- Ricordi
e racconti del tempo che fu
-
- L'oggetto
misterioso
-
- Vito
era un ragazzo sveglio che da subito, più che
studiare, preferì lavorare. Così finita
la quinta elementare si cercò un lavoro e lo
trovò a Bari presso un fabbro ferraio. Un
giorno il fabbro lo mandò, con una carretta, a
ritirare una vecchia ringhiera di ferro arrugginito
dalla casa di un suo amico.
- Durante
il ritorno, mentre percorreva l'estramurale Capruzzi,
proprio all'incrocio con via Amendola, l'attenzione
del ragazzino fu attratta da un oggetto misterioso,
che su, in alto, proprio al centro dell'incrocio,
cambiava la sua luce diventando ora verde, ora gialla,
ora rossa e poi di nuovo verde, ecc.
- Il
ragazzino non aveva mai visto nulla di simile e senza
pensarci fermò la carretta, con tutta la
mercanzia, al centro della strada, proprio sotto
l'oggetto sconosciuto e, fra sé e sé,
incominciò a cercare di indovinare il colore
che sarebbe apparso dopo.
- Invano
il vigile del marciapiede cercava di attirare la sua
attenzione fischiando a più non posso. Vito era
incantato, ammaliato da quell'esoterico aggeggio o
forse, ancora di più, da quella strana gara da
lui intrapresa con l'oggetto dai colori
cangianti.
- Stanco
di fischiare inutilmente, il vigile si avvicinò
al ragazzo.
- "Ragazzi",
disse, "il verde è scattato ben quattro volte,
ma tu sei ancora qui a intralciare il
traffico".
- La
vista del vigile spaventò Vito che
s'impossessò subito delle stanghe per
svignarsela.
- Ma
l'agente lo trattenne per un braccio e:
- "Vedi
giovanotto, ora devi aspettare", disse con fare
bonario e continuò:
- "Con
il rosso non puoi passare, devi aspettare il verde. Il
semaforo serve a regolare il traffico e ti permette di
passare solo con il verde".
- Ancora
una volta il ragazzino alzò gli occhi verso il
semaforo, poi rivolto al vigile:
- "È
bello, mi piace," disse e continuò, "sapete,
è la prima volta che lo vedo; credevo fosse una
reclame di candelabri".
-
- La mia
prima maestra
-
- I
ricordi della mia infanzia, dei miei primi anni di
vita sono tantissimi, ma dei primi anni di scuola
elementare ricordo molto poco, anzi quasi niente, una
vera e propria tabula rasa.
- Ho
spesso davanti agli occhi il viso, l'immagine delle
suore dell'asilo, oggi diremmo della scuola materna,
ma del, della o degli insegnanti dei primi tre anni
della scuola elementare niente, un completo buco
nero.
- La
mia prima maestra, o meglio la maestra di cui mi
ricordo è quella della quarta elementare, la
signora Maria Pantanella.
- Era
una fascista sfegatata e una grande attivista del
partito.
- Oriunda
di Bari, a causa dei molteplici impegni che aveva a
Capurso, trovò casa qui e vi si stabilì
con tutta la famiglia consistente in due sole persone:
lei e il marito.
- Di
altezza normale, piuttosto magra, più brutta
che bella e... con i nervi scoperti, a fior di pelle,
nervi fatti persona. Infatti sgridate, schiaffi,
tiratine di capelli o di orecchie erano sempre in
agguato durante le sue lezioni.
- Non
studiare, non fare i compiti, arrivare a scuola in
ritardo (cioè un minuto dopo di lei che
arrivava sempre cinque minuti prima del suono della
campanella), o presentarsi in modo sciatto, voleva
dire iniziare la giornata con una sgridata, un ceffone
ecc... ecc...
- Era
molto ligia ai suoi numerosi doveri e il suo tempo era
tutto e completamente dedicato alla scuola e al
partito; si occupava personalmente delle
manifestazioni connesse con il fascio e a lei facevano
capo sia gli altri insegnanti sia i capi dei vari
gruppi fascisti.
- Era
rispettata e temuta allo stesso tempo: dava molto e
pretendeva altrettanto (che sbaglio!). Nessuna
malattia, febbre, tosse, mal di denti riuscivano a
tenerla lontano dalla scuola o dalle manifestazioni
fasciste.
- Già
il primo giorno di scuola ci tenne un bel discorsetto
dicendoci che la quarta A, la nostra classe, doveva
essere la classe modello di tutta la scuola e che per
stimolarci ci avrebbe divise in due gruppi: il gruppo
delle brave e quello delle asine e che dovevamo
impegnarci per appartenere al primo gruppo, anzi,
aggiunse con una certa compiacenza, che ci voleva
tutte brave, una bella classe formata da un solo,
folto e omogeneo gruppo di "brave".
- Purtroppo
però, quando alcune settimane dopo, divise la
classe, le asine erano di gran lunga più
numerose delle brave, forse più del doppio
(l'aula conteneva tre file di banchi, nella fila
centrale furono sistemate le brave (?) nelle due
laterali le asinelle).
- La
Pantanella fu mia insegnante solo per un anno, ma la
ricordo bene perché la sua abitazione non era
molto lontana da casa mia, perciò mi capitava
spesso di incontrarla anche fuori dell'orario
scolastico. Molte furono le iniziative culturali e
umanitarie che la videro protagonista a favore del
paese contribuendovi, a volte, anche di tasca propria.
Però, quando quel maledetto 25 luglio del '43
il fascismo cadde, come di regola, tutti i capursesi
dimenticarono in un attimo, il bene che per diversi
anni Maria Pantanella gli aveva fatto, e spinti da un
ingrato mascalzone che, durante un corteo, aveva avuto
uno schiaffo dalla maestra perché molestava un
ragazzo più piccolo di lui, si riversarono
nella sua abitazione e l'avrebbero uccisa di botte se
il marito e la famiglia del locatore non l'avessero
protetta a proprie spese e fatta subito salire su una
macchina di passaggio che la portò via in gran
fretta.
-
- Alcuni
anni dopo mio padre incontrò a Bari il marito
della mia ex insegnante e da lui seppe che Maria era
morta pochi mesi dopo il fattaccio rammaricata per il
cattivo modo con cui era stata ripagata dai capursesi,
e specialmente, il signor Pantanella ci tenne a
precisare, perché uno di quelli che era stato
dalla moglie super aiutato e beneficiato con vestiti,
vettovaglie e persino con un piccolo posto di lavoro,
oltre a colpirla con calci e pugni, si era anche
permesso di qualificarla alla stregua di una donna di
strada, chiamandola p...
- Tornando
alla mia quarta elementare devo solo aggiungere che,
quando ci fu la divisione della classe nei due gruppi,
in un primo tempo io fui messa nella fila centrale,
tra le brave (?); prima di Natale però, finii
nella maggioranza, in una delle due file laterali, per
tornare a fine gennaio di nuovo nella minoranza, e poi
ancora nella maggioranza dove però, rimasi fino
alla fine dell'anno perché, sebbene nella
soluzione di un problema fossi risultata prima in
assoluto, la maestra preferì lasciarmi con le
asine, perché, mi disse, lo stare con l'altro
gruppo mi rendeva pigra.
- Credo
che avesse visto bene, infatti, il piccolo gruppo
delle così dette brave, composto da ragazze
tutte antipatiche (alcune più che brave erano
solo figlie di attivisti fascisti) che non chiedevano
e non davano mai nulla, mi opprimeva; mentre le
asinelle erano affettuose e premurose nei miei
confronti e quando c'era da suggerire o da far copiare
io non aspettavo mai che me lo
chiedessero.
-
-
- Tempi
duri
-
- Qualche
giorno ancora e Francesco avrebbe compiuto
sessantaquattro anni.
- A
qualcuno potrebbero sembrare tanti, ma non a lui, al
protagonista di questa storia, rimasto un ragazzo, un
bimbo, oserei dire, un timido bimbo pieno di paura e
timoroso di tutto, segnato da un avvenimento
capitatogli nella sua infanzia, un avvenimento che era
sempre lì, davanti ai suoi occhi, come
un'immagine tatuata nella sua mente.
- Francesco
non conobbe il padre, don L. V., uomo aitante, gran
lavoratore, un commerciante nato che certamente gli
avrebbe fatto fare una vita del tutto diversa,
parallelamente opposta a quella a cui il ragazzo fu
obbligato, costretto, proprio a causa della sua
prematura scomparsa.
- Ultimo
di una nidiata di sei figli, non avendo ancora
l'obbligo della scuola, toccò a lui, al piccolo
Francesco, come al ben noto Davide biblico, condurre
ogni giorno le cinque pecore al pascolo.
- Era
un lavoro immane per un bimbo di poco più di
cinque anni.
- Doveva
far attenzione alle bestie, il che significava, farle
mangiare il più possibile, cercare di non farle
entrare nei campi coltivati, farle camminare in fila
indiana lungo il margine della strada, ed evitare, il
più possibile, le guardie campestri
perché, benché il ragazzo si attenesse a
tutte le regole, ogni volta che lo incontravano, non
mancavano mai di rimproverarlo, e poi di passare, a
raccontare proprio l'opposto, da donna Regina, la
madre del piccolo che, per tenerli buoni, non li
faceva mai uscire dalla sua casa a mani
vuote.
- La
vita dell'orfanello o meglio del piccolo mandriano non
era per niente felice.
- Ogni
mattina di buon ora, appena la madre aveva finito di
mungere le bestie, con in tasca un tozzo di pane,
alcuni fichi secchi o una o due carrube e nella
piccola mano destra una vecchia e nodosa mazza, col
tempo bello o cattivo spingendo la piccola mandria, il
bimbo s'avviava per le strette vie di campagna
allontanandosi da casa di tre, quattro a volte anche
di cinque chilometri. Sceglieva i tratturi meno
frequentati perché c'era più
possibilità che l'erba non fosse
calpestata.
- Ma
non sempre le pecore trovavano subito quello che
cercavano costringendolo, volente o nolente, a
seguirle con gli occhi ben aperti perché i
pericoli, sempre in agguato, non erano
pochi.
- Spesso
veniva importunato dai cani, uno, a volte due cani
randagi, che si divertivano con il loro abbaiare e col
mostrare i bianchi denti aguzzi a spaventare non solo
le pecore ma anche il ragazzo che riusciva a farli
andare via minacciandoli con quella specie di bastone
nodoso, il cui scopo principale era però,
quello di far camminare le pecore una dietro
l'altra.
- Un
giorno però, un giorno indimenticabile, un
giorno che mai più si sarebbe cancellato dalla
memoria di Francesco, non una, non due, ma ben quattro
cani e uno di stazza abbastanza grossa, attaccarono il
piccolo gregge avventandosi contro la pecora
più giovane. Francesco, benché
terrorizzato oltre ogni dire, cercò di
allontanarli gridando a squarciagola e colpendoli col
bastone. Ma le quattro bestiacce sembravano non
preoccuparsi né del bastone né tanto
meno di lui e dei suoi strilli, anzi, due di essi
cercarono di scagliarglisi contro, tanto che, temendo
per la propria vita, il ragazzino fu costretto a
trovare scampo, prima sul basso muretto e poi a salire
su un albero incominciando a piangere.
- Ma
le sue lacrime, gli strilli e il bastone non sarebbero
serviti a niente se un vecchio cacciatore non fosse
accorso in suo aiuto.
- Lo
sparo, infatti, spaventò i cani che scapparono
via abbandonando ragazzino e pecore sotto
shock..
- L'uomo
conosceva bene sia il ragazzo sia la sua famiglia,
essendo stato, per un certo periodo, alle dipendenze
del defunto genitore del ragazzo. Perciò, per
paura che i cani ritornassero a importunarlo, decise
di accompagnarlo a casa lui stesso.
- "Scendi,
scendi piccolo, non avere paura, non piangere
più, i cani sono scappati via. Raduna le
pecore, ti accompagno a casa", disse porgendo a
Francesco la mano destra per aiutarlo a
scendere.
- Ma
il ragazzo, come paralizzato, continuava a gridare,
piangere e tremare rimanendo immobile
sull'albero.
- L'uomo
fu costretto a salire lui sull'albero, prendere di
peso il ragazzino e metterlo a terra aiutandolo anche
a radunare le pecore.
- Poi,
assieme, piano piano, ripresero la via del
ritorno.
-
-
- Respirate
gente, respirate
-
- Sì,
ero scesa dal letto proprio dal lato sbagliato, quella
mattina, o come dice l'insegnante di yoga, non aveva
respirato bene. Allora senza indugiare sulla
depressione che non aspettava altro che impossessarsi
di me, seguii il consiglio dell'insegnante e, messomi
davanti allo specchio, incominciai con ritmo adeguato,
prima a inspirare e poi a espirare.
- Tempo
due o tre minuto e l'immagine riflessa dallo specchio
era quella di una bimba di dieci o undici anni con
esili treccine che arrivavano alle spalle e con
indosso un vestito color canarino, impreziosito al
collo e alle maniche da un bordino bianco lavorato
all'uncinetto.
- Come
in trance mi sembrava di ricordare quella bimba, anzi
quel giorno di metà giungo del 1943. Correvo su
e giù per il paese, con la mia inseparabile
compagna, la mia amata bicicletta. Pedalare era la mia
passione anche se il vestitino, ricavato da un
lenzuolo alleato comprato di contrabbando e tinto con
la buccia di melegranate, non era proprio l'ideale per
correre in bici.
-
- Il
mio paese a quel tempo, aveva poche strade, era un
piccolo paese di quattro o cinquemila anime;
perciò, in poco tempo, riuscivo a percorrerlo
tutto in lungo e in largo. Infatti, dopo neanche dieci
minuti, il percorso era quasi completo, rimaneva solo
la strada che portava alla scuola. E verso la scuola
mi diressi percorrendo la strada a zig
zag.
- Ad
un tratto, quando mancavano poco più di
cinquanta metri dall'edificio scolastico, un
incontro...
- "Buon
giorno professore".
- "Buon
giorno... dove te ne stai andando? Dov'è la
cartella? Non mi dire che hai dimenticato che oggi ci
sono gli esami?"
- A
quel tempo la scuola occupava l'ultimo posto nella mia
mente, anzi, per essere franca, non ne occupava
nessuno. Il mio pensiero era preso dalle tantissime
cose che avrei potuto fare la mattina senza andare a
scuola, e il pomeriggio senza l'assillo continuo di
mia madre che mi chiedeva: "Hai studiato? Hai fatto i
compiti?"
- "Si
professore, vengo subito."
- Con
una virata da campione e pedalando all'impazzata
arrivai a casa. Lasciai la bici per strada e in meno
che non si dica, indossai sul bel vestitino, l'ormai
striminzito e vecchissimo grembiule.
- "Mamma
ci sono gli esami, io corro a scuola, mandami subito
la cartella con Pierino."
- "Dove
vai? Torna indietro! Dov'è la cartella?" chiese
mia madre cercando di trattenermi.
- "Cercala,
trovala, non lo so: io devo essere a scuola prima che
facciano l'appello". E mi dileguai.
- Bussai
alla porta proprio quando il professore stava per
chiamarmi.
- "Chiudi
la porta e vai al posto", ordinò il
professore.
- Non
mi mossi, rimasi sull'uscio aperto aspettando la
cartella.
- "Non
hai sentito? Chiudi la porta e vai al posto, devo
continuare l'appello", sollecitò il professore.
Ma accorgendosi che le mie mani penzolavano
inutilizzate: "Come, ti presenti agli esami
così? Dov'è la cartella, i
li...?"
- Proprio
in quel momento Pierino, tirandomi per il braccio, mi
porse la cartella, e io, dopo aver chiuso la porta,
andai a sedermi.
- "Grazie
a Dio possiamo continuare, è arrivata anche la
cartella", puntualizzò il professore che oltre
ad essere bravo aveva anche uno spiccato senso
dell'umorismo.
-
- Anche
se il viso era umido di pianto, il ricordo mi fece
molto bene, e mi fece bene anche la respirazione ben
fatta che, automaticamente, senza rendermene conto
avevo, nel frattempo, praticata.
-
-
- L'ingenua
-
- "Dai
ma', datti una mossa; è più di mezz'ora
che ti giri e ti rigiri. Sono sicuro che ci stanno
già aspettando".
- Ciccio
aveva delle ottime ragioni per essere impaziente.
Quella sera doveva fidanzarsi o, come soleva dirsi ai
suoi tempi, portare parola di matrimonio a Rita, la
compaesana con la quale, da alcuni anni, scambiava
sguardi significativi e lievi strisciatine di braccai
durante le passeggiate lungo il corso del
paese.
- Dopo
tutto quell'ansimare, fra poco, avrebbe potuto
finalmente stringere la mano e sedersi vicino a colei
che, in quel momento, rappresentava per lui
realtà e sogni insieme.
- All'intima
e semplice cerimonia erano stati invitati i parenti
più stretti di entrambe le famiglie. A Ciccio e
ai suoi genitori l'obbligo di portare alla futura
sposa l'anello; i parenti dello sposo, volendo o
meglio potendo, le portavano piccoli regali
utili.
- Ormai
non si aspettava che comare Assunta, la madre di
Ciccio, per recarsi insieme dalla
promessa.
- La
casa di Rita, rimessa a nuovo per l'occasione, era
già al completo di parenti e
cibarie.
- Appena
entrato, Ciccio cercò subito lo sguardo
dell'amata. Anche lei era stata colta dalla stessa
ansia perché gli sguardi si incrociarono e un
fremito vivissimo, simile ad una forte scossa
elettrica, attraversò dalla testa ai piedi i
due giovani corpi.
- Il
padre della fidanzata, don Peppe, un uomo di mondo e
amante del ballo, invitò un suo amico musicista
alla cerimonia 'per far fare due salti alla bella
compagnia'
- Mentre
i quattro genitori, chiusi in cucina, discutevano e si
accordavano sul 'che gli dai, che le dò', gli
altri, messi a loro agio dall'idea di don Peppe,
ballavano al vibrante suono della
fisarmonica.
- Tutti
cambiavano dama o cavaliere quasi a ogni ballo, tranne
i due innamorati, che non avevano occhi che per se
stessi fin quando... la bella Rosina, cugina di Rita,
"Mi fai fare un ballo con Ciccio?", chiese senza
preamboli alla neo-fidanzata.
- Ciccio
non aveva mai visto prima Rosina perché abitava
in un altro paese; ma la ragazza era messa molto bene,
superando in tutto e di gran lunga Rita.
- Un
po' imbarazzato, il neo-fidanzato, tenendo ancora tra
le braccia la sua amata, rivolse a costei uno sguardo
supplichevole e l'ingenua
acconsentì.
-
- Cosa
si siano detti i 'due' durante quell'unico e galeotto
ballo non fu mai svelato a nessuno. Di certo
c'è però, che quella stessa notte Ciccio
e Rosina diventarono marito e moglie.
- Ciccio,
finché visse, non perse mai l'occasione di
rinfacciare alla moglie il suo furbesco e sleale
'accalappiamento'. Ma Rosina, senza scomporsi
minimamente, gli rispondeva a tono cantandogli: "Te
piasciut, te piasciut, tiena till cara
cara...".
|