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- "Le
allucinazioni benevole"
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- Armando era un uomo
sui quarantacinque anni, piccolo di statura, con i
capelli grigi e un viso buono, leggermente infantile.
Aveva una moglie e due figli; la moglie, Graziella,
era una donna sbrigativa ed energica, un po'
dittatoriale, maniaca delle pulizie; i figli, Orietta
e Gianpaolo, taciturni sin da piccoli, avevano ormai
una vita del tutto indipendente, della quale era molto
difficile arrivare a sapere qualcosa. Quando Armando
tornava a casa dal lavoro - era impiegato alle poste -
veniva obbligato dalla moglie a mettersi
immediatamente le pattine, e sedeva a tavola nel
momento stesso in cui i due figli - ognuno per
motivazioni assolutamente differenti - prendevano il
volo. Così lui restava da solo ad ascoltare la
moglie inacidita borbottare il solito, immancabile
tormentone, ormai famoso: " Questi figli! Io mi
ammazzo di fatica per cucinare e fare le pulizie, e
loro che fanno? Dopo aver mangiato e messo in
disordine se ne vanno, e buonanotte!" E se Armando
tentava un timido abbraccio nel tentativo di
consolarla, lei si schermiva dicendo: " Non farmi
perdere tempo! Devo ancora lavare i piatti! E non bere
il caffé, che poi la notte non dormi! ".
Armando, obbediente, non lo beveva. Dopo un po'
tornava con rassegnazione in ufficio, a svolgere
pratiche sempre uguali, sempre più noiose. La
sua vita senza avvenimenti, ad eccezione del
matrimonio e della nascita dei figli, era rimasta
quasi sempre tale e quale; tuttavia in alcuni periodi
particolari qualcosa aveva riempito questo vuoto. Non
si trattava di un'altra donna, ma di strane compagnie
che lo avevano aiutato sporadicamente, in alcuni
momenti della sua vita. Fin da adolescente, Armando
aveva desiderato di avere degli amici con cui poter
parlare e soprattutto da cui sentirsi amato. In
famiglia si sentiva solo; il papà era morto
quando era ancora piccolo e la mamma, donna dotata di
un altruismo incredibile e animata dall'instancabile
desiderio di rendere migliore la vita degli altri, si
dedicava giorno e notte al volontariato, mentre
l'estate la trascorreva immancabilmente a Lourdes.
Quindi Armando cercava di farsi degli amici; impresa
resa difficoltosa dalla sua naturale timidezza, che lo
rendeva un po' incerto e impacciato. Gli altri
ragazzini, tutti abbastanza arroganti e prepotenti,
non gli prestavano molta attenzione, al massimo lo
sfruttavano un po' per farsi aiutare nei compiti.
Questo accadeva puntualmente, e durante quei pomeriggi
passati insieme sui libri Armando si illudeva di aver
costruito un qualche rapporto di amicizia, e tornava a
scuola contento, pieno di speranza, pronto a
trascorrere la ricreazione con il suo nuovo amico. Ma
quello, impegnato in un'importantissima partita di
calcetto, nemmeno lo considerava. E Armando restava
lì, con l'illusione che gli si sfumava tra le
dita. Non poteva parlarne con la madre, perchè
già sapeva che la sua risposta sarebbe stata
immancabilmente la stessa: " Tesoro, cerca di
apprezzare quello che hai. Pensa a quanta gente sta
peggio di te. Domenica in chiesa ci sarà Padre
Rosario. Fatti raccontare da lui la sua esperienza di
missionario in Africa. Vedrai che imparerai molto dai
suoi racconti, e sono certa che, dopo averli
ascoltati, ti riterrai un ragazzo molto, molto
fortunato!" Armando sospirava dolorosamente. Lui non
voleva parlare con padre Rosario. Voleva un amico. Ma
nulla sembrava essere più difficile in quel
momento. Così si era chiuso in sé
stesso, regalandosi dei momenti di totale solitudine e
contemplazione interiore. Da un po' di tempo, infatti,
era solito fantasticare sull'amico che gli sarebbe
piaciuto avere: sul suo carattere, ma anche sul suo
aspetto: si immaginava i suoi occhi, la sua bocca...
tali immagini, nei suoi pensieri, si facevano sempre
più vivide, sempre più reali. Fu
così che Armando creò Enrico. Gli
successe in un verde pomeriggio di giugno, verde come
il prato del parco su cui era seduto, solo come
sempre, a fantasticare. Intorno a lui, in
quell'atmosfera quasi irreale che profumava di erba e
di sole, i compagni giocavano, chi a calcetto, chi a
mosca cieca. All'improvviso, quel giorno, gli apparve
un ragazzino più o meno della sua stesa
età, con i capelli castani e il sorriso
gentile. Si misero subito a parlare di tante cose, del
calcio, delle figurine che avrebbero potuto
scambiarsi,del comune interesse per i fumetti. Armando
trascorse un bellissimo pomeriggio, e, dopo di questo,
ne vennero molti altri. Enrico non mancava mai ad un
appuntamento, arrivava sempre puntuale, non lo
trascurava mai. La sua presenza aveva aiutato Armando
a trascorrere meglio la prima adolescenza, e non lo
aveva abbandonato fino alla fine degli studi. Peccato
che Enrico non esistesse; era solo un'allucinazione.
La mente di Armando l'aveva evocata per il troppo
desiderio ma, dal momento che lui non ne aveva mai
parlato con nessuno, nessuno se ne era mai accorto, e
l'unica spettatrice dei suoi, ahimé, monologhi
sul prato era la vecchina che abitava di fronte al
parco, che non aveva mai raccontato ai parenti nulla
di quanto vedeva perché temeva di essere
creduta affetta da arteriosclerosi. D'altra parte,
Armando sembrava sotto ogni aspetto un ragazzo
così normale! Era tranquillo, un bravo
studente, aveva buon senso. E poi, in fondo, se n'era
accorto anche lui che Enrico non esisteva. L'aveva
capito dal fatto che nessuno, né a scuola
né alla parrocchia, mostrava di conoscerlo, e
dentro di sé crebbe la consapevolezza di essere
stato lui a crearlo, come se un desiderio si
tramutasse in un meraviglioso sogno colorato fatto ad
occhi aperti. Non pensò di essere malato o cose
del genere: non ne parlò mai con nessuno,
covò dentro di sé il suo piccolo dolce
segreto. D'altronde, a dire la verità, quella
non era nemmeno la prima volta che ad Armando capitava
di essere soccorso da un'allucinazione. La prima volta
era accaduto alle elementari, ad una festa di compagni
di scuola. Si sentiva spaesato perché anche in
quell'occasione, nonostante i suoi sforzi, non aveva
trovato nessuno che gli desse retta, e così si
era rifugiato nello sgabuzzino. Stava per scoppiare in
lacrime quando gli apparve una bambina graziosissima,
vestita da ballerina, con un tutù rosa e i
morbidi capelli castani raccolti in uno chignon. La
bambina gli disse di chiamarsi Clara e lo
invitò a giocare con lei. Era così
carina, e così reale, con quel sorriso allegro
pieno di fossette! Passarono tre ore in quel
ripostiglio, giocando a rimpiattino e a nascondersi
fra le scatole, finché la mamma di Armando non
lo venne a riprendere e tutti dovettero cercarlo di
stanza in stanza prima di riuscire a capire dove si
era cacciato, poiché la casa era molto grande.
Passarono gli anni e Armando, ormai
all'università, era riuscito, nonostante la sua
timidezza, ad intrecciare due o tre rapporti
d'amicizia, ma dopo qualche anno aveva perso
completamente di vista tutti. Ognuno si era liquidato
con motivi giustissimi, per carità: chi dietro
ad un lavoro con orari impossibili, chi dopo una
delusione d'amore. Ma c'era anche chi era sparito nel
nulla, cancellando come se niente fosse il ricordo di
Armando e il suo numero di telefono sull'agenda. Poi
c'erano le ragazze. Armando non si reputava molto
fortunato con le donne, anzi gli sembrava che queste
si annoiassero in sua compagnia. Timido com'era, non
riusciva ad essere né spiritoso né
brillante; e spesso la ragazza da lui adorata gli
veniva letteralmente sottratta davanti agli occhi dal
solito estroverso di turno. Così, quando
incontrò Graziella, gli sembrò di aver
conosciuto l'unica ragazza che sembrava starlo ad
ascoltare e che lo incoraggiasse, dotata com'era di un
carattere forte e battagliero. Almeno lei era presente
e gli stava vicino, anche se nella sua
ipercriticità. Così si sposarono;
dell'errore che aveva fatto, Armando si era accorto in
seguito, ma aveva sopportato tutto con la solita
rassegnazione, così come aveva ormai da un
pezzo rinunciato al tentativo, rivelatosi
fallimentare, di intrecciare rapporti umani duraturi.
Ormai era da un pezzo che le allucinazioni non lo
soccorrevano più, anzi, a stento se ne
ricordava. La sua vita trascorreva grigia e monotona
più che mai, giorno dopo giorno, settimana dopo
settimana, quando un mercoledì - era il suo
quarantacinquesimo compleanno, ed era una giornata
fredda e piovosa - Armando ebbe nuovamente bisogno di
loro. Quel giorno, in via del tutto eccezionale dato
l'evento, Armando aveva avuto dalla moglie il permesso
di bere il caffé. Seduto sul divano color
avorio, felice, Armando aveva appena iniziato
timidamente a sorseggiare l'agognata bevanda, quando
un urlo improvviso alle sue spalle l'aveva fatto
sobbalzare. Si trattava dell'ennesimo litigio tra la
moglie e il figlio. Graziella, indispettita
perché si era accorta troppo tardi che
Giampaolo non aveva indossato le pattine ed era
entrato in casa con le scarpe infangate, si era fatta
prendere dai suoi cosiddetti "cinque minuti", ed aveva
reagito istericamente. Purtroppo un'altra disgrazia
era in agguato. Sorpreso dall'urlo, il povero Armando
si era voltato di scatto, lasciando inavvertitamente
scivolare la tazzina. Successe il peggio. La fragile
chicchera cadde e versò tutto il suo contenuto
di bevanda scura sull'eburnea superficie del delicato
divano. Si levò nell'aria un altro urlo,
più acuto e tragico del primo, per sfuggire al
quale il poveretto non aveva trovato altra soluzione
che uscire in tutta fretta di casa; si diresse al
parco, il solito vecchio parco che frequentava anche
da bambino, e si sedette su una panchina. Fu
così che gli apparve Mario. Era sorridente, con
buoni occhi azzurri e i baffi grigi; sul braccio aveva
una chitarra. Parlò per un poco di politica e
del tempo, poi invitò Armando a cantare con
lui, e Armando accettò di buon grado, felice di
poter dare un epilogo diverso a quella giornata
davvero terribile. Trascorse così un'ora;
sfortunatamente, però, passarono davanti alla
sua panchina dei conoscenti, che rimasero increduli a
guardare la scena. Si domandarono che cosa fosse
successo ad Armando: aveva forse bevuto, o si era
ammattito? Alla fine, vedendo che il pover'uomo si
ostinava a parlare al vento, diedero per buona la
seconda ipotesi, e telefonarono a Graziella. Quando
Armando rientrò a casa, trovò la moglie
agitatissima. Graziella pianse, si disperò e
supplicò il marito di farsi curare. Armando
rimase interdetto: anche questa volta aveva intuito,
era quasi sicuro del fatto che Mario proprio vero non
dovesse essere, anche perché era troppo
simpatico, ma come spiegare alla moglie che quello era
un aiuto, un soccorso che squarciava con pochi raggi
luminosi il lembo grigio della sua misera esistenza?
In qualche modo sapeva che quelle non dovevano essere
altro che allucinazioni, ma non lo spaventavano, anzi
le accettava con gioia, perchè in qualche modo
lo salvavano da ciò che più di ogni
altra cosa gli faceva realmente paura: la solitudine.
Armando sapeva tutto questo, ma non poteva spiegarlo a
Graziella, proprio non poteva; così, docile
come sempre, accettò di farsi curare e
andò dove voleva la moglie. Venne emessa la
diagnosi e stabilite le cure; Armando prese tutti i
medicinali che c'erano da prendere. Per un mese stette
lontano dal lavoro; dormiva spesso, ma la cosa che
più lo rattristava era che le allucinazioni,
sua unica compagnia, erano sparite. A volte, nei
lunghi pomeriggi trascorsi a riposare - questo era
l'effetto dei farmaci - sul letto, gli sembrava, nel
dormiveglia, di riuscire ad afferrare un barlume di
sorriso amichevole, una ninna-nanna consolatoria, il
tratto di un volto di uno dei tanti amici benevoli che
lo avevano soccorso in quegli anni passati. In quei
momenti veniva preso da un'incontenibile nostalgia nei
confronti di quelle persone che non erano mai
esistite, e allora diceva tra sé e sé,
in una sorta di impossibile appello : "Amici miei, so
che voi non siete reali, ma sento che mi mancate.
Nella vita ho conosciuto tante persone in carne ed
ossa che si dileguavano, svanivano come nebbia nel
momento stesso in cui io cercavo di avvicinarmi a
loro. Voi invece siete sempre venuti a soccorrermi, e
proprio quando avevo bisogno del vostro aiuto. Chi
è più reale? Voi , che mi avete aiutato,
o tutti gli altri, che mi hanno sempre evitato? Loro
sono svaniti, non voi! ". Così continuava per
un po', in preda allo struggimento. Purtroppo, dopo
aver praticato la massiccia cura a cui l'avevano
sottoposto, Armando dovette dare definitivamente addio
ad ogni aiuto onirico, e a tutti i suoi benevoli amici
immaginari. Il fenomeno, come lo chiamavano i dottori,
non si ripresentò mai più. Passato il
mese, riprese a lavorare, e la vita tornò ad
essere quella di sempre, forse un po' più
triste perchè priva di allucinazioni benevole.
Le pratiche da sbrigare alle poste erano sempre le
stesse, le ore si susseguivano l'una dopo l'altra,
sempre uguali, mentre Graziella, a casa, passava e
ripassava lo straccio sul pavimento per farlo
brillare, e ogni tanto si affacciava sul pianerottolo
per litigare con i vicini.
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