volontà di ferro: iniziò a ridurre le
quantità di cibo fino al rifiuto quasi
totale».
- Mamma, affermando
che la mia anoressia dura da dodici anni, ha detto il
falso. Infatti dieci anni fa, dopo la mia prima
inappetenza, mi ripresi e non ho più sofferto
di questo male, pur con tutte le mie nevrosi, fino a
poco più di un anno fa. Anna Maria ha mentito
anche per quanto riguarda la dieta che feci a Milano
Marittima. Non la intrapresi spontaneamente, ma per
volontà di mia madre: non posso dimenticare il
suo schiaffo
- Uno solo è
anche il ceffone buscatomi da mio padre, che mi
picchiò perché avevo preso un cinque. Ho
ancora in mente quel giorno
-
- Ritorno bambina, ho
sette anni, sono a scuola, in classe. La maestra
Domenica Ventura dalla cattedra ci dice:
- «Adesso, un
dettato facile! Darò cinque a chi fa un solo
errore».
- Io, solita a
svolgere compiti perfetti, in questa prova, forse per
l'agitazione, commetto un piccolo sbaglio, nell'andare
a capo, sì, me lo ricordo ancora.
- A casa, cerco
lacrimante di spiegare a papà che il mio voto
è ingiusto. Una misura punitiva della mia
insegnante nei confronti dei più
«somari», come li chiamo io: i loro dettati,
una volta corretti, sembrano «cimiteri»! Il
babbo, però, non vuole ascoltare le mie ragioni
e mi molla uno sberlone. Per reazione raddoppio il mio
studio già tenace, con un impegno che mi
renderà sempre la prima della classe fino alla
quarta liceo. Non prenderò mai più un
voto insufficiente. Per me, come per mio padre,
è importante l'essere, per mamma
l'apparire.
- Genova,
11 febbraio 1997
Oggi nel mio
reparto viene internato un nuovo paziente. Di
mezz'età. Occhialini tondi. Capo fasciato.
Stringo amicizia pure con lui, che si presenta
così:
- «Mi chiamo
Roberto, sono psicologo di
professione
».
- Non riesco a
trattenermi:
- «Non è
paradossale per uno psicologo finire ricoverato nel
reparto psichiatrico di un
ospedale?».
- «Sì, lo
è, il colmo dei colmi! Ma sai, ho perso la
testa quando, di ritorno da un viaggio, nel
sottopassaggio della stazione, sono stato assalito da
due extracomunitari, che mi hanno ferito alla testa,
per portarmi via i bagagli e tutto il mio denaro.
Farneticavo e così mi hanno condotto qui.
Adesso ci resto volentieri, finché non mi
toglieranno i punti. Sì, perché in
questa sezione si mangia bene
».
-
- Ritorno nella mia
stanza dove, per vedere se ho ancora l'aspetto di una
mezza morta, tiro fuori lo specchietto del fard.
Un'infermiera me lo strappa di mano,
dicendo:
- «Qui non si
possono tenere specchi».
- È entrata
per farmi prendere una medicina. Molto diffidente
verso i medici riguardo ai farmaci che mi fanno
ingerire, chiedo di vedere il foglio illustrativo. Fra
le varie notizie, vi leggo: «L'uso in caso di
gravidanza e allattamento è raccomandato dalla
letteratura internazionale. Nessun effetto è
riportato dalla letteratura sull'attenzione e sulla
capacità di guidare o usare
macchine».
- Non si tratta mica
della letteratura umanistica? A parte gli scherzi,
credo profondamente nella capacità terapeutica
delle lettere classiche. I romanzi, le poesie, il
teatro rappresentano una sorta di medicinali per
guarire quei mali fisici che, come l'anoressia,
riflettono un malessere psichico, interiore. È
proprio la cultura letteraria ad avermi insegnato
l'ironia, il farmaco che mi aiuta a
vivere.
-
- Ma a salvarmi
è stata soprattutto l'acqua, simbolo dello
spirito divino vivificante: il Signore mi ha protetto,
facendo sì che io lasciassi aperta la doccia,
quando sono entrata in coma. È Lui che non mi
ha fatto trovare un monolocale di mio gradimento a
Genova: se non fossi rimasta all'hotel Astro, ora
sarei già morta.
- La raccomandazione
che vedevo dappertutto era in realtà Dio che mi
voleva aiutare, seminando tanti germi, che non seppi
far fiorire e raccogliere. Sì, proprio Lui, il
Signore del mio delirio, come mi piace chiamarlo,
senza alcun intento blasfemo. Ed è Dio che ora,
uscita dal coma, mi fa capire dove devo cercare una
ragione di vita: la scrittura. Voglio organizzare i
miei appunti e il mio diario, riordinare le lettere
indirizzate a Giorgia e pubblicare dei romanzi. Ne
stenderò più d'uno: ne ho tante da
raccontare. Credo nella "scritturoterapia": registrare
le mie emozioni, nevrosi e ossessioni mi
permetterà di penetrarvi sempre più in
profondità, esorcizzandole.
- Pur non avendo mai
partecipato ad alcun rapporto sessuale io, che prendo
tutto alla lettera, ho avuto la mia petite mort,
l'orgasmo nel gergo francese. Il mio coma per
anoressia, piccola morte, è stato per me come
il culmine del coito, l'acme, la punta, il picco della
mia passione, ovvero il momento in cui mi sono tolta
la vita per il dolore di trovarmi lontana da Giovanni:
un atto d'amore. Ma ora, rinata, quasi risuscitata,
capisco che posso restargli per sempre vicina in
un'altra dimensione, scrivendo, con la mia parola.
Nessun luogo è lontano.
- Quando i miei libri
saranno pubblicati, li spedirò al professor B.,
perché sappia dell'amore che nutro per lui e
che non gli ho mai confessato. Ciò che mi
addolora di più è il fatto di non essere
riuscita a spiegargli bene la mia storia e
l'ossessione dello squalo, nella mia lettera
delirante.
- Forse, se fossi
rimasta in Svizzera e avessi accettato di conseguire
il dottorato sotto la sua direzione, come lui mi aveva
chiesto, la mia anoressia non si sarebbe aggravata e
non sarei entrata in coma. Mi sono vergognata di
fronte a Giovanni della mia malattia psichica e ho
fatto la mia scelta, che mi ha condotto alla morte.
Nella vita, quando un indeciso si trova a un bivio e
imbocca una via, perde tutte le alternative offerte
dalle altre strade. Questo, però, non accade
nel tempo ambiguo della scrittura, in cui tutto
è possibile, persino la rinascita dell'amore.
Sì, anche questa volta troverò la forza
di andare avanti, di vivere: la creazione rappresenta
la mia possibilità di affermare vittoria sul
tempo e sulla morte. Dopo il coma, ecco la
resurrezione miracolosa nella parola.
- Genova,
13 febbraio 1997
È mezzogiorno e un'infermiera mi porta in
camera un piatto di trenette fumanti, col pesto alla
genovese. Saranno dieci anni che non gusto
pastasciutta, ma adesso mi è venuta l'acquolina
in bocca. Riuscirò a papparmi questo piattone?
Da quando ha cominciato a vivere da sola, non mi sono
mai cucinata una minestra. Ora inforco le posate e mi
accingo a consumare le trenette, sfogliando i
quotidiani che mi ha portato mio padre. È
strano, ma adesso non faccio più fatica a
deglutire. E poi, questo pesto è squisito!
Divoro tutto il piatto con voracità mentre
leggo, seduta vicino a Marta.
- Le dico: «Ehi,
leggi un po'
Un'indagine, in Gran Bretagna, ha
rivelato che attualmente, nell'acqua potabile, vi
è una percentuale di antidepressivo, tanto ci
troviamo inondati da queste medicine».
- «Addirittura!
Inaudito!» esclama la mia compagna di
sventura.
- «Sì,
sta scritto qui. Quell'acqua che amo tanto e mi ha
salvato
Sai, Marta, in tutti gli ospedali in cui
sono stata ricoverata, mi hanno obbligato ad assumere
intrugli che, secondo gli psichiatri, portano
beneficio alla mia testa tutta matta. Io invece non
credo molto nell'efficacia degli psicofarmaci: bisogna
lasciar fare alla natura. Oggi ci troviamo sommersi da
immagini, ma penso che l'unico sollievo possa essere
dato dalla parola, meglio se scritta e letteraria, ma
anche solo detta e rammentata. Te lo dice una che di
nomi se ne intende e ne ha studiato la storia e la
filologia. Una che ha visto tanti Torna a casa
lessici, protagoniste le lingue neolatine. Non
dimenticherò mai le frasi, la voce, l'accento
toscano di Giovanni, che ho amato tanto ma non
sensualmente: ricordandoli, sento quell'uomo
meraviglioso più che mai presente e vicino a
me, anche se è molto lontano
Vedi, la
parola ha, è un corpo. Fatto di
materialità. Di accenti, linee, punti. Di
fonicità. Con una componente di
ludicità! Tò, adesso invento i vocaboli
creando dei neologismi, che per la psichiatria sono
sintomi di schizofrenia. Diciamo di ludique, per
riprendere il termine di Cla
ah sì,
Claparède!».
- «Un tuo
amico?» chiede l'ignorante Marta.
- Rido: «No, il
pedagogista svizzero, che per primo introdusse il
termine in psicologia. Non lo
sapevi?».
- «No».
- Continuo:
«Sai? Credo nell'erotismo e nel piacere della
parola, anche la meno aguzza, la meno penetrante, a
tal punto che riesco a mangiare e a bere solo se
intanto leggo o scrivo, è più forte di
me, sono fatta così. I libri freschissimi li
surgelo! A parte gli scherzi, i medici mi dicono che
è una nevrosi ossessiva, che deve essere curata
con cento, mille medicine, da dosare bene in ospedale
psichiatrico. Ma me ne infischio di coloro che dicono
non bisogna mai fare due cose in una volta!
Perché non unire due piaceri-necessità:
il cibo e la lettura-scrittura? Vedi, per me leggere,
scrivere sono un'urgenza vitale. È
strano
se leggo un numero, non riesco a
pasteggiare contemporaneamente: non si può
vivere di cifre e formule, ma di lettere, vocaboli,
frasi, preghiere. Ho deciso, farò la scrittrice
con lo pseudonimo di Chiara Parola, sarò il
verbo commestibile e non solo per la mescolanza e
compenetrazione che cibo e parola hanno nelle mie
nevrosi. Anche perché con la scrittura mi
proporrò di comunicare il mio grande amore per
la letteratura, insegnandola, rendendola di facile
comprensione agli altri, più appetibile, anche
a chi ne sa meno di me, come te, i miei genitori, i
borghesi, tutti innamorati dei numeri e non dei nomi.
La letteratura è vita. Sceglierò di
chiamarmi proprio Parola perché sento di
esistere solo attraverso le parole: io stessa, in
carne ed ossa, mi trasformerò in una somma di
parole sotto forma di libro».
- La mia amica cambia
argomento:
- «Ti va di
ascoltare un po' di Elton John?».
- «Oh sì,
piace tanto anche a me! Delle sue canzoni amo non
tanto i suoni talvolta metallici, troppo artificiali,
quanto the words, con tutta la loro musicalità.
Blue eyes, fly away, freedom, only one love, wife, my
love is impossible, reality is black and white: con
queste parole, opportunamente controllate sul
vocabolario, manualmente, scribanamente (e ne invento
sempre delle nuove), voglio scriverci un libro, anzi,
tre romanzi, proprio una trilogia».
- Genova,
26 febbraio 1997
«Su,
Francesca, smettila di leggere mentre mangi, dai,
sbrigati a fare la colazione! Tra poco ti trasferiamo
in autoambulanza in un ospedale bolognese; così
sarai più vicina ai tuoi genitori» mi dice
un medico.
- Scoppio in lacrime
e, mentre gli infermieri mi portano in barella, non
faccio che gridare con tutte le mie forze:
- «No, vi prego,
a Bologna no! La vicinanza ai miei m'impedisce di
maturare, di crescere, di vivere!».
- Mettiamoci ora nei
panni di un estraneo, che abbia letto qualche articolo
su di me. In questo momento, nell'udire i miei
lamenti, forse sta pensando:
- «Ma non si
vergogna a urlare così, questa ragazza che dai
genitori ha avuto tutto e che a Bologna
riceverà da loro coccole, carezze, soldi,
benessere, comfort? È proprio viziata!».
- Con i miei pianti,
vorrei rispondergli:
- «Lei non
può comprendere quanto mi faccia soffrire
questo legame simbiotico che mi stringe a mamma e
papà, da cui sono condannata a dipendere
sempre».
-
- Sull'ambulanza che
mi sta portando a Bologna (un altro ritorno), cesso di
singhiozzare e sbraitare. Ho capito tutto troppo
tardi, di questo trauma che mia madre e mio padre mi
fecero patire nella pubertà e adolescenza. A
cosa serviva cambiare nazione, città, albergo,
monolocale? Sono io, come i miei genitori mi hanno
voluta, a essere malata dentro. A Bologna gli
psichiatri soffocheranno con i farmaci la mia rivolta
giovanile, che si è rivelata patologica, pazza
ed è sfociata nel delirio. Non mi
resterà altro che chiudermi in una stanza a
scrivere monologhi blu, fiume in cui come Narciso mi
rifletterò.
- Non devo piangere,
perché anche a Bologna potrò scrivere.
Nella mia battaglia per l'autonomia e l'indipendenza
dai miei, non ho avuto la V della Vittoria. E non mi
resta che affidarmi a una S, quella della Scrittura.
Una lettera che è l'iniziale non dei Soldi,
né del Sesso, ma piuttosto di Souvenir,
Subconscio, Specchio, Simbolo, Sogno. Sì, a
Genova, la notte del 23 gennaio 1997, sono morte per
sempre le trentenni Francesca, Simona e Giovanna, per
lasciar posto a Chiara Parola, la scrittrice.
Chissà cosa combinerà
Oh, adesso
è una piccola neonata. Eh già,
apprendere a creare è come imparare a
camminare. La bambina-artista comincerà con lo
strisciare, poi verranno i primi passi da bebè,
quindi le cadute
Quanti fogli butterò nel
cestino, quante cancellature sui quaderni, quanti
abbozzi di romanzi farò e
disferò!
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