Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Giacomo Ferretti
Ha pubblicato il libro
Giacomo Ferretti - I colori dell'inverno


 

 

 

 
Collana I salici (narrativa)
14x20,5 - pp. 276 - Euro 18,00
ISBN 88-8356-844-3
Prefazione
Incipit

Prefazione
 
Giacomo Ferretti ed io ci siamo conosciuti in un febbraio sorrentino che con la sua falsa primavera dava speranza per il solo fatto di esserci. Lui - giocatore professionista di biliardo e giornalista della New Project - seguiva il Memorial "Nocerino" a Piano di Sorrento ed io svolgevo la mia professione di giornalista, riposandomi ai primi caldi tepori della mia terra. Mi diede per improvviso empito di simpatia i suoi primi titoli che io lessi con interesse: il romanzo - di formazione? - «Gli Arcaldi e il "controllore"» - e la sua raccolta di poesie «Il canestro» che aveva il titolo di un bel racconto del nostro Mimì Rea. Nella raccolta poetica Ferretti mostra l'inquietudine dell'etos più che del bello: la sua è una ricerca affannosa dell'amore che non c'è... "Saremo giudicati sull'amore" dice un precetto evangelico e l'Autore si iscrive a questa folle corsa in un tempo in cui l'oggetto ricercato è mera apparenza che confeziona individualismi cercati e protetti. Dopo "Gli Arcaldi", vero e proprio Bildungroman, anche se ammantato dai catarifrangenti della finzione romanzesca Ferretti punta più in alto e con gli strumenti della cornice storica tenta con la saga degli Hamilton di indovinare quel genere letterario - il romanzo storico, appunto - che in Italia ha nel Manzoni il capostipite e pochi emuli, ma molto pochi: De Roberto, Tomasi Di Lampedusa, il nostro Enzo Striano..., in un'elencazione che saltabella tra i secoli fino ai nostri giorni... De il nuovo romanzo "Il colore dell'Inverno" - fiction familiare nell'Inghilterra vittoriana - leggeranno e giudicheranno i lettori che speriamo copiosi e pronti ad intonare il dolce suono della cornamusa (Ceronetti) del passaparola... Per quanto concerne la nostra funzione - quella di critico che non decliniamo - possiamo solo dire che in alcuni tratti, data la fluenza del testo, nient'affatto criptico - ci ha ricordato un bel fumetto di un grande autore: quel balloon "Sciopero" che è poi uno dei capolavori di un'altra saga quella fumettistica di Ken Parker e del suo autore: Giancarlo Berardi... Invece che una nostra noiosa perorazione di parte abbiamo preferito organizzare una prefazione anomala integrandola con un'intervista all'autore per farlo scoprire al pubblico nella sua seconda forza oltre che quella formale dello scrittore passionale: quella della sua qualità umana che in altri molte volte si dissocia da quella del buon narratore in una divisione stevensoviana ben nota nel nostro tempo. No, Giacomo Ferretti è quello che scrive essere dei suoi personaggi...
 
Come è nata la tua vocazione letteraria?
La mia vocazione letteraria nacque quando - svolgendo il servizio militare - venni addetto alla funzione di bibliotecario. Congedatomi scoprii ben presto quanto fosse importante l'amicizia di un sano libro: quindi volendo rimanere ancorato alla cultura, ripresi gli studi abbandonati da ragazzo. Ciò mi permise di capire l'importanza della conoscenza della storia del nostro passato, senza la quale difficilmente all'uomo sarebbe permesso conoscere dove sia diretto...
 
Come ti sei sostentato durante la tua vita?
Iniziai a lavorare, vista la povertà della mia famiglia all'età di 12 anni. Terminata la mattina scolastica, nel pomeriggio aiutavo come apprendista falegname, in una ditta che costruiva motoscafi. L'anno successivo mio padre acquistò un bar nel quale vi lavorai fino ai 28 anni. Intrapresi altri lavori quali il venditore di macchine, funzionario della G.B.C.Americana e responsabile pubblicista. Capendo che dedicandomi completamente al biliardo il guadagno era maggiore optai per farne una vera professione giocando in gare nazionali ed internazionali nelle quali, mediante onorevoli piazzamenti e diverse vittorie importanti, ho guadagnato quanto bastava. Iniziai a giocare al biliardo nel 1975, dopo un solo anno di attività già percepivo piccole sponsorizzazioni da parte di steccaioli e biliardieri che assieme al montepremi delle gare mi permisero di continuare, tra non poche difficoltà, l'attività. Nel locale, poi, in cui sono cresciuto biliardisticamente (bar Mazzarella di P.ta Venezia) conobbi dei professionisti di poker dai quali appresi i segreti del gioco potendo così divenire un buon giocatore...
 
Hai svolto anche attività giornalistica...
Scrivo articoli sulle brochures della Federazione Biliardo dove spiego cosa accade al termine di ogni prova della B.T.P (Biliard Tour Pro); quali sono i giocatori che - di volta in volta - vincono i diversi tornei... Il tutto correlato da una descrizione storico-culturale del luogo.
 
Come hai iniziato a scrivere?
Prima di rispondere a questa domanda ho bisogno di raccontare parte di cosa mi successe in quel periodo. Alla fine del 1994 cessò l'attività professionistica su tele+2, e all'inizio del febbraio del successivo anno mi separai da mia moglie. La conseguenza di tutto ciò mi indusse a cercare un'abitazione nella quale vivere... Trovato un angusto monolocale di 30 mq continuai per la strada scelta che si dimostrò impervia e difficoltosa. Tra ristrettezze economiche e senso di solitudine capii che mi stavo incamminando in una direzione verso cui non scorgevo alcun traguardo, ed associandomi al detto nel quale si dice che al male non c'è fine, subii un infarto e subito dopo venni lasciato dalla donna che amavo. Mi dovetti fare da mangiare, stirare, lavare la biancheria, pulire la casa, e pagare una retta mensile del monolocale che si aggirava sul milione delle vecchie lire. In una di queste notti, tra un pensiero negativo e l'altro, riniziai a comporre poesie. Fu alle quattro di una notte che mi misi a scrivere l'inizio degli "Arcaldi..." smettendo alle otto di mattina. In quel momento capii che maneggiare la penna alleviava la mia sofferenza: il passo per decidere di continuare a scrivere fu breve. All'inizio di quest'anno sono state pubblicate - dalla F.C.M. - le mie poesie nella raccolta "Il Canestro". La vendita assieme ai due romanzi viene effettuata dalle librerie universitarie Le clup, cuesp, libri e cose via Conservatorio 7 - Milano.
 
Che rapporto hai con Milano?
Ho vissuto con Milano un rapporto difficile fin da quando mio padre vi condusse la famiglia, nel lontano 1958, a Bresso piccolo paese alle porte della città, formata da non più di quattromila abitanti. Noi immigrati venivamo chiamati i "foresti": aggettivo che stava per forestieri (stranieri). Questo senso classistico mi accompagnò per un lungo periodo facendomi capire quanto fosse difficile entrare nel cuore della gente del luogo. Arrivando da una terra nella quale essere socialmente disponibile è insito nella pelle, feci una fatica enorme ad ambientarmi nella società meneghina. Con l'acquisto della maturità risolsi il problema dedicandomi allo sport.
 
Perché un romanzo storico sull'Inghilterra vittoriana?
L'Ottocento ha rappresentato nei miei sogni quel calore storico e sociale che ha accompagnato tra bene e male la grande voglia di riscossa del nostro paese culminata con l'unificazione. Di quel secolo ho amato la cornice poetica che lo ha contraddistinto assieme alla cultura e alla poesia del grande Leopardi.
 
Un romanzo è un fatto particolare o è finzione universale?
Un romanzo è finzione che tende all'universale, lo testimonia la fantasia che viene superata dalla realtà la quale ci proietta nel sensibile universale, da cui l'uomo deve costantemente attingere per cercare di capire e vedere oltre.
 
Quali sono le tue letture?
Leggo volentieri i romanzi di Ken Follet mio autore moderno preferito non disdicendo letture del passato. Ho appena terminato di leggere "Diario di un killer sentimentale" di Sepùlveda. Mi accingo, poi, a leggere "l'Acchiappasogni" di Stephen King.
 
Cosa stai preparando di nuovo?
A parte le brochures federali sono intenzionato - gare permettendo - a scrivere la mia autobiografia.
 

Vincenzo Aiello

 


Nel borgo di Saint George a poche miglia da Birmingham prendono il via le intricate vicende della baronessa Isabel, donna bellissima, elegante e sensuale. Dopo la morte del suo primo marito, sposa Sir Richard Ferdinand ma il destino giocherà un ruolo fondamentale nella sua vita: l'insoddisfazione nel rapporto coniugale, il tentato omicidio da parte di Victor e, dopo la separazione, l'ardente passione per Jack.
Gli eventi che accompagnano la bella Isabel sono sempre sospesi tra i richiami storici dell'Inghilterra vittoriana e l'ambiguità d'una realtà solo apparente e l'Autore, tra amori delusi, passioni travolgenti e inaspettati colpi di scena, si rivela assai abile a scandagliare gli anfratti dell'immaginario e i meccanismi psicologici della travagliata esistenza d'una nobildonna.
Ritroviamo le suggestioni da romanzo d'amore e l'indagine inquietante sull'epoca storica in cui si snoda l'intera trama grazie ad una narrazione avvincente e alla propensione creativa di Giacomo Ferretti che mette in risalto la capacità di suscitare emozioni, coinvolgere il lettore nella ricerca delle verità contrapposte, evocare i profondi turbamenti, scrutare in fondo all'anima fino al travaglio per le scelte decisive in una miscellanea che conquista, pagina dopo pagina.
 
 

Massimiliano Del Duca

 
 

 
Il colore dell'inverno


 
Capitolo I
 
1891
 
 
Quel giorno a Saint-George pioveva a dirotto; a malapena s'intravedeva il postino arrivare, sulla sua bicicletta nera, con la borsa della posta a tracolla.
Correva lungo lo stradone del porto, alla sua destra si trovava il grande fiume Tamigi.
Dalla finestra della casa degli Hamilton, guardando in lontananza, si notava un buio tale che pareva essere già scesa la notte. La loro abitazione era l'ultima, facendo angolo, di un quartiere di operai per lo più lavoranti nelle varie fabbriche del luogo.
Fuori dal paese, vicino al porto, erano raggruppate alcune fabbriche di ferro, di rame, tessili, ad un miglio l'unica miniera di carbone della zona. Per parecchia parte dell'anno bisognava convivere con la foschia, che spesso diventava nebbia. Numerose erano le giornate invernali in cui il paesaggio elargiva a chi lo osservava una visione triste, un po' malinconica.
Questo borgo, con poche migliaia di abitanti, era situato ad una trentina di miglia da Birmingham nelle vicinanze del Galles. Ad osservarlo dall'alto, la separazione tra abitazioni e fabbriche era di una distinzione assoluta. Il quartiere dove risiedevano gli abitanti era formato da piccole ville non più alte di due piani, la disposizione architettonica delle strade rendeva comodo il suo percorso.
Quando la brutta stagione lasciava il posto alla primavera, o all'estate, l'immagine dell'abitato era tutt'altro che sgraziata. Quest'area si affacciava sul fiume Tamigi, dove a fatica, anche nelle giornate più limpide, vista la sua grandezza, si vedeva la sponda opposta.
Ancorata al molo si trovava, assecondando il moto del fiume, nell'attesa di una fine annunciata, l'unica chiatta a ricordo di un tempo che fu, quando essa rappresentò il trasporto fluviale di commercio tra Saint-George, e le varie altre città.
La vecchia imbarcazione era ormeggiata con della fune che, nella parte sottostante vicino all'acqua, pian piano, si sfilacciava ricoprendosi di muschio viscido di cui se ne vedevano tracce, anche in buona parte della chiatta: di tanto in tanto sbatteva contro una delle due gambe in legno che sostenevano il pontile.
A farle compagnia, una barca a vapore dell'unico pescatore del paese che, ereditando il mestiere dal padre, pescava per il sostentamento della sua famiglia.
Gli Hamilton erano originari del posto, anche zia Isabel vi nacque, lasciando però il paese ancora in fasce per passare tutta la sua infanzia in una cittadina, nella vicinanza della capitale, chiamata Rochestar. Si laureò a Londra nel 1870 in economia e commercio.
Per gli Hamilton la zia rappresentava un punto d'arrivo, quei classici punti fermi di cui te ne fai un approdo. In famiglia c'erano papà Anthony, fratello di Isabel, e maggiore di lei di 10 anni, la moglie Annette e i due figli, John, di anni ventisei, e Jesus, di anni ventitre. John era un bel ragazzo alto un metro e ottanta circa, capelli neri accompagnato da una corporatura atletica e snella. Non si diplomò e non per non saperla tutta..., bensì per essere andato in contrasto, a causa di idee politiche, con i vertici scolastici, che al quarto anno di liceo lo bocciarono tacciandolo come sovversivo.
Jesus somigliava al fratello nella statura con due sole differenze: il colore dei capelli rossicci, e il colore della carnagione, più chiara di quella di John, cosa da ricercarsi nell'albero genealogico della madre, infatti il nonno matreno era di fisionomia e carnagione somigliante al figlio Jesus.
John, abbandonati gli studi, considerando la sua bocciatura ingiusta, andò a lavorare nella fabbrica dove già lavoravano i suoi, mentre Jesus si laureò con merito in filosofia e lettere all'università di Birmingham.
Gli Hamilton lavoravano in fabbrica dalle dodici alle quattordici ore al giorno, per permettere così ai loro figli una vita al di sopra delle loro possibilità, acconsentendo a Jesus di laurearsi.
In fabbrica, John, vi lavorava lo stretto necessario previsto dal contratto, poi, quando poteva, con i suoi colleghi parlava di politica. Non era ben visto dai padroni, certi Cortez, famiglia di origine spagnola che emigrò dalla città nativa quando sul territorio imperversò il vaiolo.
Questi Cortez erano brava gente, per farseli amici non si doveva contrariarli su cosa, o non, fosse giusto fare nella loro fabbrica. Ma a John questo messaggio pareva non scalfirlo nemmeno in superficie, per cui, più loro gli stavano addosso, e più lui sindacava anche all'interno del posto di lavoro. Per metterlo in condizioni di non nuocere, gli proposero perfino di passarlo capo del gruppo di operai con i quali lavorava.
Nel complesso industriale vi lavoravano duecento operai e una ventina di dirigenti. La fabbrica era denominata "Cortez & C. Rame".
In quegl'anni il sindacato non era ben visto dalla classe dominante, praticamente chi era sindacalista era un nemico dei padroni e un fannullone, e chi più ne aveva da dire lo diceva.
Annette Hamilton si disperava l'anima per questo suo figlio così ribelle. La donna era dinamica, dal fare spiccio e diretto, a lei non si poteva chiedere di fermarsi a riflettere, bensì di lavorare ancora, e di più. Donna minuta, molto operosa, non molto bella, ma di sane virtù.
Anthony, suo marito, era l'opposto di lei. A lui piaceva dialogare con la gente, capirne le ragioni quando poteva e quando, la stanchezza per il tanto lavoro effettuato, non gli chiudeva tutti gli spazi mentali.
A discapito di una certa quiete familiare, diverse furono le discussioni con il figlio John per il "suo" sindacato. John era uno di quei ragazzi che, per fargli cambiare idea, lo dovevi prendere con le molle, altrimenti, proprio per quella sua ribellione, faceva di tutto tranne ciò che si conviene al buon senso.
Era tutt'altro che stupido, ... anzi dotato di una intelligenza lungimirante, ma il suo orgoglio e la sua forte personalità, tradivano a volte la sua intelligenza. Il fatto di essere nato povero, nei sobborghi di Saint-George, lo rese fin da piccolo, ribelle verso l'alta società, non che in paese di ricchi ce ne fossero molti, ma quei pochi, per lui bastavano e avanzavano.
Non si possono contare le volte che litigò con i figli di questi ultimi. Di contro con le ragazze altolocate faceva di tutto per accattivarsi le loro simpatie. Apostrofava i ragazzi con scherno e distacco dicendo loro di essere dei 'Cicisbei' un po' effemminati.
Jesus non sopportava che continuassero ad additare il fratello in malo modo, per questo, volendo consigliarlo al meglio, innumerevoli furono i casi in cui cercò con lui un dialogo. Egli infatti voleva indirizzare il suo orgoglio verso fini più conciliatori che, pian piano, gli facessero cambiare quel carattere così ribelle dentro cui si specchiava una dignità indissolubile, a volte scambiata per testardaggine. I primi diverbi divennero la causa anticipatrice a visioni di vita politica diversa, dove, se per John la morale risiedeva in un socialismo che per le idee di allora era utopistico, per Jesus il progresso andava ricercato nel miglioramento del pensiero politico di chi già li governava. Questo l'aveva portato a capire che non è nel cambiamento radicale delle cose che si ottengono i grandi risultati, bensì in interventi a piccoli passi nelle strutture già esistenti.
In una sera in cui i due fratelli si trovavano seduti nella poltrona della sala Jesus disse: "John, non devi comportarti sempre allo stesso modo, oltretutto sei anche poco originale. È possibile che ogni qualvolta ti vedo in giro fai discussione con qualcuno su come dovrebbe funzionare questa cosa..., quella fabbrica. I padroni dovrebbero agire, e non sempre promettere..., questo non ti va bene..., quello... neppure. Non capisco, veramente non ti capisco. Se i Cortez lo vengono a sapere potrebbero licenziarti".
"Ma smettila, gli rispose il fratello, sei il solito borghese: giudichi tutto, come se nulla ti toccasse, come se i problemi dei lavoratori non ti riguardassero...; lo sai che hai una madre e un padre che lavorano in quella schifezza? Dovrei avere paura del giudizio dei Cortez? Ti sentissi una volta parlare in difesa dei tuoi. Mi domando, e mi chiedo, se tu sai in quali condizioni lavorano...? Poi ci sono le altre fabbriche, e quelle sparse in tutta l'Inghilterra. Come pensi che stiano i minatori quando risalgono alla superficie? Te lo ricordi il padre di Jack? È morto la sotto... una famiglia rovinata".
"Partiamo del fatto che io non sono superficiale come mi hai descritto. Rifletto a lungo sulle condizioni disagiate dei lavoratori, dei nostri genitori, del loro salario, e del loro futuro. Comunque non volevo toccare questo argomento,bensì avevo da dire sul tuo poco buonsenso. Le cose non si aggiustano affrontandole di petto, o con esuberanza, ma con un comportamento più diplomatico, con un comportamento che faccia riflettere gli avversari i quali capiscano di avere a che fare con uno con tanto di palle...!"
"Siamo fratelli, e più passa il tempo più mi accorgo che nutriamo una visione del mondo diametralmente opposta, caro Jesus. Secondo il tuo punto di vista dovrei cambiare il mio modo di fare... Come credi che potrei mutare i sopprusi giornalieri del padroncino Cruz e della sua famiglia, chiedendo: Scusate potreste rimettere a posto la fabbrica, darci più soldi... così dovrei fare?
La classe operaia è sfruttata da quando è nata. Dai tempi in cui è finita la schiavitù essa si è tramutata in operaistica manovalanza, dove i padroni di allora non sono altro che quelli di oggi, cambiano le forme ma i contenuti sono i medesimi, caro fratello. Hai studiato nella tua bella università, mentre noi della famiglia ci danniamo l'anima là dentro..."
"Sei proprio uno stronzo, quando io ho iniziato l'università tu avevi smesso da tempo, non volendo più continuare gli studi. Ricordi quanto pregarti ha fatto la mamma, tu le rispondevi dicendo che anche studiando non avresti risolto nulla e che lo studio non ci avrebbe elevato ai ranghi "superiori". Dicesti di aver subito un' ingiustizia nella bocciatura perché fu una bocciatura politica."
Seguì una lunga pausa di silenzio, i due si guardavano negli occhi.
"A te, continuò Jesus, interessava fare l'eroe, il portatore di nuove idee, assurgerti a nuovo leader della classe operaia, guardare le belle ragazze e sbeffare i ricchi, eccetera.., meglio che mi fermi qui...!"
"Senti, non parliamone più, tanto io non cambio idea a te, e tu non la cambi a me".
"Siamo alle solite, quando ti toccano nel vivo, e sai che dico la verità, te ne esci dicendo: "Non parliamo più".
"Come vuoi, non parliamo più".
Dai tempi in cui volle terminare gli studi tutto per lui si distingueva tra il male raffigurato dai padroni, e il bene, con il volto sofferente e sudato dei lavoratori. Un pensiero categorico che cozzava con la sua brillante intelligenza, chissà... un domani forse avrebbe potuto cambiare.
Jesus cercò di fargli capire che, bene o male, questa classe dirigente tanto detestata da lui, permetteva agli Hamilton di vivere in una certa agiatezza. Essi non navigavano nell'oro, ma neanche nel fango, che la stragrande maggioranza della popolazione di Saint-George conosceva benessimo. Gli Hamilton erano tra quelli che avevano la bicicletta e la domenica, per andare in chiesa,tutti e quattro si cambiavano d'abito. Una volta alla settimana andavano al Club House a bersi un bicchierino, e ai rispettivi compleanni si permettevano di invitare amici per festeggiare; insomma vivevano una sorta di equilibrio quasi borghese, che permetteva loro di avere anche il rispetto di zia Isabel. La discussione terminò lasciando i due fratelli proprietari delle iniziali idee.
 
 
Isabel era una donna molto bella, e di gran classe. L'accuratezza con cui si vestiva, con cui curava le mani e tutto il suo corpo femminile, metteva in condizioni gli uomini che la osservavano di sognare ad occhi aperti. La donna era sorretta da una camminata sicura, elegante e sensuale. Fantasticando di come fosse fatto il suo corpo, in un pensiero molto vicino alla realtà, si sarebbe detto che, partendo dalle caviglie scarne, si accedeva ad una visione di due lunghe e bellissime gambe, salendo si notava un bel seno, per poi arrivare ad un volto interessante e perfetto nei lineamenti. Il tutto era sostenuto da una folta capigliatura nera, fluida come l'acqua e consistente come il muschio.
Si era unita in matrimonio, dopo la morte del suo primo marito, dal quale ebbe un figlio di nome Robert, ad un certo Sir Richard Ferdinand, baronetto di Glasgow, divenendo la baronessa Isabel Hamilton. Il suo primo marito non ebbe modo di vedere Robert, poiché morì travolto da un cavallo impazzito mentre attraversava una strada, ancora prima che lui nascesse.
Il barone era oltremodo elegante, come la consorte, ma meno raffinato, si può dire... poco signorile, più pratico e spiccio. Di notevole statura, vestito sempre all'ultimo grido; portava con disinvoltura una barbetta incolta, ben curata. Possidente terriero,e per possidente parlo di quelli che neanche sanno quanti soldi hanno. Figlio unico proveniente da una famiglia scozzese di Glasgow che aveva interessi in tutt'europa: da Glasgow a Varsavia, da Londra a Parigi, e via dicendo.
Tra Sir Ferdinand e Robert non correva buon sangue, i due erano agli antipodi nei modi di vedere le cose, dalla politica, alla cultura, nei modi di fare, alle amicizie. Si poteva affermare che se Robert avesse potuto, avrebbe lasciato la nazione pur di non avere più a che fare con il patrigno.
Sir Richard Ferdinand lo considerava un ragazzotto viziato dalla madre, al quale tutto era stato permesso per via dei denari posseduti. La verità sulle loro diatribe si trovava quasi sempre nel mezzo, e come dicevano i latini: "In medio stat virtus".
In una cosa aveva completamente ragione, era veramente viziato.
Per la disperazione della madre, Robert, non terminò gli studi, finendo il ginnasio al penultimo anno. La cosa andava ricercata nella sua insofferenza al sacrificio. Portava gli occhiali da vista, non somigliava nella bellezza ad Isabel, anzi oserei dire un po' brutto.
Da lei aveva preso il modo di camminare e il colore dei capelli, un nero accentuato. Uomo dal viso scarno, due sopracciglia vistose evidenziavano uno sguardo un po' cupo e malinconico.
La sua altezza male si associava a quella della madre. Nel suo insieme lo si faticava a definirlo. A volte appariva quasi simpatico, ...subito dopo lo si notava di un'antipatia assoluta, associando i due modi in un contrasto che, per lui, si poteva dire normale.
Per farne una cornice reale, Robert era un ragazzo come tanti altri, in possesso di una media cultura, molto schivo, viziato e sfuggente a chi voleva saperne di più.
Fidanzato da oramai un anno con Judith Dikens, figlia del rettore dell'università di Birmingham.
I due si piacquero fin da ragazzi, quando, ancora giovani, frequentavano il ginnasio. Il notarli assieme li poneva in un accoppiamento piacevole da guardarsi: lei sempre avvenente e ben vestita, lui ricco e per bene. Entrambi ritrosi per un senso di superiorità di cui credevano essere i soli proprietari. Altezzosi quanto bastava per rendersi, ai più, antipatici.
Il padre di lei, di questa non ancora consacrata unione, ne andava fiero, e lo si vedeva da come li guardava mentre erano in atteggiamenti di tenerezza.
Uomo di piccola statura, un po' goffo nel suo insieme, geniale per intelligenza e cultura. Per tutti un punto fermo dell'università stessa, capace di sedare, con le sole parole, movimenti politici un po' troppo accesi che nascevano all'interno delle diverse facoltà. Sua moglie, madre di Judith, era una donna schiva alla popolarità, non amava farsi vedere in pubblico, e quindi destava, nel pensiero comune, quella curiosità tipica di chi crea attorno a sé quel mistero di cui tutti vorrebbero saperne di più. I tre, assieme, li si poteva notare solo alle grandi cerimonie in cui interveniva tutta l'alta società.
Anche a John, da ragazzo, piaceva Judith, carina, dai modi garbati, alcune lentiggini le contraddistinguevano il viso.
Capelli di color castano chiaro, aveva un seno prorompente per la sua piccola statura. Un po' pettegola e superficiale nei giudizi che la toccavano personalmente, al contrario quando doveva esprimersi per cose che non la riguardavano, elargiva disquisizioni che apparivano sempre sopra le parti. Tornando alla bella Isabel, la si vedeva occupare parecchie ore della giornata, nella sua incantevole residenza, per cercare di far quadrare il bilancio delle sue immense ricchezze.
Sir Ferdinand le rimaneva vicino l'indispensabile, non potendo altrimenti, poiché anch'egli doveva curare i propri interessi sparsi per l'Europa. Le cose da un po' di tempo tra Isabel e Sir Ferdinand non andavano un granché bene. Come si sa la lontananza, o genera desiderio, o produce distacco: tra i due la cosa si incamminava più verso la seconda deduzione. Si vociferava che il barone tornasse sempre meno alla tenuta in virtù di un amore fresco con una ballerina russa conosciuta in un locale di un sobborgo nella città di Pietroburgo.
Certo, anche a Isabel non mancavano i pretendenti, ma fare la corte alla bella donna non era cosa da poco.
Aveva modi raffinati e gentili, che nascondevano un carattere consistente, a volte coercitivo. Quando voleva sapeva essere caparbia fino all'inverosimile. Tuttavia non disdiceva ad essere corteggiata, ma da chi diceva lei, altrimenti i suoi modi, da gentili, passavano a bruschi e diretti, senza lasciar scampo al pretendente. Si diceva che anche lei, essendo venuta a conoscenza dell'amante del marito, si guardasse attorno, con la dovuta riservatezza.
Il portalettere Jack gli faceva una corte spietata, pur sapendo che il risultato non lasciava intravedere alcun orizzonte. A guardare Jack, tutti si chiedevano il perché non frequentasse le manifestazioni di atletica che si svolgevano puntualmente a Birmingham.
Da ragazzo partecipò ad alcune di queste vincendole con superiorità. Correva i centro metri, e i duecento, con una disinvoltura e velocità impressionante. Tutto faceva capire, anche ai non addetti, di essere di fronte ad un fuoriclasse.
Questo non era sfuggito agli esperti che se lo corteggiarono per un lungo periodo. La miseria, che stagnava all'interno della sua famiglia, non gli permise di avere altri interessi se non quello di un vero e proprio lavoro, anche se poco remunerato. Jack era moro, alto più di un metro e ottanta, molto maschio ma dai lineamenti gentili, sostenuto da una potente muscolatura che la diceva lunga sullo sport fatto. Il suo grado di istruzione era di un autodidatta che non rinuncia a sapere le ultime. La ricchezza finanziaria della baronessa Isabel avvenne a Londra quando appena laureata, poco più che ventenne, distinguendosi per bravura, aprì uno studio amministrativo accrescendo in breve tempo il numero dei suoi dipendenti: una decina, numero necessario a svolgere le tante richieste di investimenti che le arrivavano da ogni luogo.
Lo studio amministrativo effettuava piccoli e grandi investimenti con i soldi avuti da possidenti terrieri, ricchi commercianti, industriali, e politici. Non certo tutti gli affari le andarono bene, ma coloro i quali ebbero un po' di fortuna dalla loro, guadagnarono migliaia di sterline.In alcuni casi vennero persi per intero i danari investiti, provocando l'irascibilità degli investitori, certi la citarono in giudizio. A Londra, Isabel, ebbe alcune relazioni, di cui fra queste, una la visse con drammaticità e tristezza.
In una gita fuori Londra conobbe un ragazzo di nome Victor; questi la corteggiò per parecchio tempo finché la bella Isabel cedette alle sue lusinghe. L'uomo, volendola rassicurare, le disse di volerla sposare, e di volere da lei tanti figli, desiderando che lavorassero assieme per aprire in seguito altri studi amministrativi.
Ad un certo punto della relazione la Hamilton, una sera, lo vide parlare animatamente con un'altra donna. Il giorno seguente pensò e ripensò all'episodio notato, promettendosi che la sera stessa lo avrebbe seguito.
Venne alla scoperta che Victor era sposato ed era padre di tre figli.
Isabel andò su tutte le furie, quando lo rivide lo schiaffeggiò ma prima di farlo gli disse: "Dov'eri tre sere fa a quest'ora?"
"Stavo incamminandomi all'albergo, ...mi sarei dovuto cambiare. Ricordi? ...avevamo un'appuntamento ...l'hai disdetto dicendomi che non ti sentivi bene. Rammenti?"
"Oh... certo che ricordo, ricordo benissimo..., ho buona memoria ed anche un buon udito, e rammento anche il perché ho inventato la scusa che non stavo bene."
"Come... la scusa?"
"Avresti preferito che ci fossimo incontrati, e ancor prima di lasciarti parlare, ti avessi preso a schiaffi?"
Victor si guardò attorno, forse per cercare un qualsiasi aiuto..., o forse per verificare se qualche passante avesse sentito ciò che Isabel aveva pronunciato, dopo di ché le disse: "Perché mi dici questo?"
"Se fossi un vero uomo avresti almeno il coraggio di affrontare la realtà... invece, come hai fatto con la sottoscritta, e con tua moglie, prendi per i fondelli tutto, e tutti.
Sei proprio poca cosa! Ma cosa ho visto in te perché m'innamorassi?"
Terminate le accuse, senza lasciargli possibilità di replica gli diede due schiaffi in faccia.
A Victor gli rimasero sul volto le impronte dei ceffoni presi, tuttavia invece di desistere fece per prenderle un braccio, quasi stesse a significare: "fermati... non andare oltre" ma Isabel tolse il proprio arto dalla presa di lui, e lo lasciò sul posto andandosene di gran lena.
L'uomo la guardò allontanarsi, ma prima che girasse l'angolo per introdursi nella via che conduceva alla sua abitazione, la inseguì rincorrendola e quando le fu vicino le urlò: "Non puoi lasciarmi..., ne morirei, non posso vivere senza di te! Ho sbagliato ne sono consapevole..., ho tentato di parlartene ma la paura che mi lasciassi ha preso il sopravvento. Non puoi lasciarmi così! Ti prego!"
Isabel lo guardò e, in un misto tra il compatimento e l'ira, gli disse che per lei la storia era conclusa e di non cercarla più. Se ne andò definitivamente lasciando l'ex amante nella tristezza dell'abbandono.
L'uomo le inviò diverse lettere che vennero da lei puntualmente cestinate. Di lui non seppe più nulla se non di certe dicerie che lo volevano separato, in preda a disperazione. In quel periodo, nel tornare alla propria abitazione, ebbe la sensazione di essere seguita. Si fece spesso accompagnare da amici, finché avvisò la gendarmeria che dopo i dovuti accertamenti la tranquillizzò.
A pochi mesi di distanza, quando la sua sensibilità soffriva ancora per Victor, le capitò di essere citata in tribunale da un certo Douglas, che le imputava di essere l'artefice della perdita dei suoi guadagni.
L'uomo sosteneva che Isabel fosse d'accordo con la controparte, gente alla quale aveva venduto dei terreni. Questi arrivò perfino a minacciarla con un coltello. Da lì a poco non fu più visto. In futuro si seppe che l'uomo chiamato Douglas era cognato di Victor, l'ex di Isabel. Nel periodo si vociferò che avesse fatto una brutta fine essendo anche ricercato dalla polizia. Cercavano una specie di maniaco che, sempre si pettegolava, avrebbe ucciso diverse persone.
Isabel dopo questi angosciosi episodi si sposò con Charles Crusoe, il quale, dopo pochi mesi di felice matrimonio, morì lasciandole in grembo Robert.

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Ins. 28-03-2005